CRONACHE ROMANE14 giugno: Il DuminiNon lo conosco. Ma un due anni fa a Firenze il suo nome era su le bocche di molti, ripetuto con tanti altri come quello, se non d'un eroe, certo d'un uomo rotto ai ricchi e capace di sacrifizi - anche se, più che nelle spedizioni punitive ormai defunte per mancanza d'oggetto, le sue prodezze trovavan eco su le colonne della Sassaiola fiorentina o di un quissimile foglio settimanale. Anche allora, prima della marcia su Roma, era facile indovinare dove quegli atti e quei sentimenti andavano a parare. Ma si sarebbe forse detto che, subentrata alla passione degli spettatori una certa indifferenza, questa li avrebbe, piano piano, inghiottiti e non ne sarebbe rimasto che un segno di vuoto rancore nell'animo dei più scalmanati. Si poteva prevedere una specie di pacificazione ottenuta coll'isolamento dei fanatici, una "ricostruzione" che si servisse di schemi che parevano fermi sulle coscienze dei più e continuasse le schiere della gente manesca e avventurosa a persuadersi, a forza di vani tentativi, della sua evidente immaturità. Se, dunque, le precauzioni per toglierci di dosso pur il sospetto d'una corresponsabilità con quella gente non furono trascurate, ci tocca riconoscere che il comodo scetticismo di fronte al previsto ha grandemente aiutato a farlo più reale e più vicino. C'è una colpa che ricade su ognuno di noi, su ogni nostra spensieratezza, su ogni giudizio troppo facile e troppo breve, su ogni atto di transigenza, sul desiderio perfino di scioglierci dalla passione politica per mirare più alto, per affermare una vita migliore. Non si poteva far nulla: era destino che il fascismo riuscisse, era ridicolo e da disperati (anche se si fosse stati pronti) contrastargli. Per questo appunto si sarebbe dovuto tentare qualunque cosa. Ora non c'è rimedio, e non ci ha da essere maraviglia. Un fatto come questo era atteso, era sicuro. Il Dumini è uguale ai suoi compagni e tutti, in fondo, sono concordi. Il punto grave è che abbiano a loro disposizione autorità, mezzi, potenza: e la vigliacca acquiescenza dei passanti che sanno dove posson andar a finire i grattacapi e, se vedono i segni d'un delitto, scantonano e ammutoliscono. Si tratta dunque d'un semplice problema di polizia: che il governo si stacchi dai facinorosi e sia il più forte. Sappiamo che questo non può essere. Perciò ci aspettiamo, quasi con serenità, di peggio. Quello che ha agito in Dumini è lo spirito del combattente. II reduce che non s'è disarmato e mantiene in perpetuo l'animo di guerra, che non conosce vita fuori dei giorni delle sagre né altra dignità che le sue medaglie, non riesce a sopportare l'ordine della pace. Le sue memorie, le sue speranze, i suoi ideali lo minacciano, poiché creano il mito dei nemici e dei traditori e il compito di sgominarli. L'arrendimento, la condiscendenza, il duro sforzo della comprensione sarebbero la sua fine; e non è aberrazione troppo forte che la gloria e il dovere consistano per lui nell'eccidio che lo libera. Quale tormentata strada si debba percorrere per tornare a un'elementare civiltà non sappiamo. Forse non ne vedremo gli albori, e non importa. L'esperienza della tragedia se è vissuta senza piegare può essere a suo modo una ricchezza. La fredda visione del delitto, che è come un ammonimento, non ha altro potere che quello di farci più serii, più spassionati e più sicuri. Dove altri, meno scaltriti, trovano una causa di sdegno e di orrore noi crediamo sia contenuta la ottima educazione della volontà. 