DOMANDE AI SOCIALISTIGrande è l'importanza attribuita da taluni all'atteggiamento liberale assunto dalla frazione di destra del socialismo italiano e da essa sfruttato allo scopo di assorbire dalle cosidette classi medie nuovi seguaci, così come, ma in diverso senso, lo è dalle altre frazioni del socialismo stesso che vorrebbero (sperando di ereditarne le forze operaie organizzate) esautorare i riformisti i quali trovano fra i lavoratori largo seguito dappoiché l'azione loro, teoricamente meno logica e conseguente, in pratica mostra di dare risultati immediati e tangibili tanto più brillanti di quelli determinati dalle tendenze insurrezionali di massimalisti e comunisti. Altra volta ci è accaduto da queste stesse colonne di accennare all'incompatibilità esistente tra pensiero socialista e pensiero liberale. Merita forse di ritornare sull'argomento poiché mai come in questi tempi gli unitari si sono atteggiati con tanta sicurezza a legittimi eredi del liberalismo per meglio agire nella difesa della loro libertà d'azione. Essi, a parer nostro, troppo facilmente sconoscono un fatto che ci sembra incontrovertibile e cioè che il liberalismo, pur avendo determinato l'affermarsi del socialismo come frutto della maturazione politica delle masse lavoratrici, non ha esaurito il suo compito storico. Esso sino ad ora non ha trovato così esaurienti applicazioni probatorie da legittimare asserzione siffatta. La tesi missiroliana che i partiti estremi in quanto tali sono i soli capaci di operare un profondo rinnovamento liberale nella società, non riesce a dimostrare la pretesa identità tra socialismo e liberalismo, poiché non può colmare l'abisso che li divide, abisso scavato dalla definizione aprioristica di un programma che il primo si propone e persegue e il secondo ignora. Il movimento socialista ha ormai conquistato il favore di larghissimi strati di popolazione, per aver suscitato nuovi motivi di cosciente forza nei lavoratori, per aver affermate, sorrette e raggiunte molte delle loro rivendicazioni, appare ad essi capace di avvicinare la meta ultima che lo attrae; deve perciò divenire necessariamente illiberale non appena creda di poter precipitare quelle soluzioni che ad un certo momento gli appariscano mature e raggiungibili. La cronistoria del partito socialista italiano in questi ultimi anni ci dice chiaramente che siamo nel vero. Per la sinistra del partito ciò è fuori di discussione; per quanto riguarda la destra, ricorderemo che i suoi componenti, gli unitari d'oggi, i quali affermano di accettare in pieno il metodo liberale, sono precisamente gli stessi, fatte le debite eccezioni personali, che avallarono con la loro adesione, sia pure prudente e condizionata di se e di ma, i più fieri atteggiamenti (verbali) degli estremisti, quando parve fosse scoccata l'ora della rivoluzione realizzatrice di tutte le aspirazioni collettiviste e solo si ricredettero e ritrassero quando la realtà infranse le nutrite speranze. Dal che si scorge qual tenue filo regga le sorti dell'idea liberale nel pensiero e nell'azione dei socialisti che dicono di accoglierla e come essi siano ben lungi dall'essere permeati di quella coscienza della ineluttabilità della lotta e della necessità di tutte le affermazioni individuali che forma il nocciolo della coscienza liberale. Tra socialismo e liberalismo non v'è ora che un vincolo meramente occasionale e transitorio. Così definendolo, non vogliamo d'altronde nasconderne l'importanza, l'alto valore storico, politico ed anche morale. Metodo e sistemaNel campo social-democratico si afferma, per dire il vero, di accogliere il metodo liberale riconoscendolo come il più atto a determinare nella società le mutazioni che vi si vagheggiano. Dicono anzi i riformisti che il metodo liberale è ormai per essi definitivamente acquisito come "posizione dello spirito e come forma di educazione". Già abbiamo ricordato perché tutto ciò ci sembri dubbio, e ad avvalorare questa nostra incredulità sta la pronta e sicura energia con la quale si dicono però costretti a ripudiare, a non riconoscere il liberalismo come sistema. Fatte le debite riserve sulla esattezza di tale distinzione, sicuramente arbitraria ed illogica, per cui, come vedremo, ne consegue che i socialisti non possono integralmente accettare il liberalismo neppure come metodo, diremo che l'asserzione è, a parer nostro, perfettamente