LIBERALISMO SOCIALISTASiamo lieti di pubblicare in risposta a Bauer uno scritto di Rosselli che avrà un notevole significato di chiarimento. Il pensiero di Rosselli è di un socialista che non è rimasto estraneo di fronte alle critiche e alle esigenze poste da Rivoluzione Liberale. Una volta ammesso, come ammette Rosselli, che il socialismo è conquista da parte del proletariato di una relativa indispensabile autonomia economica e l'aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia, il passo più difficile per intenderci è compiuto. Anche il nostro liberalismo è socialista se si accetta il bilancio del marxismo e del socialismo da noi offerto più volte. Basta che si accetti il principio che tutte te libertà sono solidali. Al punto in cui stanno le cose ci sembra indispensabile che intervenga nella discussione un socialista che porti la voce degli organi responsabili sul tema del rinnovamento che Rosselli afferma essersi venuto silenziosamente creando negli ultimi anni in seno al partito socialista. Cos'è il liberalismo?Salandra, Albertini, Einaudi, Amendola, Missiroli, Turati rivendicano tutti da punti di vista spesso opposti la qualifica di liberali. La spiegazione più semplice ma anche più superficiale di questa pluralità di significati assunti dalla parola "liberalismo" sta nella influenza ancora grande che esercita la tradizione liberale. Se Salandra o Sarrocchi avessero avuto la dignità di rivendicare il nome corrispondente alla loro funzione conservatrice, per non dire reazionaria, potrebbero continuare in eterno a far lezione o a difendere in Corte d'Assise. In Italia non si vota per il "conservatore". L'Italia è il paese delle etichette; e come si spaccia il "Chianti" di Pontassieve, si spaccia il "liberalismo" di Salandra. Una spiegazione più soddisfacente la si trova mediante l'analisi storica. Sino a che l'ideologia liberale dovette fronteggiare l'ideologia assolutista e il vecchio principio legittimista, il suo significato non fu contradditorio e le correnti che ad essa si richiamavano rimasero unite in una lotta vitale di utilità generale. Dopo la rivoluzione francese colla parola liberalismo si indicava qualche cosa di assai preciso. Liberali erano coloro che opponendosi alla autorità assoluta della Chiesa e dello Stato vedevano nella libertà lo strumento fondamentale per il progresso umano. Ma col definitivo tramonto delle ideologie assolutistiche è naturale che dal vecchio tronco nuove correnti si distacchino e giungano financo ad urtarsi nella loro autonoma evoluzione. Dopo la vittoria della corrente genericamente liberale tutti sono in certo modo liberali, tutti si affermano, volenti o nolenti, su un minimo comune denominatore liberale. Tutti affermano una serie di libertà; libertà di culto, di pensiero, di associazione, di stampa; tutti pongono nella volontà del popolo espressa attraverso il meccanismo rappresentativo il nuovo fondamento del potere. Solo che i limiti posti all'esercizio di codeste libertà e la interpretazione della parola popolo (vedi diritto elettorale sulla base censuaria) sono diversissimi. E sopratutto lo spirito che anima queste correnti si è andato facendo radicalmente diverso. Poi alcune esigenze progressiste sono venute ormai meno, una volta compiutamente raggiunti gli obbiettivi di classe. La prima conseguenza logica di queste sintetiche osservazioni tutt'altro che originali, è che non è possibile affermare senz'altro con sicurezza inoppugnabile quale sia il contenuto preciso del liberalismo e di conseguenza quale delle diverse correnti ne sia in un concreto momento storico la più legittima erede. Anche per un altro motivo: che la esigenza liberale si è venuta affermando in epoche diverse in tutti i lati, in tutti gli aspetti della vita: in religione, in finanza, in economia, in politica, in diritto. E per quanto per bocca di Francesco Ferrara si potesse dire che tutte le libertà sono solidali tra loro, non é chi non veda come nei diversi paesi e dalle varie correnti sedicenti liberali ben diversamente vengano apprezzati i singoli valori affermati dal liberalismo. Su un punto mi pare che ci si possa mettere d'accordo; punto che almeno per me costituisce la premessa indispensabile per tutto il ragionamento successivo. E cioè non stare il liberalismo in un assieme statico di principi e di norme. Esso è da considerarsi invece in continuo divenire, in via di perpetuo rinnovamento e di perenne superamento delle posizioni già acquisite. Il contenuto concreto del liberalismo muta nel tempo; quel che è fondamentale è lo spirito, la funzione immortale, l'elemento dinamico e progressista insito in esso. Sistema e metodo liberaleTutto il conflitto tra le varie correnti liberali sembra che si riassuma nella opposizione tra i seguaci del "sistema" e i seguaci del "metodo" già posto chiaramente in luce dal Papafava ma, come vedremo, da un angolo visuale assai diverso. Da un lato stanno i seguaci del "sistema" inteso come una somma di dati principi economici, giuridici, sociali, sui quali si regge lo Stato moderno. Questo sistema che pur non essendo del tutto rigido è racchiuso entro limiti angusti, contempererebbe equamente, a detta dei suoi fautori, le due forze, la individuale e la statale e, assicurando la stabilità del regime, garantirebbe nel migliore dei modi le possibilità di progresso. Il sistema si riassume in una formula: sistema capitalistico, borghese. Suoi postulati fondamentali, oltre quel minimo liberale già posto in luce, sono: proprietà privata illimitata, diritto di eredità, libera iniziativa in tutti i campi, quindi liberismo, lo Stato concepito sopratutto come organo di polizia. Per taluni dei suoi seguaci il sistema liberale finisce per ridursi quasi al liberismo. Dall'altro stanno i seguaci del "metodo" liberale avente come premessa fondamentale che la libera