I FASCISTI DISSIDENTI

    Il processo Sala-Torre a Roma, e la posizione assunta da Cesare Forni nell'"affare" Matteotti sono occasioni propizie per esaminare la mentalità del fascista "dissidente". Il tipo è uniforme. Il fascista "dissidente" è uno dei più vecchi personaggi di questa vecchia storia italiana, che da secoli rinnova, fra le vecchie case, le vecchie situazioni. Il più completo fascista dissidente resta pur sempre Lorenzino de' Medici: e a rileggere, oggi, le invocazioni alla libertà della Associazione Patria e Monarchia o di Cesare Forni assale talvolta il dubbio che agli italiani non sia concesso procedere oltre la concezione politica della congiura e del tirannicidio, tanto sono identici gli atteggiamenti e il pathos dei documenti odierni e dell'Apologia di Lorenzino.

    Siamo a Firenze, nel 1536. Alessandro de' Medici ha avuto la città come Duca, e la "tiene": come in Italia si son sempre "tenuti" i dominii, come i Malatesta e il Passator cortese "tennero" la Romagna solatia. Praticamente, si viveva a Firenze come si vive, oggi, in una qualunque cittadina emiliana o toscana: sotto maschere e nomi diversi, episodii e protagonisti identici. Alessandro ha instaurato in Firenze lo squadrismo:

    "Il cancelliere di Alessandro uccise nella cancelleria degli otto, senza sostenerne pena alcuna, un pover'uomo, mentreché egli diceva la ragion sua. Il Capretta beccaio del duca dette una sediata sul viso ad Alamanno Alamanni, nobilissimo cittadino, perciocché egli gli domandava una certa quantità di danari, della quale il predetto Capretta gli era debitore. L'Unghero cameriere del Duca, essendo in maschera, uccise a bastonate un povero fanciulletto in piazza ...".

    Sono i fuorusciti che raccontano questo alla Corte di Carlo V, tale quale i fuorusciti d'oggi lo raccontano ai giornali di sinistra di Parigi. E Alessandro ripete contro i fuorusciti, punto per punto, i ragionamenti della stampa fascista odierna contro la speculazione.

    Alessandro ha, come complice, il cugino Lorenzino.





    "Nacque Lorenzo in Firenze l'anno 1514 agli ventitré di marzo, di Pierfrancesco di Lorenzo de' Medici, bisnipote di Lorenzo fratel di Cosimo, e di madonna Maria figliola di Tommaso di Paolantonio Soderini... Cominciò a mostrare un animo irrequieto, insaziabile e desideroso di veder male, e a farsi beffe apertamente di tutte le cose così divine come umane: e dimesticandosi più volentieri con le persone basse, si cavava tutte le sue voglie, e massimamente nei casi d'amore, senza riguardo o di sesso, o d'età, o di condizione... Appetiva stranamente la gloria, e non lasciava tratto né a dire né a fare, onde credesse di acquistarsi nome, o di galante, o di arguto; non rideva, ma ghignava. Fu nel fiore della sua età amato fuor di modo da Papa Clemente e contuttociò ebbe animo di volerlo ammazzare".

    L'uomo é completo, nella pittura che ne fa Benedetto Varchi. Ora, si badi alla viltà della nostra storia, e alla miseria della nostra vita politica: che un uomo simile potesse passare per eroe, e, come si dice, vendicatore della libertà, è fenomeno assolutamente italiano.

    Lorenzino, accanto ad Alessandro, gli fa tutti i più compiacenti servigi: agente provocatore, ruffiano. Alessandro è il tiranno di modello italiano, e Lorenzino ne acquista tutta la fiducia:

    "...e perché si mostrava di vilissimo cuore, non volendo, non che portare o maneggiare armi, sentirle ricordare, il duca ne prendeva piacere come di pusillanime; e non tanto perché egli studiava, quanto perché andava molte volte solo e pareva che non apprezzasse né roba né onori, lo chiamava il Filosofo".