ragionevole poiché, formulando, netto o impreciso non importa, un "novus ordo" verso il quale si dirigono le proprie aspirazioni in quanto lo si reputa capace di attuare lo stato di perfetta giustizia sociale vagheggiato, esso solo e non altro può rappresentare il sistema. Quanto abbiamo detto ci sembra anche e in particolar modo giustificato dal fatto che questo ordine nuovo, da che è stata superata la rigida formulazione del socialismo scientifico, non è più considerato come prodotto necessario e fatale del succedersi di fatti nell'ambito stesso dell'ordine capitalistico (fatti che sarebbero manifestazioni della sua spontanea evoluzione) ma è anche creazione del volontarismo delle masse lavoratrici, per cui socialismo non è semplice attesa, ma deliberata costruzione. Il liberalismo, sia pure considerato soltanto come metodo, dato e non concesso che ciò si possa fare, non può perfettamente adeguarsi alla forma "mentis" socialista. Esso, o viene accettato integralmente e in tutte le sue possibili conseguenze, ed allora per necessità di cose parta dalla negazione di quasi tutta la prassi socialista, o lo è solo in parte e in tal caso ci è permesso affermare che il suo ripudio totale dipende da ragioni contingenti mutabili col mutare del tempo, così come per ragioni analoghe è parzialmente accettato. E se ne può dedurre la conferma che i socialisti sono liberali solo in quanto giustamente rivendicano, contro coloro che gliela negano, la libertà di poter agire, ma sarebbero pronti a negare questa ad ogni altro quando le forze loro fossero per prevalere. È chiaro ad ogni modo che non è possibile parlare di un metodo liberale arbitrariamente distinguendolo dal sistema o meglio da quella concezione storicistica delle forme sociali che nasce dal pensiero liberale, che è anzi tutto il pensiero liberale. Sostanzialmente il socialismo resta un movimento a base rivoluzionaria per necessità di cose dogmatico, intransigente e illiberale, poiché, mentre giudica con interpretazione storicista le forme politiche ed economiche passate presenti e di queste accoglie il carattere transeunte, lo nega rispetto a quelle che un giorno saranno, confinando ogni ragione di lotta nel campo spirituale. Esso fa torto a sé medesimo negando questa sua intima natura avveniristica che il liberalismo invece riconosce e giustamente valuta, pur non considerandola esclusiva fonte di attività politica ed etica fra le tante forze operanti insieme od in reciproco contrasto per la vita dello Stato. Il liberalismo riconoscendo ogni mito ed affermandone il diritto a tentare una propria esperienza, si pone fuori di ciascuno di essi e rinnega tutte le armonie che ne sono fondamento, anima e forza; esso è suscitatore di eresie e perciò solo, in antitesi con tutto ciò che è o spera di divenire definitivo. Perciò appunto ad ogni passo si svelano i motivi della sua differenziazione dal socialismo anche se questo, ristretto nei limiti dell'azione democratica, appaia ora, sia pure sorretto dalle conclusioni in parte irrefutabili della critica del presente e nella pratica riformista aliena da ogni miracolismo, soltanto come espressione di aspirazioni sentimentali, come attesa, come sforzo cosciente verso una meta sublime e, come tale, venga valutato e riconosciuto quale insuperabile realtà storica. Il problema della proprietàPrendiamo in esame ad esempio uno dei problemi fondamentali, quello della proprietà e vedremo immediatamente come dalla sua stessa formulazione si dipartano due vie d'azione, la socialista e la liberale che hanno senza dubbio direzioni non opposte, che spesso si ritrovano, ma che scalano l'avvenire con andamento ben distinto. Pur prescindendo dalla tendenza dei teorici socialisti a considerare la proprietà, anche entro la sfera della sua giustificazione storica, come effetto di un arbitrio, di una violenza, sappiamo che essi vi scorgono soltanto la capacità di attribuite a chi ne gode il frutto una arbitraria facoltà di predominio che si risolve in una vera e propria schiavitù del salariato di mano in mano che l'evoluzione industriale dà luogo ad una sempre più netta e caratteristica affermazione di una potente figura economica, quella del capitalista. E ne traggono l'illazione che oggi problema sociale, in quanto rispecchia un desiderio di giustizia, non può trovare soluzioni possibili fuori dell'abolizione del diritto di proprietà