persuasione del maggior numero è il miglior mezzo per raggiungere la verità (Papafava). Il metodo viene inteso come un complesso di norme che stanno a base della vita dei popoli a civiltà europea, come un complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta si impegnano di rispettare in quanto servono ad assicurare in modo definitivo la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi, a mantenere gli urti entro limiti tollerabili, a permettere la successione al potere dei vari partiti e classi, a incanalare nella legalità le forze innovatrici e progressiste. In una parola il metodo è una sorta di "minimo comune denominatore" di civiltà buono per tutti gli individui, gruppi, partiti, e costituisce in certo modo l'atmosfera della lotta. Esso sta a rappresentare il veicolo per il quale è dato a tutte le forze di affermarsi nella vita sociale per le vie legali. Per quanto non sia suscettibile di una definizione rigida oggi può dirsi che si concreti nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nel rispetto dei diritti delle minoranze, nell'affermazione di taluni diritti fondamentalmente acquisiti inalienabilmente alla coscienza moderna, nel rinnegamento della dittatura e della violenza. Dico subito che la distinzione più sopra tracciata tra sistema e metodo é rigida e schematica; difficile riescirebbe individuare seguaci del sistema che non accettino almeno in parte il metodo e viceversa. I passaggi sono graduali ed è dato anche vedere seguaci di una medesima corrente assumere posizioni differenti a seconda degli eventi e delle epoche storiche. Tuttavia alla luce di questa prima sbozzatura mi accingo brevemente ad esaminare le diverse correnti sedicenti liberali che si hanno attualmente in Italia tralasciando quella anarchica che sembra a me sia fuori della tradizione liberale (forma se mai degenerativa) per quanto non è da escludere che in concreti momenti storici possa compiere una utile funzione critica. SalandraPer i liberali "marca Salandra" il liberalismo si risolve tutto o quasi nell'affermazione della laicità dello Stato e nella esaltazione dei così detti valori nazionali. Seguaci rigorosi del sistema così come venne foggiandosi e poi per opera loro cristallizzandosi ad uso e consumo della frazione più retriva della borghesia, non esitano, posti a scegliere tra il metodo e il sistema, a sacrificare il primo al secondo. E' evidente che al centro del pensiero liberale sta l'idea di libertà. Idea di libertà che anch'essi concretano in una serie ben definita di diritti del cittadino e delle collettività parziali sanzionate dallo Statuto. Ora i cosidetti liberali di questa categoria hanno più volte dichiarato con un toupé portentoso che tra libertà ed autorità stanno per l'autorità. Ammettiamo il fascismo, ha detto Salandra nel discorso della "Scala", perché ha ripristinato la autorità dello Stato anche se a sacrificio della libertà. E precisamente ha dichiarato che "dello Stato elemento essenziale è l'autorità, non la libertà". Il solo fatto di porre a contrasto il principio di libertà e il principio di autorità lo relega fuori del liberalismo, appunto perché il liberalismo è il tentativo di una conciliazione permanente, attraverso il meccanismo rappresentativo ed il rispetto di una sfera invarcabile di autonomia nel cittadino, del principio di autorità con quello di libertà. Cosa si deve dire quando addirittura il contrasto viene risolto a favore del principio di autorità? Il liberalismo si dilegua. Né vale la scusa del periodo di crisi, perché appunto la bontà di qualunque sistema, particolarmente del liberale, si prova nei periodi di crisi. In tempi di bonaccia tutti sono buoni a governare liberalmente. Spirito formale e giuridico, il Salandra, percependo forse le difficoltà di una simile posizione, corre ai ripari cercando di tracciare una assurda distinzione tra i diritti, le libertà civili, e i diritti, le libertà politiche. Le prime sarebbero, a suo parere, le sole essenziali in quanto implicano la piena disponibilità della propria personalità e dei proprii beni (la sottolineatura è mia); le seconde potrebbero essere invece concesse o revocate in quanto implicano il potere su altri uomini. Pur essendosi ben guardato dallo scendere ai particolari, il Salandra non si è avvisto che è sufficiente a far precipitare nel vuoto la sua distinzione il rilievo che il diritto di proprietà che egli pone tra i diritti, le libertà civili, implica un potere e quale potere su altri uomini. Ma che cosa si deve poi dire di codesta famosa quanto misteriosa autorità dello Stato cui il Salandra si richiama? E donde deriva? Ecco sorgere in tutta la sua maestà il "mito dello Stato" che sorellianamente dà a questi pseudo liberali salandrini l'intuizione di una società... passata. È venuta veramente l'ora di sgonfiare questa vescica per dirla coll'ex-Duce. Non perché lo Stato, inteso come ordinamento giuridico, non esista, ma perché troppo spesso con questa parola si fa del basso contrabbando. Senza giungere alle formule eccessivamente sempliciste del Marx (Comitato d'affari della borghesia) e del Lenin, (esercito e burocrazia, organi di coercizione della società borghese) pure è da ascriversi a sommo merito della scuola marxista l'aver saputo penetrare il mistero hegeliano che fa dello Stato il dio in terra, il ficcanaso universale, la suprema manifestazione della idea etica. Salvemini ha insegnato un po' a tutti a decifrare i documenti politici del secolo XX. E diabolicamente consiglia ogni volta che s'incontri la parola Stato di sostituire ad essa la parola o le parole che effettivamente gli scrittori intendono o dovrebbero usare; come sarebbero a mo' d'esempio: Governo, classe dominante, plutocrazia, burocrazia, proprietari fondiari, proletariato, industriali, generali, Mussolini, Dumini, ecc., ecc. Applicato il