    Lorenzino è, dunque, un intellettuale del regime mediceo: oggi potremmo chiamarlo un intellettuale revisionista, di quelli che passano per le teste quadre della politica italiana, e che vedono riportare le loro sentenze al posto d'onore in tutti i giornali dei tremebondi stenterelli liberali. Giuro che oggi Lorenzino - che non rideva ma ghignava - sarebbe seguace di Massimo Rocca: o maestro.





    Ma nel 1536, non essendoci ancora tanta facilità di ottenere celebrità con le parole stampate, occorreva mettere mano alle coltella. Lorenzino decide di "liberare la patria". Egli sa che "la libertà è bene, e la tirannide è male". Egli odia la tirannide, perché Alessandro lo secca con quel nomignolo di Filosofo; perché gli piglia la precedenza, quando si tratta di "cavarsi tutte le voglie, massimamente nei casi d'amore". Ama la libertà, perché il regime della libertà ha fatto finire Atene e Roma: e la storia, antica gli turbina pel capo coi nomi di Caligola, Nerone, Falaride, Ierone, e dei loro ammazzatori. E' da una contaminazione della letteratura colla libidine, che nasce il suo amore alla libertà. Ancora una volta: vi prego di rileggere le proteste del cavadenti Raimondo Sala, magnanimo vendicatore in libertà di Alessandria e Mandronii. E' gustoso, ed è affatto lorenzinesco. Fino al maggio del 1923, culo e camicia con Torre, con Mussolini, con tutti i "tiranni": da un giorno all'altro amore per la libertà odio per le concussioni di Torre generoso sdegno per gli immobili comprati dal piccolo tiranno e per le altre voglie che il tiranno va cavandosi coi vaglia del Credito Lionese di Genova. E ricordate il motivo che determinò Cesare Forni al "dissidentismo": i favori della "oscena bagascia" e le storie sanguinose-sadistiche di un certo castello nel pavese, donde germinò nella testa di Forni l'accettazione della "libertà" - della "sua" libertà, contro l'on. Giunta... Ma torniamo al Cinquecento.

    Lorenzino dunque si converte all'odio attivo contro Alessandro. Udite i suoi piani:

    "In quel mentre andava intrattenendo un Michele del Tavolanino omicida, per soprannome Scoronconcolo, a cui aveva fatto riavere il bando nel capo... e spesse volte ragionando si doleva forte con esso lui, che un certo saccente di corte aveva tolto a uccellarlo e prendersi gioco de' fatti suoi: ma che al nome di Dio... Alle quali parole Scoronconcolo risentitosi subito, disse: "Ditemi chi egli è, e lasciate fare poi a me, ch'è non vi darà mai più noia". E Lorenzino gli rispondeva: "Ohimè no, ch'egli è un favorito del Duca". "Sia chi si voglia" aggiungeva Scoronconcolo: ed usando le parole, che sogliono avere in bocca cotali sgherri, diceva: "Io l'ammazzerò anco se fosse Cristo".





    In breve: la congiura è ordita, Scoronconcolo è pronto ad ammazzare anche il Duca. Alessandro, tirato da Lorenzino a un convegno d'amore con una certa donna, va allo scannatoio preparatogli. Un ultimo accento di grazia pone il Varchi sulla tragedia.

    "Certa cosa è che il Duca, essendosi messo indosso un robone di raso alla napoletana foderato di zibellini, nel voler pigliare i guanti, ed essendovene di quei di maglia, come de' profumati, stette così un poco sopra di sé, e disse: "Quali tolgo, quei da guerra, o quei da fare all'amore?".

    Poche ore dopo, il duca Alessandro era sorpreso, addormentato, in camera di Lorenzo: Scoronconcolo e Lorenzino lo trapassarono di stoccate, quello si voltolò, cercò di difendersi con uno sgabello, finché il sicario "mise mano a un coltello che egli avea per sorte con esso seco, e ficcatolo nella gola al duca, andò tanto succhiellando, che lo scannò".