e, in linea transitoria, della sua limitazione. Il modulo sul quale misurano i fatti della vita politica ed economica è l'effetto immediato o mediato che essi hanno o possono avere in rapporto a tali soluzioni. Su di esso si viene così regolando l'opera e le tendenze delle diverse frazioni del movimento socialista, le une polarizzate verso la conquista del potere politico considerato come passo necessario verso l'espropriazione violenta, le altre in varia misura accettanti il concetto tattico gradualista, sebbene tutte traggano origine dallo schema di sviluppo economico sociale delineato dal Marx e che non é dell'opera sua la parte veramente vitale. Ben diversa è la valutazione liberale della proprietà; essa viene considerata come risultante della maturazione di complesse forze tecniche e psicologiche che si sono manifestate determinando un equilibrio sociale che deve essere, a posteriori, ritenuto il più efficiente poiché si è affermato su ogni altro. In quanto tale, il diritto di proprietà può essere ritenuto un fatto non arbitrario, per cui, lungi dal proporre alla volontà dell'uomo di governo o delle masse la necessità di abolirlo, di contrastarlo, deve da essi essere posto di fronte soltanto a forze nuove, a nuove tendenze psicologiche, se esistono, capaci di determinare un diverso equilibrio spontaneo che si dimostri più valido, e quindi solo in virtù di siffatta vantaggiosa posizione, giunga a sostituirsi al preesistente. Non si dica che l'esistenza stessa della proprietà impedisce lo sviluppo delle forze psicologiche che possono contrastarla. In uno Stato liberale questo non potrebbe evidentemente avvenire; attualmente si può concedere che lo Stato sia il "Comitato di amministrazione degli affari sociali del ceto borghese" ma ci si potrebbe chiedere se gli incerti successi di molte sperimentazioni che hanno per fine una parziale od una integrale affermazione dei principii collettivistici, siano di fatto esclusivamente dovuti alla opposizione dell'ambiente o piuttosto alla mutazione spirituale della maggior parte degli sperimentatori stessi i quali, giunti nel tentativo di realizzazione ad una sfera economica superiore a quella di partenza e tale da rendere loro evidente il vantaggio personale della proprietà, compiono una involuzione che arresta quello sviluppo psicologico che è fondamento indispensabile per l'attuazione di ogni assetto sociale e nel fatto specifico di quello collettivista. I sindacatiLe due posizioni che abbiamo poste di fronte si chiariscono naturalmente solo valutando e delineando quella che può e deve essere la conseguente azione dello Stato, dell'istituto cioè che rappresenta il risultato dell'interferenza delle varie correnti sociali e delle loro azioni e può oggi divenire strumento dell'una o dell'altra prevalente. Poste le premesse ricordate, è evidente che secondo il pensiero socialista lo Stato non può esercitare le sue funzioni se non facendosi strumento di moderazione, di limitazione della proprietà; limitazione più o meno profonda a seconda del metodo o della tattica seguita, nonché delle forze diverse in esso rappresentate. Alla opera dello Stato, che si realizza allora con una serie di vincoli legislativi, fa necessario riscontro una progressiva assunzione da parte di esso stesso, o di collettività che sorgono sotto l'egida sua, di sempre più vasti compiti economici. Si è voluto distinguere il socialismo di Stato nel socialismo considerandolo come una sua manifestazione particolare non necessaria; in pratica però ogni formazione socialista si riduce sempre alla creazione di un ordine accentrato regolatore dei fatti economici, si riduce sostanzialmente alla applicazione di un principio statolatra per cui la tentata distinzione si mostra inconsistente. Diverso invece è l'orientamento dello Stato liberale; esso si pone inequivoco il problema della difesa della proprietà quando contro di essa vengono svolte azioni violente, ma riconosce la legittimità delle aspirazioni che la contrastano e a queste assicura la possibilità di affermarsi; in altre parole, accetta nei rispetti della proprietà il più ampio contrasto di forze private concorrenti e come rifiuta di stabilire a suo favore condizioni pubbliche di privilegio, così solo in linea d'eccezione interviene con una opposizione di carattere non contrattuale e privato a vincolarne la libera esistenza. Non v'è ragione