consiglio mi sono accorto che tutti i discorsi filano e rivelano chiarissimamente il loro significato recondito. L'ultimo discorso gentiliano celebrante la moralità del manganello si presta ad una serie di esercitazioni deliziose. Concludendo, non si vede più per quali titoli l'on. Salandra possa rivendicare la tradizione liberale, ora che ha fatto anche getto del principio della laicità dello Stato per correr dietro al basso clericalismo fascista, ora che ha negato o è in via di negare la stessa unità nazionale ponendo il suo avvallo alla distinzione fra "nazionali" e "antinazionali". AlbertiniAmpio e nobile è il respiro di un Albertini, di un Einaudi, forse anche di un Amendola. Essi incarnano tra noi la forma classica o all'inglese del liberalismo difficilmente contenibile in formulette brevi e schematiche. Molte le sfumature. Più accentuata la tendenza a ridurre il liberalismo al liberismo in Einaudi, più antidemocratico Albertini. A me é sempre sembrato che la posizione di questi scrittori che han fatte proprie le esigenze della borghesia liberale, menasse necessariamente alla contraddizione specie nei periodi di crisi violenta quando nuove forze sociali affiorano e minano l'antico ordinamento. La loro contraddizione sta nel tentativo di fondere oggi, in pieno secolo XX, ben diversamente da quel che poteva seguire settant'anni fa col Mill, il sistema col metodo liberale. La conciliazione non è più possibile. Perché da un lato, per il rispetto che si professa per il metodo, si riconosce il diritto a qualunque tendenza, anche la più antitetica al sistema, di farsi avanti e di conquistare il potere per modificare il sistema stesso. Dall'altro, per la fede profonda nella bontà del sistema, in alcuni troppo assoluta per dei veri liberali, si pone il liberalismo in un cerchio chiuso e si finisce in pratica per rispettare il metodo liberale solo nei confronti di chi, muovendosi all'interno del regime capitalistico con mentalità borghese, non mira a sovvertire il sistema. Tipico a questo riguardo è l'ultimo libro, del resto interessantissimo, di Einaudi: "Le lotte del lavoro". Egli appunto pone il movimento operaio in un circolo chiuso. Neppur pensabile è per lui l'ipotesi che si abbiano un giorno a superare le colonne d'Ercole del capitalismo. Muove da una premessa statica, conservatrice, che racchiude tutte le infinite possibilità di un domani anche lontano in una sorta di muraglia della Cina teoretica entro la quale dovrebbe essere necessariamente contenuto il moto emancipatore delle folle. E' un liberalismo in sostanza conservatore, tutto astratto e nella prassi che rimane allo stato teorico come sospeso nel vuoto dei concetti e che si dibatte, come dicevo, nella contraddizione tra metodo e sistema. Ecco il dramma del liberalismo ufficiale italiano: generare la creatura e mozzarne le ali; dar vita implicitamente a tutte le correnti sovvertitrici per poi negar loro preventivamente la facoltà, il diritto, financo la possibilità di superare la realtà da cui e in cui sorgono: cioè la realtà capitalistica. Vedere nella storia un perpetuo divenire, una serie di equilibri successivi, una perpetua negazione dell'ieri e del domani, per poi isterilirsi in una dogmatica affermazione della bontà superiore, in via assoluta ed eterna, della realtà attuale. Il dramma balzò in tutta la sua evidenza negli anni che precedettero e seguirono immediatamente la marcia su Roma. Quel medesimo Albertini che tanto aveva tuonato, e non sempre a torto, contro l'insulso verbalismo rivoluzionario e il vuoto illiberalismo dei nostri estremisti del '19 e '20, doveva assistere silenzioso, quando pure non consenziente, alle gesta fasciste del '21 e '22 che dovevano finire logicamente per travolgere, nella interessata difesa del minacciato sistema, le ultime reliquie del metodo. E se oggi egli si è riscattato ed ha riafferrato il senso della sua missione, oltre tutto di illuminata conservazione, gettandosi nella lotta pur di difendere, non dico più il metodo, ma i principii stessi del viver civile, non per questo si può dimenticare il passato ammonitore. Papafava del resto aveva già posto in astratto i termini della contraddizione. Pur ritenendo che un vero liberale, un "liberale al quadrato" come egli spiritosamente ama chiamarsi, deve osservare e sistema e metodo, riconosce nel metodo il fondamento ultimo e più vero del liberalismo. Il vero liberale, egli dice, conseguente sino alla fine, deve sapere anteporre il metodo al sistema, sacrificando le sue esigenze individuali e di classe a patto che le forme della lotta vengano universalmente rispettate. Egli deve essere così eroicamente ottimista e sicuro della bontà delle sue idee (sistema affidato al metodo) da esser pronto a permettere l'esperimento avversario, fosse pure quello comunista, purché esso avvenga col rispetto del metodo. Io però mi chiedo se l'astratta e nobilissima figura di liberale che Papafava ha fissato, non sia limitata in concreto ad uno sparuto gruppo di intellettuali capaci di astrarre dai proprii personali interessi per elevarsi ad una visione critica e spassionata del divenire sociale. Quali sublimi virtù di sacrificio, di comprensione, di tolleranza, dovrebbero possedere costoro! L'ottimismo di Papafava che affida le sorti del liberalismo alla classe dominante deve cedere di fronte a quella tendenza storicamente affermatasi per cui ogni classe tende a far prevalere con ogni mezzo - quando non urti contro ostacoli troppo gravi - i suoi particolari interessi, e non è normalmente disposta a lasciarsi pacificamente e consapevolmente soverchiare e distruggere, pur di mantenersi fedele a un complesso di norme di condotta che si riassume nel metodo liberale. Certo non corrisponde alla bassa realtà dei giorni nostri, dove una borghesia arretrata e cieca ha figliato la squadre