17 giugno: L'esautoratoNon si può quasi più parlare del Duce. Sono cinque giorni che il Presidente del Consiglio non compie atto che non gli sia imposto da qualcuno. Gli eletti suoi, i membri della maggioranza, sono i più fieri ribelli; i suoi coadiutori lo giudicano e gl'indicano a puntino la via che deve percorrere, per salvare se stessi. L'uomo dallo sguardo truce, dalle parole tremende e dal pugno di ferro non è capace più né di guidare né di tener fermi i suoi più vicini. La dittatura, invece che nel sangue, finisce in un regime di sorveglianza speciale. Quanti, anche tra gli oppositori, sono complici d'aver creato il mito del tiranno e del barbaro! Solo con questa forza, a patto di questo credito, Mussolini può ancora reggersi e può farsi temere. C'è uno stato d'animo eroico nella folla che gli perdona la suprema dabbenaggine d'essersi fidato a tanto meschina depravazione; e vuole ancora ammirare in lui il puro folle, l'uomo straordinario che delle reti dei piccoli (!) intrighi non poteva nemmeno accorgersi, mirando tant'alto a foggiare i supremi destini della patria. Pochi hanno capito che Mussolini era quasi nullo, un uomo fortunato, capitato al buon momento e capace di brevissime geniali intuizioni, che servivano per dominare la flagranza dei fatti, e non mai la complessità degli animi e degli eventi. Se si fosse scoperta la poca profondità delle sue "risorse", la mancanza di coscienza politica, i buffi, pagliacceschi tentativi delle sue commedie e la non bizzarra né straordinaria psicologia dei suoi toni, alti e bassi: molto della tragedia di quest'ora sarebbe ridotto a un puro calcolo di probabilità, allo studio del momento più opportuno per isolarlo e farlo innocuo. Invece intorno alla persona del Duce senza impero batterà l'ansia dei suoi lontani fedeli (dei prossimi non gli resta nessuno) e guai - per l'economia dei trapassi, che ci è preziosa - se nessuno, fuori o dentro i suoi confini, è pronto a servirsi del fascismo per illuderlo e, senza parere, rivoltarlo contro l'antico padrone. E questi sono ancora calcoli di bassa politica. Ma, trattando di queste cose, non se ne può immaginare altra migliore. I morti devono seppellirli i vivi, ma questo è un compito esteriore, di prammatica: e le profonde forze vitali vanno serbate ad altro. Ricostituire la coscienza italiana. Pochi segni sono felici. C'è un pessimo conservatorismo che scappa fuori col fiato della paura e dice che questo era il solo regime che salvasse dagli esperimenti estremi. Certe classi che dovrebbero essere sagge e ammaestrate non sono capaci d'altro che di vantarsi d'un espediente, il più vieto e tristo. Per fortuna Matteotti si è fatto ammazzare. Non c'è forse altro presagio consolante per l'Italia fuor di quello della sua resistenza. 18 giugno: l'EtiopePer ironia oggi sventolano sul Corso le bandiere e son consegnati i Corpi armati del presidio a far ala al reggente dell'Etiopia. Per estrema ironia un signore vecchio inveiva contro il ricevimento ufficiale e gli onori, e si rammentava, iracondo, dei suoi scolari caduti a Dogali. Da quel tempo si son sopportati ben altri fatti, e si è perdonato e inveito a troppe altre persone. Ma il corteo aveva un che di smorto e di taciturno: nessuno degli abissini sapeva parlare. Son passate le figure di cera e d'ebano. Il Re ripeteva un cenno di saluto automatico, ingrassato nel volto senza espressione. Mussolini è stato salutato da pochi applausi. Era senza feluca, e le greche d'oro del colletto gli facevano il volto più opaco. Dicono che sia dimagrato in sette giorni di sette chili: ma è una leggenda sparsa per far credere alla sua squisita sensibilità. Per quattro giorni Roma avrebbe da ammirare l'ospite esotico, che è avvolto in un baraccano di raso nero, orlato d'oro e si copre con un cappello bigio a lobbia, uscito da qualche fondo di magazzino boero. Ma non ha voglia né di guardare né di ridere. La sua presenza è una vittoria di Federzoni. La gente che si raccomanda a una onorevole continuità d'azione politica e teme dei rivolgimenti, spera che l'on. Federzoni sia capace d'ambizioni molto più vaste ed è pronta a decretarlo salvatore della patria. Per ora è seccata di questo importuno programma di festeggiamenti. Ma ci illudiamo che sia il solo ospite accettabile