MATTEOTTI

L'intransigente del "sovversivismo"

    Il 2 maggio 1915, tre giorni prima della sagra dannunziana di Quarto, ci fu a Rovigo un comizio contro la guerra, oratori il dottor Giacomo Matteotti e Aldo Parini che vi sostenne, esempio unico in una pubblica riunione, la tesi missiroliana della Germania democratica. Invece di un discorso si ebbe un dialogo con la folla, scontrosa e diffidente per gli oratori. Matteotti parlava contro la violenza con un linguaggio da cristiano: nella folla fremevano fascisticamente spiriti di dannunzianismo e di piccolo cinismo machiavellico.

    Difendere la neutralità poteva essere la difesa di un errore: Matteotti parlò contro la guerra. Lo interrompevano in dialogo acre ma si dovevano riconoscere di fronte una fede invece di un progetto. Quel giorno Matteotti previde la guerra lunga, difficile, disastrosa anche per i vincitori: e portò la sua tesi in sede metafisica: inutilità della guerra, facendosi tollerare da una generazione nietzscheana per la severità della sua solitudine.

    Ripeté, il suo discorso, quando non c'era più pacifista che parlasse, a guerra iniziata, al Consiglio Provinciale di Rovigo. Processato per disfattismo, condannato in ripetute istanze, trattò da sé la sua causa in modo radicale, senza rinnegare nulla del suo atto, anzi ostinandosi a farne riconoscere la legittimità. La protesta contro la guerra come violenza non era disfattismo, ma un atto di fede ideale: bisogna saper vedere in Matteotti, giurista, economista, amministratore, uomo pratico, queste pregiudiziali di disperata utopia, di assoluto idealismo, di reazione assurda contro la grettezza filistea dei falsi realisti. Sicuro come un apostolo. Matteotti si fece assolvere in Cassazione sostenendo la tesi dell'immunità dell'oratore in sede di Consiglio Provinciale.





    La protesta valse per qualche risultato: fecero attenzione a lui, che era riformato per la stessa causa di cui morirono giovanissimi i suoi due fratelli, e lo arruolarono per i servizi sedentari. Lo costrinsero alle fatiche del corso allievi ufficiali, rifiutandogli poi il grado per i suoi reati di disfattista. Comandato a Messina lo volevano spedire al fronte, nonostante l'infermità, in una di quelle compagnie di pregiudicati che si conducevano alla decimazione sotto la sorveglianza dei carabinieri. Rifiutò, protestando che sarebbe andato al fronte come soldato, non come delinquente al macello. Allora lo internarono a Campo Inglese, dandogli compagno il figlio del brigante Varsalona che lo sorvegliò. Tra la solitudine, il sospetto e le persecuzioni il carattere di Matteotti si rivela nella sua impassibilità. Assisteva alle conseguenze delle sue azioni come un buon logico.

    Conviene mettere a confronto l'esempio di Matteotti pacifista con la condotta degli uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira, nascosti e silenziosi nei Comandi o negli impieghi, emuli dei nazionalisti nel rifugiarsi nei bassi servizi. Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo "sovversivismo", le conseguenze dell'eresia o dell'impopolarità: era, contro la guerra, un "combattente" generoso.

L'aristocratico del "sovversivismo"

    Matteotti non fu mai popolare. Tra i compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza: gli avversari lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di stile, non di famiglia. Il suo socialismo non è la ribellione avventurosa del conte Graziadei che abbandona una famiglia secolare e, rompendo le tradizioni, accetta la vita dello studente spostato con l'amante intellettuale che diventerà la moglie inquieta della famiglia piccolo-borghese, come succede ad ogni buon nihilista - fedele al programma demagogico di andare al popolo.





    Invece Matteotti si iscrisse al Partito Socialista a 14 anni, probabilmente senza trovare grandi ostacoli in famiglia, forse anche ignorando la fortuna del padre - che del resto non era più che mediocre. Era socialista già il fratello Matteotti, che lo precedette negli studi di legge e pare che lo iniziasse, con qualche influenza, nonostante la morte precoce, a trent'anni.