di opporre a questa formulazione l'ipotesi di una maggioranza che appunto in virtù dei principii liberali riesca ad affermarsi e ad imporre legalmente una limitazione della proprietà. In tal caso, qualora fosse misconosciuto il diritto eventualmente esistente delle minoranze di possedere e quindi di tentare una ricostruzione sociale su basi diverse dalle nuovamente costituite, se ne concluderebbe che lo Stato ha cessato di essere uno Stato liberale, che la nuova forma sociale non si è affermata in tutto e per tutti come la più conveniente della precedente distrutta, che essa non è basata su una reale trasformazione psicologica individuale e collettiva. L'esperienza ci dice poi che è vano supporre di perpetuare l'arbitrio perpetrato a danno delle minoranze, poiché nessuna forza può impedire si affermino o prima o poi quelle tendenze che possano comunque trovare nel mondo economico una razionale giustificazione. Come abbiamo ricordato più sopra, lo Stato liberale si pone nei riguardi del problema fondamentale della proprietà e dei problemi che ne derivano come garante del libero esercizio delle azioni private dirette ad esaltarne o a contrastarne la potenza in feconda gara di affermazioni concorrenti. Sappiamo che lo Stato moderno tende ad esercitare funzioni positive, ad uscire da questa sua neutralità osservata rispetto alle forze delle quali esso stesso è espressione, a farsi integratore e regolatore dell'attività privata; poiché però in tal modo determina, mediante la sua attività finanziaria, un'arbitraria redistribuzione della ricchezza, poiché siffatta attività solo può essere giustificata dalla necessità di raggiungere mete che trascendono la normale capacità di affermazione dell'interesse privato, soltanto il contrasto liberamente accettato di tutte le affermazioni individuali e collettive, manifestantisi in ogni caso senza vincoli di sorta, può garantire che le funzioni positive dello Stato vengano di fatto mantenute entro i limiti più convenienti per l'intera collettività. La più ampia libertà politica per gli individui e pei loro aggruppamenti è fondamento primo quindi di un sano equilibrio economico. Fissato lo schema generale della politica liberale nel permettere ed assicurare la più ampia libertà di organizzazione ed azione privata alle varie coalizioni di interessi, vien fatto di chiedere come possano agire le correnti avverse a quelle che fanno capo agli interessi capitalistici. A questo proposito non va dimenticato che esse già posseggono un organismo efficiente d'azione, il sindacato. La storia più recente dell'organizzazione sindacale operaia, le sue tendenze moderne e le più antiche, se pur parziali e modeste, affermazioni ci dicono come esso sia di fatto istituto politico-economico il quale è andato via via adattandosi alle condizioni che lo sviluppo della tecnica e dell'economia industriale ha portate all'ordinamento della produzione, non solo, ma alle diverse categorie di interessi che nell'ambito del corpo complesso che semplicisticamente è stato definito proletariato si vanno esprimendo, tal volta con mete coincidenti, tal altra opposte o divergenti. Troviamo in esso uno strumento agile che, sebbene non abbia ancora un ordinamento tecnico perfetto e sufficiente, perché di fatto sino ad ora ha esaurito la sua energia nel chiedere protezione allo Stato, va maturando progressivamente un sua propria politica la quale non è rigidamente contenuta entro formule definitive, ma certo ci dà la più sicura espressione di una volontà di classe. E' vero però che non bisogna considerare la classe, secondo la tradizione volgare, come un tutto omogeneo; sin tanto che il proletariato è escluso da ogni partecipazione al Governo, aspira ad una presa di possesso totalitario in virtù della quale spera di creare sulle rovine del passato una nuova forma di convivenza sociale. La classe allora può sembrare qualcosa di definito, di immutabile, destinato ad assorbire in sé ogni altra categoria e a risolvere fra esse, annullandone le ragioni determinatrici più profonde, ogni contrasto. Se però, come avviene di fatto (e ciò è prodotto tipicamente moderno del pensiero liberale) il proletariato arriva a partecipare al governo portando in parlamento una maggioranza o una forte minoranza, senza per altro aver annientate le basi tradizionali della società, le necessità della lotta costituenti il cemento