in tempi calamitosi. Nemmeno al Presidente del Nicaragua potremmo mostrare la città capitale mentre un regime è travolto da uno scandalo, e non c'è nessuna classe pronta a succedergli. Rosso e neroLungo Tevere Arnaldo da Brescia. Sul parapetto è segnata una croce nera, e sotto in un comune bicchiere stanno due garofani rossi. Due carabinieri in piccola montura grigia, napoletani, spiegano benigni e un po' seccati che li ha posti lì la vedova; ma un ordine vieta che si aggiungano altri fiori. Chi ha dato l'ordine? Un personaggio molto alto. Il prefetto soggiunge qualcuno. In galera dovrebb'essere! La poca gente intorno, dopo questa esclamazione resta muta. I carabinieri pregano il publico di circolare. Bella civiltà! Nessuna protesta, fuor che queste parole. Certo, così vicini al misfatto non si può che tacere. E la cupa coscienza di una qualche corresponsabilità generale. Ieri mattina le signore Matteotti hanno assistito a una Messa funebre a Santa Maria del Popolo, e durante l'ufficio si sono comunicate. Poi la madre ha tentato di farsi ricevere dal Papa. I compagni socialisti affermano che in casa Matteotti non ci possono più entrare, che le signore sono "fascistoidi". La vedova non si costituirebbe come parte civile. Sarà anche vero. Le povere donne si risentiranno magari contro il partito al quale apparteneva, contro l'idea che l'ha tratto a morte. Sbagliano i compagni socialisti se credono d'aver dei diritti su quel cadavere; si contentino del martirio che onora la loro parte, come ci onora tutti, che li onora in quanto sono uomini morali e serenamente italiani. Non ci può essere screzio in una solidarietà che ci aiuta a vivere. La famiglia di Matteotti ha ragione di reagire secondo il suo cuore, d'essere conservatrice o fascista. Se fosse vero, dovrebbero i compagni, apprezzare anche di più il loro morto: che avrebbe lottato per la sua idea con i suoi, o l'avrebbe custodita fieramente tra le lusinghe ed i silenzi. Una famiglia dove non ci sono dissensi è poco viva, e un intimo dissidio come questo la farebbe anche più degna della sua prova. In ogni modo conforta di sentire che afferma una sua tradizione e si mantiene libera fino in fondo dalla meschinità degli interessi e degli accaparramenti. L'ultima reclutadell'antifascismo è il generale Giardino. A Fiume mentre era governatore ha scoperto qual fosse il regime, che intralciava continuamente i suoi tentativi di punire e reprimere i reati comuni. È tornato sdegnoso e ha dichiarato a Mussolini che per complicità molto minori in altri tempi era caduto il governo di Crispi. Ma il Presidente gli ha risposto: "Questi particolari non mi toccano, sono troppo meschini". L'Eroe del Grappa dimentica l'antica retorica; e certo, ove parlasse in pubblico, ne adotterebbe una nuova; non riconosce più l'annunziato Messia e non lesina, né coi colleghi né coi conoscenti, le violente recriminazioni. Ma nella prossima tornata del Senato (se pure avvenga) non parlerà: ancora, e specialmente ora, non è uomo da compromettersi. II futuro è pur sempre su le ginocchia di Giove, e non conviene anticiparlo. L'estremo calcolo è di parer distanti e disinteressati. Così, se veramente la liquidazione del regime debba avvenire "manu militari" il generale Presidente è pronto; immune, come si suol dire, da settarismi, ma notoriamente nemico dell'uomo cui dovrebbe succedere. Due mesi d'antiveggenza gli costituiscono un titolo d'introvabile serietà e quasi di coerenza di fronte ai convertiti e ai convertendi di queste ultime ore. 19 giugno: Occupazione invisibileIl generale Di Giorgio ebbe, lunedì sera, un lungo colloquio col Re. Il quale, sembra, vuole sopratutto evitare lo spettacolo dei cavalli di frisia ammucchiati, durante le giornate d'ottobre, nei punti strategici di Roma, come sarebbero Montecavallo e Ponte Sant'Angelo. Il "piano di guerra" è preparato minutamente, ed elaboratissimo. In