Lettere dall'EmiliaIL PARTITO LIBERALENel bel mezzo della città di Bologna, a poca distanza dal Nettuno del Giambologna, sorge la statua di un altro bell'uomo, aitante della persona - vestito questo, però, secondo la moda d'intorno al settanta, con signorile eleganza e gesto compostamente oratorio. È Marco Minghetti. Mi hanno detto che all'erezione di quella statua concorsero alcuni tra i più facoltosi ammiratori dello statista, i maggiorenti del primo nucleo del partito liberale-moderato romagnolo. Se costoro avessero soffocato per un poco quella tenerezza di affetti, che l'eloquio melodioso e il gesto attraente di Marco Minghetti sapevano rapire agli uomini e, più, alle donne, e avessero guardato intorno a loro quello che il "metodo Minghetti" aveva arrecato al liberalismo romagnolo, e in particolare a quello bolognese - chi sa se non avrebbero lesinato il loro tributo di riconoscenza politica. Il "metodo Minghetti" non era tutta cosa sua. In parte era il metodo, meglio la mentalità, il temperamento della parte più propriamente politico-parlamentare dei moderati italiani, che andarono avanti fino al 1876 nell'illusione di "continuare la tradizione di Cavour", mentre applicavano senza genialità alcune formule meccaniche di gioco parlamentare, che avevano visto mettere in opera da lui. Questo modo di continuare portava fatalmente al passaggio da partito a consorteria, che infatti si verificò entro pochi anni. E il partito moderato romagnolo, sotto la guida di Minghetti - che ne divenne l'arbitro dopo la morte prematura di Farini - fu un buon campione di consorteria provinciale. Minghetti ci aggiunse del suo quel certo ondeggiare ed indugiare di benestante, che desidera ardentemente di essere ai primi posti e rifulgere, ma detesta gl'incomodi e gli spintoni; infine quel dilettantismo indorato d'ottimismo, che gli sgorgava dalle medesime fonti della sua eloquenza umanistica ed accademica. Diceva Sella che nel vedere Minghetti a trattare certi affari pubblici gli sembrava di vedere un vaso fragile e prezioso nelle mani di un fanciullo. Con queste disposizioni all'incirca si organizzò intorno alla sua persona l'Associazione costituzionale bolognese, in forma strettamente personalistica (il nume e i grandi sacerdoti); e con questi precedenti il liberalismo romagnolo era destinato a immobilizzarsi e fossilizzarsi più presto e più compiutamente che nelle altre regioni. Quando vediamo, come s'è venuto evolvendo il partito liberale piemontese, e anche in parte quello lombardo o toscano, con tutti i difetti vecchi che ancora riconosciamo in essi ed altri nuovi che si sono presi da altri partiti, ci accorgiamo tuttavia di avere davanti agli occhi organismi che posseggono elementi di vitalità, perché, bene o male, si sono tenuti in rapporto con la vita circostante. Il partito liberale romagnolo era già diventato un organismo morto ai primi del '900, allorché le assillanti necessità di difesa non più dalle organizzazioni politiche radicali e repubblicane, ma dagli assalti mal preveduti delle organizzazioni socialiste contro gli interessi immediati e famigliari dei più facoltosi sussidiatori della vecchia consorteria costrinsero questa a battersi su di un terreno di lotta di classe e di egoismo sindacale, che fu l'ultimo tracollo del liberalismo bolognese e insieme il primo seme del fascismo della borghesia grassa, di quell'aspetto del fascismo, che potremmo chiamare padronale, terriero, che in Emilia ed in Puglia, per analogie di condizioni economiche, ha avuta la prima e più prosperosa fioritura. Non dimentichiamo che Gino Baroncini viene dalla Segreteria dell'Agraria, nella quale si asserragliarono i conservatori romagnoli dopo il '900. Tutto questo, ripeto, derivava da un difetto di origine, da un difetto si potrebbe dire di aeramento. Né Minghetti né tampoco gli altri videro certi caratteri demografici della regione, che era necessario tener d'occhio per far sentire la propria presenza in paese. Non videro p. es. questa caratteristica fondamentale della provincia di Bologna, che il capoluogo non imprime il segno della propria