    Il padre, di una famiglia di calderai, era venuto a Fratta Polesine dal Trentino 50 anni fa, quasi povero. S'era dato al risparmio con la costanza e il sacrificio di un emigrante. La signora Isabella lo secondava dietro il banco del piccolo negozio di commestibili. I guadagni venivano investiti in terreni con l'avidità del profugo che s'aggrappa alla terra per istinto come per incominciare delle tradizioni. La fortuna della famiglia Matteotti prima della guerra era valutata a 800.000 lire di beni immobili, tutti sparsi nella provincia, in piccoli lotti, comprati d'occasione d'anno in anno. Era il frutto di anni di lavoro assiduo, di speculazioni oculate. Bisogna tener conto di questa tenacia provinciale per spiegarsi il carattere del figlio. Giacomino crebbe con questo esempio, con l'opinione di non essere ricco, con l'istinto della lotta dura, con la dignità del sacrificio. Al ginnasio e al liceo bisognava essere tra i primi; non perder tempo, non dissipare.

    Su questo fondo solido di virtù conservatrici e protestanti nacque il sovversivismo di Matteotti e nacque aristocratico per la solitudine. Le sue preoccupazioni iniziali erano esclusivamente scientifiche: ai facili successi avvocateschi preferì subito gli aridi studi di procedura penale e benché già socialista militante seguiva con predilezione la scuola dell'on. Stoppato, uno degli uomini rappresentativi del clericalismo moderato. Procedeva nella propria educazione per esigenze interiori.





    In un partito che si ricorda dei paesi stranieri soltanto per la frettolosa rettorica dei congressi internazionali era tra i pochi che conoscessero la Francia, l'Inghilterra, l'Austria, la Svizzera, la Germania per viaggi di gioventù: e aveva studiato l'inglese per leggere direttamente Shakespeare. Preso nella lotta politica, quasi nascondeva gelosamente questi istinti di filosofia che non erano troppo vicini allo stile dell'ambiente misoneista e grettamente parziale in cui gli toccava agire. Ma il segreto della vitalità di Matteotti era proprio questo: che si poteva sentire in lui, al di là delle sue azioni, chi gli parlasse a lungo e per scrutarlo, una vita interiore di impulsi vari e profondi, non messa in gioco mai per le poste troppo piccole della vita quotidiana, ma perpetua e segreta ispiratrice. Onde quel suo agire con riserbo e con fredda energia che incuteva soggezione ai compagni. La maschera rigida di Matteotti in pubblico nascondeva pensieri deliberati in solitudine, già sottoposti a tutti i tormenti dialettici del suo intemperante individualismo: era naturale che egli sentisse di doverli far prevalere impassibilmente, quando si incontrava nell'atmosfera facile della demagogia dei congressi, dove c'è sempre un improvvisatore capace di escogitare tesi medie e concilianti. Matteotti cominciava a non essere conciliante per il suo sorriso beffardo e per la sua ironia perversa e spietata. Aveva sempre in mente delle conclusioni, non dei passaggi oratori o degli artifici di assemblea. Chi conosce in quale atmosfera di loquacità provinciale, di fiera della vanità e di consolazioni da desco piccolo-borghese, sia venuto crescendo il socialismo italiano, da Enrico Ferri a Bombacci, da Zanardi ad Arturino Vella, può veder chiaro come l'intransigenza di Matteotti - il quale in un'adunanza giunse a far sprangare le porte perché voleva che si terminasse la discussione prima che i convenuti se ne andassero a banchetto - doveva costituire un oltraggio ai tolleranti costumi dei buoni compagni e uno strappo a tutte le tradizioni sagraiole del tenero popolo italiano, felice e buontempone. E lo chiamarono "aristocratico" credendo di isolarlo.





La lotta agraria nel Polesine

    Una famiglia di risparmiatori inesorabili; una provincia tormentata con un'economia complessa ed incerta, terra storica di esperimenti di sovversivismo, spesso più servile che violento, sono toni sufficenti per determinare l'opera di un uomo.

    Nel Polesine la democrazia era stata viva, durante il Risorgimento, nelle forme più accese: anticlericalismo e garibaldinismo, Marin, Alberto Mario, Bernini, Piva. Nel 1882 vi si compie il primo sciopero di contadini d'Italia al grido esasperato la boie, e il governo per reprimerlo deve mascherare i suoi sentimenti di reazione e mandare i soldati a mietere il grano in luogo degli scioperanti.