città non si vede più nulla: le truppe non sono più consegnate, la milizia parte. Ma nei posti segnati sono concentrate, o rapidamente concentrabili, forze cospicue pronte a parare a una rispettosa distanza le minacce che s'addensassero su remoti orizzonti. Ma di "occupazioni invisibili" ce n'è un'altra. Quella del Presidente del Consiglio e dei pochi fidi nei posti che gli rimangono, prima d'esser tutti trasferiti a Regina Coeli. Tacciono, stanno buoni, si fanno nulli. Vogliono rimanere inosservati, o a tutti gli s'è morzato il fiato in gola. Hanno paura, ma sono anche presi da una specie di contagio morboso, di impotenza manifesta; e il linguaggio e il tono adatti a quest'ora son fuori dalle loro possibilità. Il solo che capisce come comportarsi è il fallito ambasciatore on. Finzi, il quale non si sa se sia artista maggiore nell'arte della polemica o in quella del ricatto. Tra interviste, mezze interviste e confidenze che chiunque gli può strappare, si offre in pascolo alla curiosità di tutti e propone un'infinità di quesiti su le vecchie relazioni delle alte cariche del fascismo e il modo in uso di governare la cui sola risposta è il rovesciamento del regime. Ma c'è da aspettarsi la reazione degli "invisibili" che rimangono in carica. Ci sono piani di eventi preparati troppo belli perché possano avere esecuzione. L'imprevisto avrà, come sempre, da accadere. Con quale nuova follia si potranno difendere? Dati i loro animi, non c'è da sperare nella varietà: ci son precise vittime designate, e una oscura esigenza di menar di gran botte all'impazzata per salvarsi nel fragore. Si cerchi quanto si può di esser freddi e silenziosi logici. Ci si aspetti di tutto. Un nuovo sconquasso, se è possibile, che sarebbe ancora più disordinato e dissennato di questo, li ridurrebbe a zero. StatisticheMussolini è contento d'un gran miracolo. Martedì a Milano si son vendute 40 mila copie di un'edizione straordinaria del suo giornale. Da ciò desume la innata - o non mai smessa? - fiducia nel fascismo. Per fargli dispiacere gli vogliamo opporre la tiratura del Mondo aumentata in questi otto giorni di 35 mila copie, quella del Beccogiallo salita, da poche migliaia, a sessantamila, e, udite: il Corriere della Sera giunto al suo massimo che, con 800.000 copie, non ha più ritorni e non soddisfa a tutte le richieste. 19-20 giugno: Perlustrazione notturnaStasera si son diffuse voci di gravi eventi. Il Presidente per riacquistare l'autorità - o il semplice permesso di parlare e di far da padrone - ricorrerebbe ai mezzi estremi e, prima dell'alba, tenterebbe il colpo di Stato. Un Presidente del Consiglio in carica, che si fa rivoluzionario non è cosa usuale né facile a essere creduta. Ma qui si tratta d'uno che vuol uscire da una finzione politica e si ribella ai supposti custodi. Le "camicie nere" rimaste in città - poche? molte? - occuperebbero i Comandi ed i Ministeri e impedirebbero l'esercizio delle funzioni statali alle persone non ligie. D'alta parte, tutto sarebbe disposto per riceverle a dovere e il conflitto, nella capitale, non potrebbe sortire esito dubbio. Dalla afosa calma apparente di tutte le vie si è indotti a imaginare un sapientissimo agguato che colga tutti alla sprovvista. Qualche indizio spiato, qualche mutata consuetudine può avvalorare le voci. L'on. Marchi ha visto il Presidente alle 18 e dice che "non gli consta" ci sia nulla di nuovo; un giornalista riferisce di drammatici colloqui tra Federzoni e Balbo, al quale il ministro avrebbe chiesto di smobilitar la milizia per domani; un altro assicura che son già tre ore che Di Giorgio confabula col Re. Ecco - sala dei corrispondenti della Stampa a S. Silvestro - un episodio tipico. Entra il comm. Freddi, viene a dar notizia di un suo colloquio col Questore. Gli è andato a chiedere se c'era nulla "per" lui; e il questore l'ha tranquillato: nessun sospetto, nessun