    Questa era la lotta politica in Italia, nel secolo di Machiavelli: in quel secolo cui l'on. Mussolini si compiace di riferirsi nei suoi commentarii storici, e donde si compiace di trarre li alti esempi politici.

    Lorenzino fece, poi, la difesa del suo ammazzamento nella Apologia. L'Apologia è l'unico scritto vivo di eloquenza politica che i così poveri secoli della storia italiana ci abbiano trasmesso: ci son dentro tutti i sogni e tutti gli odii, tutte le miserie e tutte le vergogne della vita politica del nostro paese: dove sempre ci furono, in piazza, le plebi plaudenti nelle sagre attorno al tiranno, e i fuorusciti che proclamano, come Lorenzino, "Non mi pare d'aver fatto troppa perdita sendo privo d'una patria dove si tiene così poco conto della libertà": e fra i servi e gli assassini domestici, nessun altro.





    Solo negli ultimi cinquant'anni, parve che questi umori cinquecenteschi fossero sopiti, sotto una vernice di modernità; parve che l'ideale di una libertà fondata sulle conquiste morali della Riforma, e non sulle ideologie umanistiche del Rinascimento, lentamente si facesse strada nel nostro paese. Non più tiranni, non più tirannicidii: non più Lorenzini complici di tirannide, non più Lorenzini vendicatori di libertà. Ma la piaga antica, invece, riprese a sanguinare: ed oggi i Lorenzini pullulano, in Italia. I fascisti "dissidenti" ne sono i primi, incompleti esemplari: ma quanti ce ne sono altri, latenti, un po' dappertutto: nella maggioranza parlamentare, nel giornalismo catilinario, nelle squadre, nella Milizia: sopratutto nella Milizia! E l'Apologia, rimasta per secoli insuperato e ignominioso esempio dell'eloquenza politica degli italiani, ha oggi una risonanza nuova in scritti recentissimi: valgon per tutti le "Memorie di un fascista" di quel Bianchelli, "dissidente" fiorentino, amico del Dumini, cui mancano le buone lettere medicee, ma non certo l'animo di Lorenzino e la destrezza di Scoronconcolo. L'on. Mussolini può non essere molto ferrato nei commentari a Macchiavelli, ma ha una pratica istintiva, nativa, delle migliaia di coperti e dissimulati Lorenzinacci e di dichiarati e aperti Scoronconcoli che circolano in Italia: esecutori oggi, della sua capricciosa signoria, e domani ribelli pronti ad ogni estremità in nome di una capricciosa libertà. Sa, l'on. Mussolini, che questa gente c'è: e la teme. Questa è la ragione per cui non può "epurare", non può "reprimere", non può "normalizzare", non può fare tutte quelle bellissime cose che la stupidità del volgo gli appone come possibili. Il fantasma del fascismo dissidente evoca ricordi e presagi di cose terribili. L'on. Mussolini lo teme più d'ogni altra cosa: non lo affronterà mai.

    Noi siamo in disparte. Prendiamo nota di ciò che dicono Forni, Sala e C.: ma é impossibile che ci sentiamo legati ad essi da un vincolo di nessun genere. Nessun calcolo di opportunità, nessuna manovra di opposizione ci indurrà mai ad affratellarci con loro; siamo troppo diversi, essi vengono, caldi, caldi, dal Cinquecento - un Cinquecento senza genio, ma col sangue - noi ci sentiamo cittadini dell'Italia futura, uomini moderni. La parola "libertà" ch'essi pronunciano così spesso, ha un significato di ribellione e di vendetta, un riposto sapor di pugnale, che la nostra non ha. Vediamo con tristezza risorgere gli spettri antichi della nostra storia, e cerchiamo le speranze e i presagi altrove che nella Apologia.

GIOVANNI ANSALDO