    La situazione economica del territorio presenta tutte le varietà più interessanti dalla cultura famigliare all'industrializzazione agricola delle terre bonificate; dal riso del bassa Polesine alla canapa del Polesine settentrionale, al regime di piccola proprietà di Rovigo. Ci sono gli elementi obbiettivi per le soluzioni politiche estreme. L'industriale della terra bonificata deve seguire la logica dei costi sempre più bassi con la naturale avidità favorita dalla miseria del proletariato; dove incontri il fittavolo o il piccolo conduttore di terre, trovi insieme all'arrivismo dello spostato il sistema di cultura di rapina, con la crudeltà che va oltre tutti gli esempi. Non bisogna dimenticare che lo schiavismo agrario dei fascisti nacque in Polesine con la complicità dei fittavoli. In queste condizioni, acuite dal dopo guerra, mentre i popolari furono subito il sostegno della piccola proprietà, i socialisti pensarono a difendere i lavoratori con le cooperative di lavoro, con l'assistenza alla mano d'opera. In Polesine le agitazioni per l'aumento dei salari s'erano già da parecchi anni dimostrate insufficienti perché i conduttori di fondi aumentavano i salari e diminuivano le ore di lavoro. I problemi socialisti da risolvere erano: l'imponibilità della mano d'opera (ossia attribuzione di un carico di mano d'opera per ciascun fondo, e il collocamento, che si voleva libero dagli agrari e dai socialisti invece affidato agli uffici di collocamento. Intorno a questi problemi concreti la lotta fu incerta nel dopo guerra. Gli agrari tutti, nel 1920 - quando si riuscì a sostituire uno schema unico di patto agricolo, variabile solo nelle applicazioni ai 70 primi vigenti nei 63 Comuni della provincia - reagirono con lo ostruzionismo e prepararono i fasci per dominare i lavoratori con la violenza.





    Matteotti é stato uno dei protagonisti di questa lotta. Egli cercò di regolare le direttive politiche sulla base di queste premesse economiche. Quindi l'ostilità contro tutti i declamatori del generico massimalismo. Ai cinquantamila lavoratori organizzati della provincia bisognava indicare dei passi progressivi, non dei programmi di inquietudine e di rivoluzionarismo inconcludente. Per dare il senso della lotta occorreva non compromettersi in una catastrofe. Era la tattica opposta, già allora, dei sindacalismo isterico, da caffè concerto, di Michelino Bianchi che da Ferrara aveva esercitata la sua allegra influenza... rivoluzionaria anche in provincia di Rovigo. Gli elementi più accesi della sinistra sindacalista ed anarchica, nemici di Matteotti sin dalla prima ora, da W. Mocchi a Enrico Meledandri al comm. Marinelli, che ora sarà al banco degli accusati per il suo omicidio, furono poi tutti a fianco degli agrari nella reazione fascista: essi avevano esercitato il sovversivismo come una specie di professione della malavita politica per trovare un posto a Montecitorio. Nell'odio per la società portavano sopratutto le loro delusioni di politicanti (1).

    Il politicantismo faceva le sue pessime prove nel Polesine socialista sopratutto attraverso i Circoli (in buona parte massimalisti) e durante il periodo elettorale. Il mercato dei voti si praticava mediante i più allegri banchetti. I deputati socialisti della provincia, da Badaloni a Soglia, trescavano coi radicali: Gallani, medico, s'era addirittura fatto commesso viaggiatore di sé stesso e in tempo di proporzionale percorreva in bicicletta le campagne offrendo specifici ed esortazioni: - Votate per me!





    L'opera di Matteotti trascurava quasi deliberatamente i Circoli e si svolgeva nelle Leghe. Consulenza alle Cooperative agricole, aiuto nella creazione delle Cooperative di consumo, tendenza a fare in tutte le sedi questioni pratiche di realizzazione. Le sue predilezioni per le scienze giuridiche ed economiche trovavano qui l'opportunità di inserirsi nella sua fede di socialista, e non fu solo il più dotto dei socialisti che scrivessero d'economia e di finanza, ma il più infaticabile nel lavoro quotidiano di assistenza amministrativa.

    Dovendo fissare dei rapporti, bisogna avvertire che l'intransigenza di Matteotti in Polesine, che fu accusata ora di estremismo ora di riformismo, era equidistante dal massimalismo anarchico e sindacalista come dall'opportunismo dei sindacali riformisti. La sua posizione nel '19 é chiara nel manifesto che citiamo, scritta da lui in occasione dei tumulti per il caroviveri. Senza rinunciare alla necessità della rivoluzione che dovrà nascere dallo spirito di lotta di masse aristocratiche e differenziate, Matteotti trasportava la discussione su un terreno concreto di capacità e di iniziativa. Il suo buon senso rivoluzionario sembra un atto di accusa contro il sovversivismo apolitico dei varii spostati tipo M. Bianchi, che allora provocavano tumulti per pescare nel torbido.