che rendeva invisibili le separazioni fra le diverse categorie componenti la classe, cadono, e lasciano scorgere le profonde divergenze che le distinguono, distinzioni che tanto più addentro incidono il blocco di mano in mano che gli interessi che realmente ne agiscono gli elementi, col fatto nuovo trovano più o meno ampia tutela e motivi di realizzazione. Il che non toglie ad ogni modo che, considerato nel suo sviluppo storico, il sindacato si manifesti di fianco al partito che ne accoglie o gli dà i postulati, come l'organismo più efficiente della lotta di classe. In esso appunto lo Stato liberale vede lo strumento più potente di azione privatistica contro le forze capitalistiche; caposaldo della sua azione sociale è quindi non la tutela del sindacato stesso ma la garanzia del libero esercizio delle sue funzioni. Prima di esporre quali logiche illazioni possano essere tratte da questa valutazione del sindacato operaio, ricorderemo incidentalmente che una constatazione analoga alla precedente può esser fatta nei riguardi della borghesia. Essa pure è una formazione di elementi disparati che possono avere nella difesa contro altri interessi coalizzati tendenze univoche, ma che necessariamente tendono a scindersi quando si tratti di costruire nuovi equilibri interni nell'ambito della proprietà capitalistica. Non basta d'altronde asserire che la proprietà di fatto non esiste per la maggior parte degli uomini, che cioè anche il piccolo proprietario non è che un proletario in potenza di fronte al rullo compressore della plutocrazia accentratrice di forze sempre crescenti; vi è tutto un orientamento psicologico che lo distingue e lo allontana dal proletario, e questo motivo sentimentale non è che la manifestazione di una reale forza economica la quale, conscia di sé stessa, non attende che gli strumenti adatti per affermarsi anche contro la plutocrazia. In tale forza è la ragione del perdurare di forme produttive che l'accentramento capitalistico non riesce ad eliminare. La tecnica moderna della elettricità modifica sostanzialmente le conclusioni che furono raggiunte seguendo gli sviluppi tecnico-economici della forza motrice data dal vapore. Questa è accentratrice e creatrice di proletari nella grande officina, quella ci mostra la possibilità di un decentramento dal quale potrebbe nascere, anche per l'effetto concomitante del processo di riqualificazione del lavoro che si va determinando nella macchinofattura, un fenomeno contrario e tale da rendere assai più complessi quei rapporti sociali che oggi ancora sono schematizzati nella formula salariato capitalismo plutocratico. Resta ad ogni modo acquisito che il sindacato, comunque possa essere mosso da tendenze politiche diverse, è pel proletariato un'arma potentissima che, usata a dovere, può risolvere integralmente il problema dell'azione delle masse contro i detentori del capitale. Tutto ciò specialmente quando sia basato sul riconoscimento della personalità giuridica delle opposte associazioni, affinché i vincoli contrattuali fra di esse stabiliti di comune accordo abbiano il valore che in ogni altro campo si dà al contratto e quindi alle conseguenze della mancata osservazione delle clausole in esso contenute. Quanto abbiamo detto ci permette una assai limitata valutazione di quel corpo di norme che costituisce la legislazione sociale e in generale della cosidetta politica sociale che dovrebbe essere semplice risultato dell'applicazione di norme contrattuali e, appunto per ciò, tanto più agile ed adeguata, non solo alle possibilità economiche nazionali in generale, ma a quelle locali. La legge sociale non deve fissare la sostanza dei rapporti tra imprenditore e salariato, ma soltanto determinarne la forma, così come la legge commerciale o civile non dà contenuto al contratto, ma ne regola il modo con cui esso diviene perfetto e capace di vincolare le parti. Si potrà obbiettare che in tal modo la difesa dell'operaio non può essere effetto che di una perenne riconquista di posizioni. Sinceramente confessiamo di non aver difficoltà alcuna ad accogliere questa illazione e che non ci commuove per nulla la conseguenza che ne deriva, la mancata sicurezza cioè di ogni successiva conquista. Basta pensare che anche le posizioni reputate più sicure, perché sanzionate in testi di legge nati dalle solenni affermazioni degli organi legislativi, restano lettera morta