d'azione. MissiroliDai puri seguaci del sistema attraverso la corrente liberale sospesa tra metodo e sistema si passa ai puri seguaci del metodo. Esiste in Italia un gruppo di scrittori che, relegandosi in una atmosfera se possibile più ascetica, critica, obbiettiva del Papafava, risolvono appunto il liberalismo nel metodo. Basta ricordare Prezzolini e Missiroli. Nessuna idea concreta, nessuna esigenza precisa li spinge all'azione. Nessun valore si propongono di realizzare. Sono spettatori, critici, desiderosi di intendere ogni voce che si levi dal tumulto sociale, pronti ad inchinarsi a tutte le forze comunque scaturite, dovunque dirette. Almeno così sembra. Prezzolini ci ha detto proprio su queste colonne con parole accorate e pessimistiche che il liberalismo è cosa da signori, da spiriti superiori, retaggio di una élite che rimarrà sempre tale e che è fatale venga sempre calpestata in Italia. Con meno scetticismo, ma su una linea sostanzialmente non troppo dissimile almeno nelle premesse si trova il Missiroli. Egli afferma che il liberalismo sta nella comprensione integrale di tutte le forze che rinnovano il mondo. Liberalismo significa sopratutto tolleranza, capacità di intendere le idee avversarie, capacità sino a un certo punto di condividerle. Vedere un fratello nell'avversario, una, parte di sé nel nemico; rinunziare al piacere di credersi possessore dell'assoluto. Ecco lo stato d'animo liberale che non è il più propizio all'azione. La storia per Missiroli è un succedersi senza meta e senza scopo. Educato alle dottrine dello storicismo razionalista, la verità non è, com'egli dice, un dato della coscienza né un fine ideale, ma è nello stesso infinito mareggiare della realtà. Incalzato da una logica implacabile e da una dialettica insuperabile, vede nel liberalismo lo stesso spirito del mondo moderno, il demone che nega, distrugge, corrompe, corrode, la contraddizione permanente in ogni istituto, in ogni idea, in ogni uomo. E' la negazione sottintesa di ogni stato di fatto, è un fuoco inestinguibile che arde nelle coscienze e si consuma nella storia. Partendo da queste premesse gli riesce facile rivendicare come conseguenza del liberalismo, il socialismo. Quali sono, egli domanda, i gruppi che nella storia esercitano, magari inconsapevolmente, una funzione liberale? Sono i partiti estremi, quelli cioé che in quanto estremi, negano in tutto o in parte l'assetto sociale attuale. Essi sono i soli che, sia pure attraverso forme non sempre accettabili, compiono una seria e decisiva opera di rinnovamento. E infatti Missiroli, almeno sino alla marcia su Roma, vide nei socialisti i veri e soli eredi della funzione liberale e in Turati il loro alfiere. Siamo giunti, come è chiaro al più desolato pessimismo, al caos. Ogni direttiva scompare; tutto implicitamente si giustifica. Ciò che è reale è razionale. Non per nulla l'antico direttore della Voce ci propose di costituire la Società degli Apoti. Terribile è questa anarchia intellettuale, per cui tutti i confini si smarriscono e ogni senso del limite scompare. Ma è poi vero ciò che in un impeto di nero scetticismo ha affermato Prezzolini? E' poi vero che tra il liberalismo, il liberalismo inteso come metodo e le masse vi è inconciliabilità assoluta? Il liberalismo e le masseIntanto é chiaro che col negare ogni rapporto tra liberalismo e le masse rivendicando il primo come patrimonio di élites, si dichiara il fallimento per l'eternità della ideologia liberale. Perché un liberalismo che resti affidato alla mente vergine e sovrana di qualche filosofo e storico, e storico-filosofo, un liberalismo cioè che non si innesti su un moto concreto di masse, che non informi gradualmente del suo spirito le folle che non cerchi di conquistare le forze che esprimono e compiono di fatto - magari inconsapevolmente - una funzione liberale nella società, è una pura astrazione. Non si può negare preventivamente che con una insistente opera di educazione, colla diffusione della coltura, che induce alla critica, al relativismo, anche al dubbio, e quel che più conta, al rispetto dell'avversario e del metodo liberale, anche le masse italiane saranno capaci di realizzare grado a grado l'utopia liberale. Basta riflettere che l'Inghilterra ci sopravvanza di un secolo, basta pensare all'enorme somma di esperienze liberamente attuate che ha in tutti i campi il popolo inglese, per giustificare ampiamente la nostra inferiorità. Missiroli pone come "condicio sine qua non" la riforma religiosa, quasi che il liberalismo originasse solo dal cozzo delle fedi organizzate e come se i protestanti fossero tutti dei perfetti liberali antiautoritarii. Si rileggano le pagine apologetiche del Tocqueville nella classica "Democratie en Amerique" e si veda ad es. che cosa intendessero per libertà di culto e di pensiero gli emigrati puritani. Si è voluto da varie parti negare ogni rapporto tra liberalismo e democrazia, financo contrapporre il primo alla seconda. Mentre invece la seconda non è che il logico sviluppo del primo, e il primo non sussiste sostanzialmente in uno Stato rappresentativo moderno senza la seconda. Non si può qui tracciare neppure sommariamente la storia del sistema rappresentativo; ma é noto a tutti quale grande influsso vi abbia esercitato l'elemento finanziario. La necessità del monarca di ricorrere ai beni dei sudditi per far fronte ai crescenti bisogni dello Stato crea per ciò stesso nei sudditi un diritto che sempre più andrà affermandosi: il diritto dapprima di controllare, poi addirittura di determinare, le modalità, l'entità delle entrate e delle spese. L'allargarsi della qualità di contribuente a sfere sempre più vaste di cittadini giustifica l'allargarsi del diritto elettorale. Ma la collettività non si limita a chiedere i beni. Comincia, specie dopo l'affermarsi del principio di nazionalità, a