    Lavoratori!

    Noi non possiamo condannare la reazione del popolo contro gli esercenti e i rivenditori che si sono arricchiti speculando sulle vostre miserie nel tempo di guerra; e non potremmo condannare la imposizione punitiva di calmieri straordinari e di requisizioni.

    Ma vi avvertiamo che esse non sono che palliativi i quali si rivolgono a una sola categoria di sfruttatori creando buone illusioni, e lasciando anzi sussistere o aggravando forse le cause del caroviveri.





    Le quali cause sono ben maggiori e profonde, e risalgono alla guerra anzitutto che ha distrutto ricchezze e caricato lo Stato di debiti e di carta senza valore; allo stato di guerra che continua sottraendo i militari ai lavori produttivi della civiltà, e alla società borghese, che - frapponendo tra consumatore e produttore i capitalisti, i dazi, le dogane e tutti i parassiti intermediarii, che non producono e sfruttano - é ormai incapace di uscire dal viluppo in cui s'è cacciata e di sollecitare le energie produttive.

    Quindi una agitazione socialista non può che rivolgersi alle cause prime; imponendo l'immediata smobilitazione e il disarmo, l'abolizione di tutti i dazi e le dogane, la confisca totale dei profitti di guerra e l'espropriazione capitalista. E non può essere condotta che dai lavoratori organizzati e socialisti coscienti, ripugnando da ogni contatto con tutti coloro (borghesi, clericali, democratici e falsi apolitici) che a quelle cause hanno contribuito; e quando essi lavoratori avranno forza e capacità sufficienti per imporre la loro rivoluzione.

    Per ora una piccola cosa sola suggeriamo; ogni Comune costituisca Enti collettivi di consumatori per l'acquisto e rivendita delle merci al minimo prezzo di costo, boicottando ogni intermediario e requisendo i prodotti necessari al popolo e giustamente calmierati, specialmente dai grandi capitalisti agricoli che li sottraggano.

    Dimostrino intanto i lavoratori organizzati di saper fare questo.

    Poi indicheremo i passi progressivi, conforme la loro capacità socialista.



    Rovigo, 9 luglio 1919.

    La Federazione Provinciale Socialista.

    La Camera del Lavoro del Polesine

    I Comuni Socialisti





Il socialismo persecutore di socialisti

    Eretico e oppositore nel partito socialista, poi tra gli unitari una specie di guardiano della rettitudine poetica e della resistenza dei caratteri: sempre alle funzioni più ingrate e alle battaglie più compromesse. Combatté tutta la vita il confusionismo dei blocchi, la massoneria, l'affarismo dei partiti popolari. Era implacabile critico dei dirigenti e si ricorda che giovanissimo in una riunione socialista, un nume del socialismo locale, aveva dovuto interromperlo:

     - Tasi ti che te ga le braghe curte!

    In Polesine l'uomo di tutte le transazioni e di tutte le confusioni era Nicola Badaloni, che passava per il Prampolini della provincia, un vero santone del partito che rappresentò il collegio di Badia ininterrottamente dall' '82 al 1919. Era venuto dalle Marche, medico condotto, poi libero docente. Nella lotta contro la pellagra questo medico diligente e affacendato fu scambiato per un apostolo. Chi non conosce il tipo del medico socialista umanitario che su l'assistenza e i consulti gratuiti ai lavoratori si guadagna un collegio? Eppure non era detto che i massimalisti di Rovigo non si adattassero a ripresentare anche nel 1919 questo vecchio tipo di massone intrigante, neppure iscritto al partito socialista: lo dovette liquidare Matteotti minacciando di contrapporgli la candidatura di Turati! Nicola Badaloni, eroe di purezza, che si doveva soltanto confrontare con Prampolini, sostenne poi nel '21 le candidature filofasciste e ne ebbe in premio da Giolitti il laticlavio. In questi esempi Matteotti imparava il suo ruolo di persecutore di socialisti!