influenza sul contado, ma anzi soggiace volta per volta alle influenze ondeggianti di quello. Se non mi sbaglio è questa una caratteristica dei centri provinciali agrari, i quali non riescono a raggiungere l'autonomia e con l'autonomia la forza propulsiva dei centri industriali. Ma il fenomeno colpisce tanto più a Bologna pel contrasto con ricordi e tradizioni comunali, delle quali ancora permangono vestigie, e con certi aspetti, sia pure superficiali, da città di prim'ordine. I liberali bolognesi (che pure rappresentavano essi stessi uno dei flussi di invasione del contado in città, poiché erano quasi tutti eredi di famiglie della circonvicina campagna emiliana-romagnola passate ad abitare la città con l'accrescersi delle fortune, negli ultimi secoli, (dal cadere del principato bentivolesco in poi) non tennero conto del fenomeno, né nei suoi precedenti storici né nello sviluppo sociale contemporaneo, e si chiusero nel loro guscio, perpetuando un altro precedente, quello dei proprietari terrieri durante il regime papale, viventi spensieratamente in città, di rendite o di debiti, estranei alla vita della campagna che li nutriva estenuandosi ed abbrutendosi. Un moderato per opinioni e per sentimenti, grande amico di Minghetti, ma rimasto estraneo al partito, uno dei pochi che ebbe fede nella necessità prima di rigenerazione della campagna romagnola, Giuseppe Pasolini, scriveva negli ultimi anni parole accorate e piene di delusioni sullo stato delle terre romagnole: "Io credo che questi paesi siano ora i più scomposti d'Italia". "... E' una sciagura, una vergogna per tutti noi. Abbiamo fatto tanto per avere un governo libero; i nostri amici migliori, noi stessi siamo stati al potere, ed il paese è afflitto da quei mali medesimi che lo conturbavano quand'era governato dai nostri avversari...". "Mi sanguina il cuore scrivendovi queste cose. Io forse fui dei meno illusi, ma fui illuso anch'io, perché se non credeva all'età dell'oro, non credeva a questa età che è peggio che di ferro...". "Ciò che mi addolora sopra modo è la tristissima condizione delle mie provincie di Romagna. È corruzione al di là di ogni limite. Ogni più triste passione, ogni più sinistra ambizione ci ha libero corso. Mi sono accorto che abbiamo saputo fare un governo parlamentare, non un governo libero: dispotismo e tirannia possono stare anche con quello...". Ed a Minghetti, scrivendo nel 1865 di un atroce fatto di sangue, una delle tante vendette di parte commesse a Ravenna, scoppia: "È un gran pezzo che sento divorarmi dal fuoco della opposizione: finirò là". (Memorie di G. Pasolini, raccolte da suo figlio. Torino, Bocca, 1915 - II, Cap. XXI). Questi spunti che ho tratti dall'epistolario di un uomo del tutto disinteressato sono rivelatori non solo di uno stato di fatti e di una mentalità faziosa tutt'altro che superata, ma della originaria impotenza ricostruttrice del partito liberale; e l'ultima esclamazione fa comprendere meglio di un lungo ragionamento il fenomeno non infrequente in Italia, meno ancora in Romagna, che uomini di opinioni e di cultura liberali, e forse anche di temperamento conservatore, si guardano con ogni cura dal cadere nella fossa del partito liberale: caso tipico dei nostri giorni Mario Missiroli. Per tutte le deficienze e per l'inerzia, alle quali ho accennato sopra, avvenne che mentre moderati illuminati di altre regioni, come Jacini, mettevano il meglio della loro operosità nel portare a fine la classica inchiesta agraria, i moderati romagnoli si fecero sorprendere dai risultati di essa, che valevano per tanta parte delle terre, nelle quali avevano i loro interessi. Ma il colpo più grave fu dato dal Minghetti dopo lo sbaraglio del 1876, quando fu costretto a trovarsi un collegio politico in un'altra regione, a Legnago, dove ben presto sentì le influenze del nuovo ambiente e ci si adattò con la mollezza ottimista del suo temperamento. E parlando da Legnago infatti, nell'ottobre 1881, gettò alle ortiche il suo paludamento di fiero oppositore, che già tanto gli pesava, e dette mano con Depretis al trasformismo parlamentare. Ma