chiedere anche il contributo del sangue. Basta allora questa semplice constatazione per comprendere come il potere di esigere dai cittadini il sacrificio dei beni e del sangue porti finalmente di conseguenza la potestà dei cittadini di controllare, per lo meno, o addirittura di determinare, modo e fine per cui i loro beni e il loro sangue vengono impiegati. Questo diritto di controllo che inesorabilmente si è andato estendendo a tutti i cittadini dello Stato, costituisce il punto necessario di passaggio tra liberalismo e democrazia. Si badi poi che chi anche solo controlla, afferma per ciò stesso la propria personalità indipendente rispetto allo Stato e limita al tempo stesso la libertà e il diritto per l'innanzi sconfinato della collettività. Qui proprio sta il rapporto tra l'elemento finanziario e quello politico giuridico, morale. L'unica base di un Governo moderno viene così ad essere il consenso. A chi obbietta che il popolo non è ancora maturo si oppone che solo coll'esercizio dei suoi diritti e dei suoi doveri di cittadinanza il popolo si renderà degno del potere che detiene. La guerra ha anzi accelerato questo processo con lo spazzare quasi tutte le Monarchie europee. Ormai il popolo deve provvedere da sé al governarsi. E il suffragio e la partecipazione alla cosa pubblica di tutti i cittadini, non appaiono ormai più come un semplice diritto ma uno stretto e imperioso dovere. La libertà, si legge nel saggio su Milton di Macaulay, è l'unica cura per i mali che la libertà da poco conseguita produce. Se il popolo per essere libero deve attendere di esserne degno, in verità potrà attendere in eterno. Chi sono i liberaliSe così stanno le cose Missiroli ha detto bene. Sono veramente i partiti estremi in quanto negatori in tutto o in parte dell'assetto attuale, i depositari del liberalismo. Il partito estremo è la minoranza, anche se minoranza che tende idealmente ad impersonare gli interessi del maggior numero. Ora chi più della minoranza è custode interessato di quei principii di libertà e di tolleranza che le assicurano la vita e l'ascensione? Chi più della minoranza che oppone ad un sistema statico costituito un nuovo sistema magari anticipato nel tempo, magari troppo rigido (il mito), è depositario della funzione liberale, di questa esigenza di progresso, di superamento perenne? Chi più della minoranza - intendo parlare della minoranza storica come il proletariato rispetto alla borghesia - si propone di affermare nella vita sociale nuove forze per l'innanzi calpestate o ignorate? Quale più grande funzione liberale, liberatrice, di quella che si concreta nel movimento di sindacati, cooperative, partiti, che sinteticamente chiamiamo socialiste? Il liberalismo borghese in confronto è cosa risibile, tutto negativo e conservatore, e può formalmente salvarsi solo col rispetto del metodo. Sono dunque le minoranze, le opposizioni, i gruppi ancor deboli, bisognosi per ragioni fisiologiche di un'atmosfera di libertà e di autonomia che assicuri loro la possibilità di sviluppo, le vere forze liberali. La storia, se qualche cosa dimostra, é per questa tesi. Il sen. Albertini non si lasci trarre in inganno, e con lui i buoni borghesi italiani, dal cliché post-bellico, scambiando l'incidente colla norma. Perché solo il movimento socialista e, se si vuole, il movimento operaio degno di questo nome, è capace di fare rivivere in tutto il suo splendore il mito liberale. Liberalismo socialistaMa come si pone oggi per i socialisti il problema della libertà? Essi partono da una premessa fondamentale che li differenzia sostanzialmente da tutte le altre scuole. Per essi la pura libertà spirituale e politica, non ha senso alcuno, quando non sia accompagnata e sorretta da una relativa autonomia e libertà economica individuale. Non per nulla i popoli più poveri ed arretrati in fatto di sviluppo economico sono più facile preda alla dittatura e alle involuzioni in sede politica. Che significato può avere la libertà di pensiero, bene certo supremo, per un popolo che versa nella miseria e nella abbiezione morale e materiale e in cui la grande maggioranza è obbligata ad un duro, estenuante lavoro mal ricompensato, dove l'ambiente stesso, le condizioni obbiettive, han tolto di fatto da secoli i presupposti per l'esercizio della facoltà stessa del pensiero? Il suffragio universale accompagnato dalla miseria e dalla schiavitù, dalla soggezione non solo nella fabbrica ma anche nella vita, non realizzerà mai l'esigenza liberale. La libertà politica sta, o per lo meno dovrebbe stare a cuore, tanto al ricco quanto al povero, tanto al borghese quanto al proletario. Ma mentre per la borghesia la concessione e la conquista delle libertà politiche costituì la sublimazione, il coronamento della sua potenza già affermatasi in sede economica e culturale, per il proletario rappresentò se non l'inizio della lotta per l'emancipazione, la premessa, lo strumento per più rapidamente conseguirla. Forse la generale crisi operaia del dopoguerra trova proprio la sua più profonda origine in una sproporzione tra forza politica e forza economica, nell'aver avuto a disposizione un'arma, formidabile cui non corrispose a tempo un braccio adeguato per impugnarla. D'altronde il perfetto sincronismo non può essere dei meccanismi umani. Fino a che il lavoratore non si sarà assicurato una relativa autonomia economica, fino a che sarà forzato a porre al primo piano il suo bisogno economico, vano è sperare che egli possa veramente interessarsi alla vita politica, vano è sperare la sua adesione alla esistenza collettiva. La quale adesione, sia detto per incidente, non potrà mai aversi unicamente, come ritengono i liberali ortodossi, attraverso il parlamento politico. Ma di ciò in altra sede. Insomma è schiettamente liberale l'azione che i socialisti si propongono di svolgere nel