    Per la sua energia eccessiva, invadente, per il suo spirito critico lo accettavano senza troppo entusiasmo; il suo disprezzo per il quieto vivere e per le abitudini di sopportazione gli alienava i tanti furbi che se ne sentivano umiliati: lo accusavano di ambizione, non lo capivano. Invece nel momento dell'azione aveva il consenso di tutti, e riusciva a sacrificare anche i più pacifici mostrando come sapeva sacrificare sé stesso.





    Anche di questa apparente arroganza e severità la spiegazione è nella sua ascetica solitudine. La sua difficoltà di conoscere le persone e di essere conosciuto per quel che valeva rientrano in un austero culto del silenzio, in una ferrea sicurezza di sé. In lui era fondamentale la difficoltà di comunicare il disagio di esprimersi, proprio di tutte le anime religiose o etiche; che si traduceva in una indifferenza per le opinioni correnti, audace sino ad assalire le fame più inconcusse. In realtà l'audacia della sua critica dissolvente era piuttosto indifferenza e impassibilità verso le contingenze.

    Nel 1916 al Congresso dei Comuni socialisti che lo rivelò a tutto il socialismo italiano, stupì per la sua completa mancanza del senso dell'opportunità così indispensabile per i mediocri e per le furbizie piccolo-borghesi! Matteotti ebbe la bella idea di smontare tutta la relazione Caldara, come dire i titoli di un professore universitario di Comuni socialisti, e di imporsi con tanta evidenza che il socialista milanese venuto per trovare i lauri dell'unanimità dovette salvarsi con un ordine del giorno di conciliazione. Infatti Caldara aveva fondata tutta la sua costruzione, in materia di rapporti finanziari tra Stato e Comuni, sull'esperienza milanese: Matteotti in una deliberazione che riguardava i Comuni di tutta Italia portava la esperienza del piccolo Comune, i bisogni sorpresi nella sua opera di amministratore di almeno 10 piccoli Comuni del Polesine: era la rivoluzione federalista contro il pericolo dell'accentramento! Ma è facile dedurre da un tal gesto lo spavento e la diffidenza dei cari Bentini, Modigliani, Zanardi! Credo che soltanto Nino Mazzoni, Treves e Turati lo capissero o lo amassero seriamente; gli altri erano offesi della sua scortesia e della sua superiorità.





Il nemico delle sagre

    Il partito socialista in Italia, durante trent'anni, continuò gli storici costumi dei congressi, dei comizi, col culto del bell'oratore come Enrico Ferri, con l'abitudine ai convegni che terminano in una formidabile pappatoria. Era anch'esso italiano sebbene il freno naturale del proletariato e della stessa lotta intrapresa non lo lasciassero giungere mai, nemmeno quando lo guidò un romagnolo come Mussolini, alle raffinatezze e ai capolavori sagraioli di entusiasmo e di devozione gaudente che dovevano essere la caratteristica e l'essenza del movimento fascista.

    In realtà il tipo in cui si mostrò il nostro socialismo è più il tribuno che il politico, e ne venne una classe dirigente di avvocati penalisti, oratori facondi invece che dottori di diritto, accomodanti per vanità e per odio della politica. Formarono una specie di classe che esercitava professione di assistere il popolo e di "discutere la situazione" e perciò si scusava di non aver tempo di leggere libri e di farsi una cultura politica realistica. Dovevano rispondere alle lettere degli elettori e trovarsi a caffè per scambiarsi le impressioni e inventare nuove tendenze.

    Anche dopo che fu deputato, Matteotti repugnò sempre a questi compiti demagogici; rifiutava le raccomandazioni e tutti i casi personali che non implicassero questioni generali di ingiustizia dichiarando: - Per queste cose rivolgetevi a Gallani e a Beghi!

    Sino al '19 aveva data tutta la sua opera alle amministrazioni locali (era consigliere di una decina di comuni, dove possedeva le sue terre disperse) e all'organizzazione di sindacati e di cooperative.