nel far questo non si preoccupava né punto né poco dei suoi amici dell'Associazione costituzionale bolognese, dei quali continuava ad essere il santone, e che abbandonava ad belvas, o poco meno, cioè agli assalti degli azzurri (il partito progressista) e dei cattolici (allora intransigenti, ed a Bologna, a Faenza e in altri centri fieramente intransigenti). Ciò nonpertanto i moderati riuscirono a mantenersi sulle principali posizioni municipali, ad Imola, p. es., col partito Codronchi, a Ravenna ed a Forlì, dove tennero testa per lungo tempo ai repubblicani, a Bologna, dove amministrarono quasi ininterrottamente dal 1875 al 1902 - salvo una parentesi progressista: 1889-90. Aggiungo ancora che l'ultima amministrazione liberale-moderata pura (Dallolio) fu in complesso eccellente e pareva avesse compreso e volesse fare ammenda di alcune colpe dei predecessori. L'allargamento della cinta daziaria faticosamente effettuata dal Dallolio fu un provvedimento, che dimostrava in lui l'intuizione dell'accennato problema demografico di Bologna di fronte al contado. Buone qualità amministrative di individui non bastavano però a tenere in vita un partito che si era rapidamente esaurito e si era rannicchiato in un angolo provinciale, dilettato dalle arguzie di Enrico Panzacchi. Avvenne così che dopo i colpi ricevuti dai vari centri della regione dai blocchi popolari, sotto gli auspici giolittiani, poco dopo il '900, il vecchio partito liberale non si rialzò più. Comuni interessi di difesa da parte dei proprietari terrieri cementarono i blocchi clerico-moderati, che si affermarono qua e là nella regione (a Bologna i clerico-moderati furono al comune dal 1904 al '14 - sindacato Tanari -, aprendo di necessità la strada ad un sindacato socialista, che fu quello Zanardi), ma questo fenomeno di trasformismo provinciale di destra aveva per fondamento non più una visione politica nazionale, ma il programma di difesa economica dell'Associazione agraria. In questo stesso periodo giunse in Romagna qualche riflusso del movimento cosiddetto dei "giovani liberali" fondato da Giovanni Borelli a Milano e dal medesimo Borelli sostenuto in varie parti d'Emilia (specialmente tra il 1910-13) con indicibile spreco di eloquenza. Dati i precedenti del paese e del partito, al quale per necessità si doveva appoggiare, quel movimento non ebbe in Romagna nessun risultato apprezzabile. I giovani liberali furono riguardati dai dirigenti dell'Associazione costituzionale come utili frombolieri da cacciare avanti nei contraddittori contro gli organizzatori socialisti, ma guardati sempre con sospetto e abbandonati alle loro deboli e inefficienti risorse finanziarie, quando pareva che prendessero qualche atteggiamento autonomo o peggio ancora che volessero carpire a volo un seggio elettorale. Quello che è seguito è cronaca di scarsa importanza. Il Tanari ed altri amici del blocco clerico-moderato del 1904 sono entrati, chi prima chi dopo, nel partito fascista: dopo tutto, un atto di coerenza. Altri si sono appartati dalla vita politica militante. Alberto Giovannini si immagina di capeggiare un partito. Il 14 febbraio l'assemblea del gruppo giovanile liberale di Bergamo votò un ordine del giorno col quale si "deplora che la Direzione del partito non si sia preoccupata d'assicurare al partito un'adeguata rappresentanza nel Parlamento, curandosi unicamente di procacciare mandati politici a persone al di fuori delle organizzazioni regionali", e si constata "che l'opera della Direzione è stata dannosa alle organizzazioni e alla dignità del partito stesso". Sfido! La peggiore jattura che potesse capitare al Partito Liberale italiano, in tempi già di per sé stessi difficili, fu che la segreteria diventasse mancipio dei "metodi Minghetti", senza la cultura e la signorilità di Minghetti. Per altro, Alberto Giovannini è entrato a Montecitorio senza colpo ferire. Mussolini, avendogli già data la tirata d'orecchi ammonitrice, la sera del 28 gennaio, ha fatto bene a fare felice un uomo di così modeste esigenze. MARIO VINCIGUERRA
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