senso appunto di realizzare un complesso di condizioni ambientali tali che a tutti sia data indistintamente la possibilità di godere, di apprezzare e quindi di difendere i valori liberali. I liberali volevano, come ben disse De Ruggiero, la sola rivoluzione politica che consolidasse e consacrasse il loro stato sociale. Le masse democratiche vogliono, per mezzo della rivoluzione politica (questo è il punto più discutibile), giungere alla rivoluzione sociale, cioè allo sconvolgimento di quello Stato che gli alleati della vigilia non tollerano che sia messo in questione. I liberali per scongiurare conseguenze sovvertitrici del principio di eguaglianza e libertà hanno detto: "Libertà ed uguaglianza davanti alla legge". Ma il piccolo borghese e l'operaio hanno sempre trovato abbastanza ironico questo concetto della legalità. Se sostanzialmente il movimento socialista ci appare l'erede della funzione liberale, non si può affermare che dal lato formale esso ne sia sempre stato degno e consapevole. Molte delle obbiezioni che a questo riguardo sono avanzate dai liberali delle altre scuole, alcuna delle quali sono ricordate nel recente articolo del Bauer, ci trovano consenzienti. Il problema consiste precisamente nel far sí che le classi lavoratrici siano pienamente consapevoli e degne del loro compito liberale, rispettose dei doveri che esso importa, e che una revisione delle dottrine e dei programmi, in fondo più formale che sostanziale, si compia. Bisogna che il proletario si abitui a sua volta a rispettare le forme della lotta, si appresti a difendere, a custodire gelosamente, ma anche a non offendere il metodo liberale, che nei suoi confronti significa sopratutto esplicito rinnegamento della violenza. Il problema della violenzaLa critica più comune che si leva dalle fila socialiste contro i socialisti fiduciosi nella bontà del metodo liberale, è di utopismo. Si considera ridicola la posizione di chi afferma che anche col rispetto del metodo liberale sarà possibile la piena affermazione delle classi lavoratrici nella vita sociale. Si domanda: come si può supporre che la borghesia si inchinerà di fronte ad una maggioranza che di fatto le negherà il diritto alla vita? E come si può supporre che questa maggioranza si possa affermare colla scheda, con la legge, colla libertà, col metodo borghese? E' bene a questo punto esser chiari anche a costo di cadere nel semplicismo. Intanto è evidente che la obbiezione parte da un presupposto dimostratosi erroneo e cioè che sia dato giungere al socialismo improvvisamente, con un colpo solo. Gli obbiettatori non tengono poi presente che il metodo liberale non è né borghese, né socialista, né popolare. E' un minimo di civiltà che tutti, per interesse prima personale, e poi umano, si impegnano di rispettare. E' un veicolo che può servire al trasporto di tutte le merci. Ieri servì alla borghesia, domani potrà servire al proletariato. Non sarebbe la prima volta nella storia che uno strumento, una legge creata ad uno scopo dalla classe dominante, servisse poi al partito avverso per lo scopo contrario. La legge De Maiestatis in Roma è un esempio clamoroso. Lo stesso fatto che le opposizioni si appellano oggi alla costituzione che un tempo costituiva la roccaforte dei conservatori, lo dimostra. Molto vi sarebbe da dire sulla forza di inerzia del diritto. Non disprezzino i socialisti, non svalutino a priori lo strumento che ci offre la civiltà nella quale viviamo. Anzi, coltivino questa che potrà anche essere una generosa illusione: i frutti non mancheranno. Può essere, certo, che la borghesia, terrorizzata dalla marea che sale implacabilmente, stretta nelle morse di un movimento operaio pure formidabile nel suo gradualismo e nel suo rispetto per gli strumenti legali dalla borghesia medesime concessi, ricorra alle sopraffazioni, alle armi, alla violenza. Ma si badi: 1) la borghesia non è un blocco uniforme; 2) queste armi vogliono delle coscienze, delle volontà che le impugnino. Esercito, carabinieri, polizia, sono popolo, proletariato non borghesia, sino a prova contraria. Non è detto che all'appello si risponda in eterno; 3) infine, neanche la più ortodossa dottrina liberale nega in questo caso la legittimità della violenza (forza) cui ricorra una maggioranza violentata, per respingere l'illiberale violenza avversaria. Il liberalismo stesso andò soffermandosi in tutti i campi solo dopo lotte sanguinosissime. Ma non sarà stato il proletario a sortire per primo dal terreno convenuto, a calpestare il metodo, le regole di giuoco; e la sua, di fronte alla opinione pubblica che abbiamo visto in questi giorni di quale enorme potenza sia dotata, apparirà una sacrosanta e liberalissima violenza. Non dimentichiamo On Liberty dove viene riconosciuto financo il diritto alla resistenza individuale. Sarebbe l'ora che molti socialisti la smettessero col voler fare i filosofi della storia. Ma è ridicolo voler mettere nei programmi socialisti di tutto un po', legalità e violenza, pace e guerra, democrazia e tirannia pur di prevedere tutto il prevedibile. Incompatibilità liberale socialista?Vengo al secondo punto relativo alla revisione del programma e della dottrina. Qui si appuntano talune fra le critiche più acerbe dei liberali dell'altra sponda, di cui si è fatto eco anche il Bauer. Si dice: come fate a conciliare il liberalismo con una visione finalistica, con un programma preciso e predeterminato come è quello socialista? I liberali non possono sapere a priori come si determineranno gli equilibri a venire. Voi imbottigliate, al pari dei liberali conservatori, il liberalismo. E precisamente col vostro programma socialista così ben specificato e circonstanziato. La critica è giusta se si rivolta contro sorpassate concezioni socialiste e contro certi incartapecoriti teorici e militi i quali si ostinano a voler