    Matteotti organizzatore: l'ossessione della semplicità, della chiarezza, della praticità. Esemplificava nei particolari, proponeva modelli di statuti, di regolamento, parlando coi contadini come uno dei loro. Trattandosi di fondare una cooperativa pensava a tutto, consigliava, disponeva, dava l'esempio, dai modi di servire al banco alla contabilità dei registri. La sua severità di amministratore era addirittura paradossale in un socialista: sentivi in tanta rigidezza il padre conservatore. Così era diventato - pur senza mandati precisi, l'ispettore volontario di tutte le cooperative e di tutte le leghe, l'incubo degli amministratori per la sua implacabile incontentabilità di spulciatore di conti e di bilanci, il carabiniere dei facili e tolleranti impiegati. Così era il suo stile di giornalista, prima che arrivasse agli articoli magistrali su temi di bilancio nella Critica Sociale. Infatti anche nella sua educazione economica non ebbe la disinvoltura italiana del progettista: prima di studiare il bilancio dello Stato aveva lavorato per anni ai bilanci dei comuni. Nella Lotta di Rovigo, diretta da Parini e da Zanella si possono scorgere le sue preferenze di scrittore: articoli brevi, facili, semplici. Un'idea sola, con dati precisi, con numeri evidenti, preferibilmente senza polemiche, senza scandali. Un giornale illeggibile per i pettegoli e per gli svagati che si dirigeva al senso pratico e alla pazienza del contadino. C'era infatti del contadino in questo signore che dovette assistere un giorno in Rovigo dopo un comizio a una manifestazione violenta dei cittadini che gli gridavano: - Via da Rovigo! Va a Fratta!





    Anche i socialisti si lamentavano, a Rovigo e ad Adria, che egli non parlasse mai in città. Sembrava un insulto il fatto che egli avesse preferito parlare a pochi contadini invece di tenere una conferenza con ovazioni sicure al bel pubblico di città. Ma egli non voleva essere l'oratore delle grandi occasioni. Non si montava mai. Cominciava quasi piatto. Poi l'argomento - preparato sempre con accuratezza su un foglietto di carta magari in ferrovia con la matita che teneva appesa sempre per una catenella all'occhiello della giacca - lo prendeva e la voce urtante, irritante, energica e rude squillava come per dominare. Allora parlava da padrone, come chi non improvvisa mai.

    Ma il suo posto era nei contraddittori. Si presentava, spesso solo, non preceduto da soffietti, alieno da ogni coreografia. Severamente elegante, senza distintivi, senza cravatte rosse al vento: Enrico Ferri trovava in lui il physique du rôle del conservatore. Ma piuttosto appariva subito come il combattente pronto, energico, sempre a posto, ragionatore freddo e sicuro, sempre. Nessuno l'ha mai battuto in un contradditorio. Era sempre l'ultimo a replicare. In Polesine ricordano ancora come smontò Pozzato, deputato repubblicano, principe di oratoria forense. Tra il 1919 e il 1921, con le masse insofferenti, Matteotti esigeva che si lasciasse libertà di parola a qualunque avversario, altrimenti non interloquiva, ritenendo che si fosse recata offesa a lui. A Lendinara, in un comizio essendosi levati i bastoni contro l'on. Merlin, Matteotti gli fu scudo e s'ebbe lui le legnate. Temevano tuttavia gli avversari la sua audacia dialettica e preferivano la fuga, come successe a Michelino Bianchi, candidato per gli agrari nel '19 per la circoscrizione di Ferrara-Rovigo che rifiutò coraggiosamente il contradditario a Matteotti presentatosi solo in un comizio del blocco.





    Sdegnava le parate, la febbre degli scioperi. Ma a Boara durante uno sciopero, quando si decise contro il suo parere di cacciare i crumiri dell'Alto Veneto, ad affrontare la forza pubblica che li proteggeva non si videro più i rivoluzionari, ma primo tra tutti Matteotti, che pagava di persona anche in quel caso, disciplinato e audace. Perciò la sua autorità fu sempre grande tra le masse che sentono d'istinto il valore del sacrificio. I contadini dei paesi sperduti che egli visitava la domenica invece di pipare alle feste ed ai banchetti di città non se ne dimenticavano più. Gente semplice, ma che sa discernere dove si nasconde una serietà interiore e dove risuonano soltanto discorsi d'obbligo.

    Ripugnava alle sagre per quello stesso riserbo che portava per tutti gli atti della vita privata. Nel '19 [a] un organizzatore che voleva il suo ritratto di deputato mandava tranquillamente il ritratto d'un amico, che per poco non venne pubblicato: valga quale prova di come egli considerasse gli esibizionismi più consueti. Sapeva far rispettare la sua solitudine e pochi ebbero le sue confidenze e conobbero la sua vita intima. Si sapeva soltanto che era rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi - come dicono - : e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole. Questa sicurezza non era sostenuta da una credenza religiosa, ma solo da una fede di stampo austero e pessimistico, nei valori di individualismo e di libertà. Del suo rispetto di ateo per tutte le forme religiose si ha la prova nel cattolicismo fervido di sua moglie: e in questa repugnanza di laico moderno verso l'anticlericalismo grossolano dei primi socialisti si rivela una spiritualità conscia dei motivi più delicati di tolleranza e di autonomia.