mandato di cattura. Bisogna che la buona notizia sia subito sparsa. Ma, non di meno, domani il comm. Freddi sarà dimissionario. Una nuova ondata d'allarme. Il colpo sarà grave, aiutato dalle province; forse alcune legioni della milizia punteranno su Roma. L'esercito però non è preso alla sprovvista. Le istruzioni sono già impartite. Anche se tagliassero i fili telefonici, tutti i Comandi sanno come si devono contenere. Intanto l'on. Saulli fa ragionamenti da filosofo. Ora che si son arrestati tutti i fascisti, dice, bisognerà arrestare gli antifascisti. - Se saranno colpevoli - gli si risponde. Ma lui si maraviglia e si sdegna. Come credete ancora che la magistratura abbia il dono di distinguere il colpevole? Colpevole è il luogo e il tempo, tutti e nessuno (così come la libertà è l'autorità e il soggetto l'oggetto). Ottimo pensamento per accettare qualunque partito o fazione, e per esserne accetti. Si torna alle case ad aspettare l'alba e gli eventi. Ma essa spunta, come tutti i giorni, indifferente e serena. 20 giugno: La gocciaCircolano le notizie più opposte. Tutto il giorno calma completa, caldo temporalesco, noia. Ma di sera la voce del mancato colpo ripiglia credito. Viceversa si dice di altri complotti, o segrete preparazioni: dell'esercito che non aspetta che un segno, di forze proletarie (ma come se ne può giudicare da Roma?) che lo affiancherebbero. Le voci degli opposti moti sono in genere propalate dalla parte che ne sarebbe colpita, poiché ognuna sente che la sua miglior fortuna sta nelle false mosse dell'avversario. Le soluzioni pacifiche e graduate - o machiavelliche - perdono di credito. Si pensa soltanto a un giuoco di esasperazioni e a un bisogno di disfrenamenti. Chi aveva appreso la fine di Matteotti come una inesorabile necessità e la imaginava come un ammonimento non vano, capisce che l'insipienza politica del governante ha fatto addensare e precipitare gli eventi in modo da annullarne l'efficacia educativa. E' aperta ora una questione politica, ma in essa è ottenebrata e scomparsa la quistione morale. La ripercussione morale del delitto non è andata oltre una diffusa sentimentalità, alla cui stregua appaiono forse più consci quei non pochi che assumono il delitto in pieno, e sono contenti della scomparsa dell'on. Matteotti e non si degnano del modo. La successione è aperta per un processo patologico; ma in nulla possono contribuirvi le rimaste forze politiche, né rispecchierà punto un diffuso desiderio di giustizia o di rinnovamento. Per ciò la successione a latere non appare deprecabile. Oggi dicono che Federzoni non sia capace, di sua propria volontà, di scalzare il Presidente. E allora perché gli fa intollerabile la carica col garantire la libertà di stampa e coll'investire del processo la magistratura, la quale non può oggi fermarsi, è costretta ad andare "fino in fondo"? Il problema politico s'è imposto in una maniera che ne fa la soluzione difficilissima. Il Presidente taciturno non si risolve ad andarsene, e i ministri che l'hanno i giorni del peggior pericolo abbandonato, non sanno poi ora trovare il coraggio di staccarsi. Le forze esterne non possono agire; sono, in ordine ai fatti successi, disorganizzate e illegittime. La capacità insurrezionale è mantenuta nei freni del partito dominante ma, data la mala ventura di quel dominio, è ormai tale da potersene liberare e da toccar l'orlo di quell'azione che non sembra prevedere limiti né scopi. Lo sbocco di Questi travolgimenti è dunque nel buio anche come anticipazione e come mito: fare per fare, e se no si muore d'inedia. Riconosciamo volentieri che questo è il fascismo classico, se si può dire: al di qua dei problemi teorici e ridotta la politica alla brevità della lotta cruenta. E' pur vero che anche queste previsioni sfumano e si risolvono in una calma apparente e in un disagio ogni giorno maggiore. 