segnare all'avvenire una via obbligata sin nei minimi particolari. La critica invece non è giusta e solo può in parte colpire uno stato di animo certo ancora diffuso, se si ha riguardo al movimento socialista ed operaio generalmente considerato. Io vorrei pregare molti critici, come il Bauer, di non fermarsi ai programmi e ai libri dei teorici, ma di aver più riguardo ai fatti, alla prassi che certamente sono ben lontani dal rispettare ogni apriorismo dogmatico. E allora si vedrà come molte delle pretese inconciliabilità scompaiono, specie tenendo conto delle critiche fatte più sopra ai puri seguaci del metodo. Ciò beninteso non vuol dire che l'azione socialista si sia svolta sempre su un terreno liberale. Anche il socialismo, inteso come aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia (e per la affermazione le vie non sono poi tante e tanto contraddittorie), è un divenire perenne. Non vi è giorno in cui potrà dirsi realizzato. E' un ideale di vita, d'azione, immenso, sconfinato, che induce a superare di continuo la posizione acquisita conforme all'elemento dinamico progressista dei ceti inferiori che salgono irresistibilmente. Ora lo stato d'animo liberale non sta anche in questa sete indefinita di progresso, di superamento, in quanto ideale di marcia eterna? La critica liberale si arresta di preferenza sul programma socialista e si serve a questo scopo dei libri più idioti di tutta la letteratura sovversiva. E' noto come colla parola "socialismo" si dica tutto e nulla. Una inchiesta indetta in "camera charitatis" tra i socialisti italiani lo dimostrerebbe inconfutabilmente. Tante teste, tante risposte; e talune magari notevolmente discordanti. Dopo Bernstein, che pure esagerò alquanto nella sua reazione, poca rimane da dire in questo campo e sarebbe l'ora che i critici più intelligenti ne prendessero atto e non continuassero ad abusare del facile e grossolano metodo polemico che consiste nel chiedere di quanti articoli si comporrà la legge espropriatrice o nello sfruttare le correnti utopistiche che ancora sussistono per la forza di inerzia e nel demolire le formule mitiche che difficilmente si possono cancellare in un giorno e che sono frutto della ignoranza diffusa e del difetto di abito critico. Del resto in questi ultimi anni grandi e silenziosi mutamenti si sono avuti nella dottrina e ancor più nella prassi socialista, anche se i socialisti non la hanno ancora proclamato - e fa loro torto - alto e forte alle masse. Le recenti esperienze, tutte le esperienze di questi ultimi trent'anni hanno condannato senza speranza i primitivi programmi socialisti. Specie il socialismo collettivista, accentratore, il socialismo di Stato, ne è uscito disfatto. Si credette che a espropriazione improvvisamente avvenuta dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico, passate tutte le attività allo Stato che sarebbe divenuto il gerente universale ("governo di cose e non più di persone"), tutto sarebbe andato per il meglio. Produzione enormemente aumentata, il lavoro ridotto al minimo e reso gioioso, l'uomo libero alfine dalla schiavitù della materia e degli strumenti del suo lavoro. Eliminate automaticamente le lotte, le guerre col cadere di ogni differenza economica, e trionfatrici, sovrane, la fratellanza, la giustizia, l'amore. Ormai nessuno crede più in coscienza a codeste favolette, e sopratutto nessuno crede più che un simile programma possa realizzarsi con codesti mezzi. Tutti vedono i pericoli enormi della burocrazia, della incompetenza, della invadenza statale, dello schiacciamento della libertà individuale, della assenza di interesse. Non parliamo poi del problema della felicità...! Anche per i socialisti le formule semplicistiche, le formule che danno la chiave dell'avvenire e che aprono tutti gli usci han fatto il loro tempo. Non è più possibile avere un programma preciso, preordinato. Solo per grandi linee si può delineare la meta, anzi una meta, una tappa. Occorre adattarsi alle circostanze e tutto a un mondo che dal XIX secolo in qua è in continua vertiginosa trasformazione. Occorre gettar via il vecchio bagaglio dogmatico, che pesa inutilmente sulle spalle e impaccia il cammino, e adeguarsi all'esperienza. Perché solo dall'esperienza liberamente attuata può scaturire l'indicazione per il domani. Indicazioni per l'avvenireLa propaganda e anche l'azione socialista ebbe sino ad ora, e forse fu necessario, un carattere prevalentemente economico. Fu forse necessario perché é assai difficile, per non dire utopistico, andare cianciando di morale, di valori spirituali, di doveri, a chi soffre la fame in un tugurio. Condicio sine qua non è la conquista di una relativa autonomia economica; senza di questa nulla si può fare. Tutto cozza contro la miseria; la miseria è la gran nemica, forse quanto la ricchezza. Ma via via che le condizioni economiche si fanno migliori, via via che la classe lavoratrice riesce ad assicurarsi un tenore di vita decente, e questo è già avvenuto in molti paesi e in Italia almeno per qualche categoria, un nuovo gigantesco problema si pone. Quello della conquista dei beni morali, dell'autonomia spirituale, quello della personalità. L'autonomia economica sta bene. Maggiore eguaglianza, più diffuso benessere sta bene. Ma il socialismo e il movimento operaio non possono arrestarsi a questo punto. Non possono limitarsi a curare il perfezionamento degli ordinamenti collettivi tanto più che qualunque lavoro solido al centro dove avere la sua base nella periferia, nelle singole coscienze. La parola emancipazione va intesa dunque in senso integrale. E infatti in questi anni, nei paesi e nelle regioni economicamente più evolute, queste esigenze d'ordine morale e spirituale si sono venute spontaneamente sprigionando dal seno stesso della classe operaia, prevenendo l'indicazione dei teorici. Così