Il suo marxismo

    Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo. È soreliana la sua intransigenza. La concezione riformista di un sindacalismo graduale invece non era tanto teorica quanto suggeritagli dall'esperienza di ogni giorno in un paese servile che è difficile scuotere senza che si abbandoni a intemperanze penose. Egli fu forse il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittianno da Gaetano Salvemini) per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo. Accettava da Marx l'imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente; e pur con critiche non ortodosse non repudiava neppure il collettivismo. Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d'azione intermedio e realistico: formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega. Così la rivoluzione avviene in quanto i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base della conquista del potere e della violenza ostetrica della nuova storia non sarebbe stata vitale senza questa preparazione. E del resto, troppo intento alla difesa presente dei lavoratori, Matteotti non aveva tempo per le profezie. Più gli premeva che operai e contadini si provassero come amministratori, affinché imparassero e perciò nei varii Consigli comunali soleva starsene come un consigliere di riserva, pronto a riparare gli errori, ma voleva i più umili allo sperimento delle cariche esecutive.





    Ma ebbe mai in comune coi riformisti la complicità nel protezionismo, anzi non esitó a rimanere solo col vecchio Modigliani ostinato nelle battaglie liberiste, che per lui non erano soltanto una denuncia delle imprese speculative di sfruttatori del proletariato, ma anche una scuola di autonomia e di maturità politica concreta nella sua provincia.

    Così procede tutta la cultura e tutta la azione di Matteotti, per esigenze federaliste, dalla periferia al centro, dalla cooperativa al Comune, dalla provincia allo Stato. Il suo socialismo fu sempre un socialismo applicato, una difesa economica dei lavoratori, sia che proponesse sulla Lotta di Rovigo o nella Lega dei comuni socialisti dei passi progressivi, sia che parlasse dall'Avanti! o dalla Giustizia a tutto il proletariato italiano, sia che come relatore della Giunta di Bilancio portasse nella sede più drammatica e travolgente il suo processo alle dominanti oligarchie plutocratiche.

    Tanta si dimostrò la sua passione per il concreto, per il particolare, per i fatti che nel 1921 preferì esercitare la sua opera di assistenza e di difesa in una situazione difficilissima per il proletariato in provincia di Ferrara, piuttosto che andare a Livorno a raccogliere i successi rumorosi di una accademia di "tendenze" e di "frazioni".





Il suo antifascismo

    Giacomo Matteotti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medioevale crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a raggiungere la propria dignità e libertà. Con questa iniziazione infallibile Matteotti non poteva prendere sul serio le scherzose teorie dei vari nazionalfascisti, né i mediocri progetti machiavellici di Mussolini: c'era una questione più fondamentale di incompatibilità etica e di antitesi istintiva.

    Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo.

    Così s'era condotto contro tutti i ministerialismi, senza piegarsi mai. Nel '21 il prefetto di Ferrara che lo chiamava in un momento critico della lotta agraria aveva risposto per telefono: "Qualunque colloquio tra noi è inutile. Se lei vuole conoscere le nostre intenzioni non ha bisogno di me perché ha le sue spie. E delle sue parole io non mi fido". Non fu mai visto cedere alle lusinghe degli uomini del potere costituito né salire volentieri le scale della prefettura.

    S'era così creata intorno a lui un'atmosfera di astio pauroso da parte degli agrari: mentre lo stimavano capivano che l'avrebbero avuto nemico implacabile.





    Il 12 marzo 1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; s'era avuto in Polesine il primo assassinio. Quel sabato egli percorreva le strade in calesse e Stefano Stievano, di Cincara, sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un'imboscata. Matteotti vuole che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza. A Castelguglielmo si nota infatti movimento insolito di fascisti assoldati; una folla armata: alla sede della Lega lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla pacatamente esortandoli alla resistenza: ad alcuni agrari che si presentano per il contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica quando volevano trovare un alibi per la propria violenza: parlare ingiuriosamente ai lavoratori per provocarne la reazione facendoli cadere nell'insidia. Matteotti si offre invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: così resta convenuto e dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti più gravi.