qualora urtino contro un equilibrio economico necessario diverso da quello che ha dato luogo al sorgere della legge o quando cessi la vigile sorveglianza e la decisa volontà di coloro che sono interessati alla loro applicazione. Si verifica in tal caso quello che per una delle più strenue rivendicazioni operaie è accaduto e sta accadendo: l'orario di lavoro di otto ore non ha la stessa identica applicazione nei paesi nei quali una legge lo impone e in quelli nei quali esso vige perché accolto con una clausola particolare nei contratti collettivi. Si potrebbe anzi dire, senza tema di smentita, che negli ultimi esso è applicato con maggiore ampiezza, poiché la vigilanza degli operai è di necessità rigida e intransigente, mentre nei secondi questi, fiduciosi nella legge, nulla fanno per contrastare seriamente l'emanazione di norme che derogano a quelle in essa sanzionate. La legge di fronte alla complessità del fenomeno produttivo non può limitarsi a stabilire un principio generale, ma deve intervenire ogni qualvolta esso richieda una prudenziale applicazione od estensione. Tutto si riduce quindi ad un gioco di scaltrezza in virtù del quale o si sa convincere il politico, incompetente per definizione, della necessità di una deroga alla legge stessa, e la si ottiene, o si sa nelle norme emanate far rientrare il caso specifico che sta a cuore o viceversa. Se si volesse sostenere che è compito del sindacato curare che la applicazione della legge e la sua interpretazione avvengano senza danno degli interessati, si verrebbe a confermare quanto più sopra dicemmo e sostanzialmente ad ammettere che, poiché il problema trova soltanto soluzioni che sono temporanei equilibri di forze, tanto vale il sindacato si crei la sua legge nel contratto ed abbandoni la fisima di farla nascere e garantire dallo Stato. Alla luce di queste considerazioni non ha evidentemente ragion d'essere una distinzione legale tra sindacato libero ed obbligatorio. Lo Stato si disinteressa della cosa, né interviene a costringere comunque l'operaio ad aderire all'una o piuttosto che all'altra organizzazione. Queste, solo con la forza del numero potranno imporre contrattualmente alle padronali l'obbligo d'accogliere operai sindacati piuttosto che liberi. Diventa pure inaccettabile, per natural conseguenza, il principio della obbligatorietà del contratto di lavoro anche per tutti gli imprenditori e salariati che non fanno parte delle opposte organizzazioni contraenti (incidentalmente diremo che il governo fascista si propone di patrocinare siffatto principio soltanto per valorizzare i contratti stipulati dalle Corporazioni sindacali le quali tendono a raggiungere il monopolio dei rapporti con la Confederazione Generale dell'industria). L'obbligo di osservare il contratto di lavoro è un puro e semplice problema di disciplina interna di ciascun gruppo sindacale verso i componenti del sindacato avverso. Le federazioni industriali saranno dalla pressione delle operaie costrette a radiare dal novero dei loro membri l'impresa che rifiutasse di sottostare al contratto stipulato dalla federazione stessa; d'altra parte l'industriale libero potrà essere dalle forze operaie coalizzate costretto ad accettare il contratto al quale ha creduto di sottrarsi evitando di entrare a far parte della federazione padronale, a meno che condizioni locali rendano conveniente ai lavoratori stessi di accettarne uno diverso. La concorrenza fra i diversi sindacati ci fa sicuri poi della possibilità di raggiungere in ogni contratto quelle condizioni che rappresentano, nel periodo considerato, il più conveniente equilibrio fra gli interessi del capitale e del lavoro. Gli operai d'altronde possono sempre ordinare, con l'appoggio delle rispettive organizzazioni di resistenza, quelle imprese cooperative che essi reputano atte a vincere le capitalistiche in una feconda gara economica. Le Banche del lavoro che vanno sorgendo dimostrano che la classe operaia potrà trovare in sé stessa forze autonome sufficienti e che il problema del suo avvenire non sta nello strappare allo Stato privilegi, tutela e artificiose difese, nell'imporre altrui limitazioni legali delle quali non si possono conoscere esattamente tutte le possibili ripercussioni negative, ma nel far meglio e nel saper valorizzare la forza indipendente della quale dispone. In una concezione politica liberale quale abbiamo