si pongono, proprio da un punto di vista liberale fondamentali problemi che si sono venuti agitando in questi ultimi anni nel mondo operaio. Scelgo un esempio a caso: la richiesta del controllo. A parte i metodi e il giudizio di merito, tale richiesta rivela appunto il sorgere di una personalità nell'operaio che non si accontenta più, e ne ha ben donde, dell'aumento di salario e della diminuzione dell'orario lavorativo, ma che intende affermare in pieno la sua dignità di uomo fuori e dentro la fabbrica. Così ci è dato superare trionfalmente la vecchia obbiezione dei liberali conservatori individualisti e rispondere che alle prove dei fatti è falso che il movimento operaio e socialista annulli la personalità umana e schiacci l'individuo. Il che del resto aveva già da tempo, se non erro, dimostrato brillantemente Arturo Labriola. E' chiaro che giunti a parlare dell'azione futura troppe cose vi sarebbero da dire. In breve mi sembra che, sia in pratica che in teoria, dovrebbe e potrebbe essere di guida ai socialisti un ideale di autonomia e di libertà. Si deve procedere non dall'alto al basso, non dal centro alla periferia, ma all'inverso. Il socialismo in tutti i suoi aspetti non ha da essere frutto di imposizione, ma di conquista, anzi di autoconquista; deve essere una creazione autonoma delle classi operaie. Deve sprigionarsi naturalmente dallo stesso moto operaio, dalle esperienze infinite delle leghe, delle cooperative, delle istituzioni culturali. E' proprio del vangelo marxista la formula che l'emancipazione del proletariato deve essere opera del proletariato stesso. Non bisogna dare troppa importanza alla conquista del potere politico, e considerarla come la conclusione di un gigantesco permeamento dello Stato. Non avere troppa fede nelle leggi, nella legislazione sociale. Si possono fare tutte le leggi, ma se esse non costituiscono la sanzione di uno stato di fatto e non riposano nella coscienza degli uomini, sono vane astrazioni. Insomma i socialisti hanno da avere più fede in loro stessi. Lavorino, esperimentino, senza pregiudizi, pronti a ricominciare e a mutar rotta se è necessario. Non si prefiggano un programma troppo rigido. Ciò che è bene oggi è male o può essere male domani. Credere nella libera iniziativa, nelle creazioni spontanee. Giunti a questo punto cosa rimane delle rancide e stantie obbiezioni dei liberali borghesi che guardando troppo alla carta stampata e poco ai fatti, amano ancora dipingere i socialisti come collettivisti accentratori, negatori di ogni libera iniziativa, spregiatori dei valori individuali? Mi posso considerare liberale?Accenno di sfuggita a quello che a mio parere può, deve essere lo stato d'animo e l'abito mentale di un socialista liberale. Io non credo alla dimostrazione scientifica del socialismo; non credo di possedere la verità assoluta; non intendo inchinare la fronte a dogmi, non mi illudo di avere in tasca la chiave dell'avvenire. Sono socialista per un insieme di principi, di esperienze, per la convinzione tratta dalla studio dell'evoluzione dell'ambiente in cui vivo; sono socialista per coltura, per reazione, ma anche, lo dico forte perché mi sentano certi assoluti deterministi o incartapecoriti marxisti, per fede e per sentimento. Non credo che il socialismo sarà e che la classe lavoratrice si affermerà nella storia per la fatale evoluzione delle cose, volontà umana a parte. A chi mi parla codesto linguaggio replico con Sorel, e qui sta tutto il mio volontarismo: "il socialismo sarà ma potrebbe anche non essere". Il dubbio, ecco il dubbio che sorge, ecco il relativismo che compare; ecco la critica che si afferma. In questo dubbio che spinge prepotentemente all'azione, in questo relativismo che induce al rispetto degli avversari e che li considera come sprone, freno e controllo, in questo demone critico che accompagna ed obbliga a non straniarsi dalla realtà ma anzi a rivedere continuamente, alla luce delle nuove esperienze, e teoria e pratica, sta appunto a mio parere lo stato d'animo liberale di un socialista. Si è detto che il liberale è in fondo uno scettico. Non è vero. E' piuttosto un relativista. Si teme da varie parti che lo stato d'animo liberale conduca ad un indebolimento della teoria e sopratutto a minore fermezza nella fede professata. Ma quanto più solida e radicata é quella fede che non teme la critica e il lavoro di erosione degli avversari, che anzi lo desidera, e che nel bagno diuturno nella realtà trova sempre nuove ragioni per affermarsi. Ma quanto più forte è quel partito e quel moto che riconosce il diritto alla vita ai suoi avversari, che anzi quasi direi li desidera, che dichiara di non rinnegare e non rinnega, nel giorno del trionfo, lo spirito di quell'ordinamento liberale che permise ad esso minoranza oppositrice, di crescere e di rafforzarsi, e che a sua volta permetterà l'esistenza e lo sviluppo di altre ideologie e di altri movimenti ancorché contrari! Giunti a questo punto è bene essere franchi. Per un complesso di fattori che sarebbe troppo lungo esaminare è un fatto incontrovertibile che in Italia non è mai esistito un partito socialista e un movimento operaio che potesse dirsi veramente, in quanto a metodo, specie dal lato formale, liberale. Ma i cinque anni del dopo guerra debbono pure avere insegnato qualche cosa alla classe lavoratrice. E se il mito accreditato dal fascismo, di un fascismo cioè che avrebbe impedito la rivoluzione, può aver distrutto la prima grande esperienza del proletariato italiano, la lotta contro la dittatura fascista avrà indotto al rispetto e all'amore dei principi di libertà e di democrazia. Penso che non sia mero caso che proprio dalle fila socialiste provenga questa volta uno dei martiri più puri della libertà: Giacomo Matteotti. CARLO ROSSELLI
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