    Non so se il coraggio e l'avvedutezza parvero provocazione. Certo non appena egli ebbe varcata la soglia padronale - attraverso doppia fila di armati -, dimentichi del patto gli sono intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s'induca a ritrattare ciò che fece alla Camera e dichiari che lascierà il Polesine.

     - Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni.

    Bastonato, sputacchiato non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a viva forza in un camion; sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma.

    Lo portano in giro per la campagna con la rivoltella spianata e tenendogli il ginocchio sul petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita politica. Visto inutile ogni sforzo finalmente si decidono a buttarlo dal camion nella via.





    Matteotti percorre a piedi dieci chilometri e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo attendevano alla sede della Deputazione provinciale per la proroga del patto agricolo il cav. Piero Mentasti, popolare, l'avvocato Altieri, fascista, in rappresentanza dei piccoli proprietari e dei fittavoli; Giovanni Franchi e Aldo Parini, rappresentanti dei lavoratori. Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari, rimproverato dal compagni per il ritardo, si scusò sorridendo: - I m'ha robà. Aveva riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri un suo fittavolo a cui una volta aveva condonato l'affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò che mandanti dovevano essere il comm. Vittorio Pelà di Castelguglielmo e i Finzi di Badia, parenti, dell'ex-sottosegretario di Mussolini.

    Poiché si parlò e si continua a parlare di violenze innominabili che Giacomo Matteotti avrebbe subito in questa occasione è giusto dichiarare con testimonianza definitiva che la sua serenità e impassibilità, di cui possono far testimonianza i nominati interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto o di ridurlo ad una ignobile vanteria fascista.

    La storia di questo rapimento è tuttavia impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne da testimonianze incontestabili tutti i particolari. Finché non ci sarà descritta l'aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale animo Matteotti andò incontro alla morte. Ne aveva il presentimento.

    A Torino il giorno della conferenza Turati un profugo veneto gli chiese:

     - Non ti aspetti una spedizione punitiva da qualche Farinacci?

    Rispose testualmente così:

     - Se devo subire ancora una volta delle violenze saranno i sicari degli agrari del Polesine o la banda romana della Presidenza.





    Come segretario del Partito Socialista Unitario aveva condotto la lotta contro il fascismo con la più ferma intransigenza. Rimane il suo volume: Un anno di dominazione fascista, un atto d'accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale. E fu Matteotti a stroncare non appena se ne parlò ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro: non si poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di repugnanza morale, per la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono. Come segretario del partito pensava al collegamento, animava le iniziative locali, le coordinava intorno a questo programma. Compariva dove il pericolo era più grave, incognito suo malgrado, a dare l'esempio. Talvolta osò tornare in Polesine travestito, nonostante il bando, con pericolo di vita, a rincuorare i combattenti.

Il volontario della morte

    Egli rimane come l'uomo che sapeva dare l'esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro: ma non si può dire quel che avrebbe potuto fare domani come ministro degli interni o delle finanze: ormai è già nella leggenda.

    Ho una lettera di un lavoratore ferrarese, scritta il 16 giugno:

    "Come puoi figurarti qui non si parla di altro e i giornali non fanno in tempo ad arrivare in piazza perché soro strappati ai rivenditori e letti avidamente. La deplorazione è unanime e il risveglio non più nascosto. Pare che l'incantesimo della paura sia infranto e la gente parla senza titubanze. La perdita però porterà i suoi frutti di libertà e di civiltà che renderanno allo spirito eletto del nostro Grande la pace e la gioia per il sacrificio compiuto. Matteotti era un uomo da affrontare la morte volontariamente se questo gli fosse sembrato il mezzo adatto per ridare al proletariato la libertà perduta".

    Non si può immaginare una commemorazione più spontanea e più generosa. Come se i lavoratori abbiano sentito in lui la parola d'ordine. Perché la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta.

p. g.
(1) Un sindacalista rivoluzionario nel l913, ad Adria, arrivò a proclamare l'astensione della Sezione dalle urne per far votare sottomano a favore dei radicali che gli avevano dato i quattrini. Costui é ora nel partito fascista. Questi erano gli avversari di G. Matteotti nella lotta agraria!