rapidamente delineata, si inquadra anche il grave problema del controllo operaio, della partecipazione cioè della classe lavoratrice alla direzione economica della produzione. E' innegabile che, in funzione del loro sviluppo colturale e tecnico, i lavoratori valutino sempre più esattamente l'importanza della loro funzione nella fabbrica e intendano quindi controllare gli effetti utili che l'impresa raggiunge per ottenere adeguato compenso. E' vero d'altronde che l'imprenditore, in quanto sopporta l'intero rischio dell'opera sua, giustamente intenda ridurre i suoi doveri verso i salariati al limite imposto dalle condizioni del mercato per la merce-lavoro. In tesi generali riterremo che gli operai i quali desiderano, partecipando al rischio dell'impresa, migliorare la propria posizione, potranno farsi essi stessi imprenditori con una delle forme associate che ormai ben si conoscono; nulla però impedirà ch'essi raggiungano il loro scopo nell'impresa capitalistica qualora le loro forze sindacali riescano ad imporre contrattualmente una qualsivoglia forma di controllo o di partecipazione che sarà necessariamente conveniente anche per l'imprenditore, o altrimenti non sarà. Analoghi criteri ci guidano nel giudicare altri fatti nell'ambito della politica sociale. Vedremo ad esempio che il principio fondamentale che scaturisce dalle premesse liberali è quello della assicurazione libera; la libera mutualità deve essere la meta, né a questo proposito si possono sollevare eccezioni prendendo in considerazione l'opportunità di far partecipare l'imprenditore al pagamento del premio d'assicurazione, poiché ciò è compito del sindacato nell'opera che esso deve svolgere per la fissazione del salario. All'opposto invece si potrà ammettere debba lo Stato esercitare tutte le funzioni di politica sanitaria anche nel campo del lavoro. Esse si manifestano essenzialmente con atti di controllo e non gli attribuiscono alcuno dei compiti positivi spettanti all'imprenditore; altrettanto si dirà per quello che si riferisce alle opere a carattere assistenziale che possono sempre essere compendio di una azione pubblica. Siamo partiti da una definizione fondamentale e abbiamo visto come da essa stessa nascono immediatamente motivi di differenziazione della idea e della prassi liberale da quella socialista; non neghiamo che quest'ultima possa, in determinate contingenze accettare della prima i principii poiché essi non pongono nessun limite allo sviluppo sociale e solo tendono a rendere questo perfettamente consono, aderente e adeguato alle condizioni storicamente mutevoli della società; ma non possiamo ammettere che il socialismo ne accetterebbe tutte le logiche conseguenze e applicazioni qualora potesse dare, con la conquista del potere, alle forze operaie una sicura prevalenza nella fissazione dei rapporti con le capitalistiche. In un periodo di transizione verso più radicali riforme queste verrebbero necessariamente, in piena coerenza colle premesse dell'azione socialista, oppresse da una serie di disposizioni coattive e limitatrici fissate a favore dei sindacati secondo piani di realizzazione arbitrari come sono tutti quelli che nascono da una volontà negatrice del principio della libera concorrenza, principio che, ripetiamo, non ha trovato nella storia integrale applicazione, per cui è vano dichiararne fondatamente il fallimento. RICCARDO BAUER.
Confidiamo che a queste domande dell'amico Bauer siano per rispondere subitamente i nostri amici socialisti. Intanto una riserva ci sembra necessaria. Le basi ideali del socialismo non sono rispetto al liberalismo nel contrasto indicato da Bauer. Tutti e due sono figli dell'industrialismo, sono fenomeni della lotta politica. Se si risale al marxismo e si fa una critica del bagaglio economico collettivista si finisce per trovare un terreno comune. I dissensi sussistono piuttosto tra il nostro marxismo e l'interpretazione positivista, statalista che ne diedero i socialisti del '90 - '900. E appunto per ciò il dovere di Rivoluzione Liberale potrebbe essere di creare o di aiutare delle tendenze di giovani che si assumessero il compito di ringiovanire il partito socialista, di metterlo in contatto con gli ultimi venti anni di cultura contemporanea. La discussione che oggi apriamo potrebbe proporsi questo scopo. Il prossimo numero sarà dedicato alla vita e alle opere di Giacomo Matteotti. |