24 giugno: I discorsiL'aula del Senato. Mussolini entra prima dell'inizio della seduta; per non provocare un applauso, voluto dal senatore Tanari, che sarebbe stato seguito da zittii. Il Presidente commemora Matteotti senza - è strano e sintomatico -nessuna "violinata" al Governo e lo applaudono. Si alza Mussolini e pronuncia poche parole, indegne. Non si sa se gli bruciano la lingua, o se, con un meschinissimo trucco, vuol mettere in rilievo la scarsa importanza della commemorazione. Il fatto sta che l'accoglie un perfetto silenzio. Il senatore Malvezzi legge la risposta al discorso della Corona. È un documento che non ci si sarebbe aspettato tanto fiero. Legge con voce monotona e con tono quasi di conversazione, da principio; ma si ferma su i brani salienti e li sottolinea, con molta efficacia. Riscuote applausi quasi generali. Si direbbe che l'ostentato ossequio alla Monarchia e la palese invocazione del suo regime sia, quasi consciamente, una richiesta di protezione e insieme un ammonimento contro uomini e sistemi che non la rispettano nella sua essenza. Poi, siamo al dramma: alla rinnovata "presa di posizione", delle due parti avverse, alla riaffermazione dei necessari antagonismi. Dopo aver ascoltati i due discorsi, di Mussolini e di Albertini, non si può negare che si prova come un senso di aridità e di secchezza, di perfetta stasi e d'inutile ripetizione. Pochi, credo, s'affideranno con candore al "nuovo" Mussolini. Molti invero sentono che egli può, se riesce, sfruttare tante condizioni favorevoli al suo governo. L'esigenza di rimanere al suo posto in quest'ora, e disincagliare la vecchia galera dai bassifondi dove l'ha impantanata, perché se no sarebbe "l'ultimo degli uomini", comunque vada interpretata, suona come un accento di dignità umana (e fu molto applaudita). Di rimedi concreti ne ha indicati pochi: non si vuol compromettere. Ha azzardato, come al solito, tutte le speranze e tutte le paure. Non c'era nel Senato il tono e l'ambiente dei facili illusi; ma, per quanto incerta, al vecchio duce approdava tutta la nostalgia dei conservatori. Albertini non poteva far altro che negare, con fredde ragioni logiche, la fiducia, e tentò d'avvampare il presumibile sdegno pel delitto, tanto da ridurlo a premessa delle sue argomentazioni. Si capirà quanto riuscisse meglio nel primo suo compito. Il suo discorso è stato chiaro e terso, e fin troppo; gli accenti della commozione, ai quali talvolta ha mirato, son sembrati fiochi e un po' falsi. L'aula e le tribune, molto partecipi, l'han seguito quasi con tensione, e hanno meritamente urlato il senatore Corradini che tentò di interromperlo. Come prima, dunque, pare peggio di prima. È quasi ovvio che lo sdegno immediato e puramente sentimentale favoreggi l'accomodantismo; se muore il mito del Duce, sorge un mito della Patria ferita da salvare e dello straniero - o del comunista - in agguato. A quest'ombra non è più possibile la logica e si riesce perciò a persuadere che il timoniere Mussolini è il solo uomo capace a condurre, in qual porto?, la nave sbalestrata. Certo, fuori dei calcoli dei sapienti, come riserva e risorsa ci sono le masse, quelle fasciste, percosse, come disse il loro Duce, che non gli obbediranno ove s'impegni a fondo nella normalizzazione che è antifascismo, e le altre. Ha torto il senatore Albertini di non ne tener conto, di deprecare quasi certi contatti, di straniarsi da questa facoltà; esse sono, molto più che i lettori del Corriere, le buone pedine del suo giuoco. Ci dev'essere - ma certo da Roma non ci se n'accorge - una volontà di difesa e d'insurrezione che legittima gli schemi dei partiti e fonda una maturità politica; qui, invece, si fa un gran parlare di volontà dell'ordine e di buon senso innati che sono segni di totale disinteresse. E, com'è giusto, di tali virtù si compiace il tiranno debole. U. M. DI L.
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