IL PROBLEMA SARDO

I.

Introduzione

    Non si può intendere il problema sardo se non lo si connette con la storia che l'ha prodotto e variamente atteggiato. Un esame della crisi spirituale sarda attraverso i secoli ci potrà dare, se condotto con le dovute misure, anche il segreto della vita e delle questioni economiche.

     Dante divinò l'oscura crisi di questo popolo quando scrisse nel De vulgari eloquentia che i sardi non avevano volgare e scimiottavano il latino. Egli scolpiva così l'incapacità del paese a una vita autonoma e a una civiltà originale, cogliendo del pari la necessità di certi atteggiamenti di parassitismo che vedremo connessi con le condizioni del suolo. Le declamazioni degli storici e degli apologisti non sono riuscite a contestare la validità delle conclusioni del Pais che ha dato il più esatto e vivace ritratto dei sardi antichi, gente rinchiusa nelle montagne, dedita alla pastorizia e all'agricoltura, incapace di più vasti orizzonti, paurosa di tentare le risorse del mare. Dopo la conquista romana il paese non ha mutato per millenni la sua fisonomia, così come la lingua è rimasta fondata su elementi latini, attraverso le inevitabili corruzioni. Nel medioevo i sardi non seppero risolvere la questione pregiudiziale per la creazione di una via commerciale autonoma, che li mettesse a contatto diretto con l'Italia: restarono impotenti di fronte ai pirati. Nel duecento Pisa vi trovava costumi e caratteri semplicemente isolani, senza nulla di peculiarmente italiano e lungi dall'assumere una missione civilizzatrice si accontentava di un'opera di sfruttamento commerciale. La natura geografica dell'isola impediva inizialmente un comunicazione diretta con l'Italia: le coste orientali vi sono infatti difficilmente accessibili, mentre i porti occidentali permisero per lunghi secoli una intenso commercio con la Spagna.

    Durante tutto il medioevo (che per la Sardegna dura sino al secolo scorso) l'isola offre l'esempio caratteristico di un paese di nomadi in cui non si riesce a raggiungere le condizioni di sicurezza pubblica che garantiscano un principio di vita civile. Per tutto il periodo della lotta fra pastorizia e agricoltura dominano le tendenze razziatrici contro le quali l'esperienza dei secoli crea successivamente due caratteristici istituti di prevenzione: l'incarica e il baracellato. E d'altra parte gli stessi banditi sardi riescono a difendersi dalle incursioni dei pirati.





    Il risultato fu che soltanto la dominazione spagnuola poté salvare l'isola dalla barbarie e dare ai sardi almeno il senso di una unità regionale. Gli aragonesi portavano in Sardegna una civiltà evidentemente superiore a quella anacronistica vigente e instaurando il feudalismo determinavano una possibilità di comunicazione con la vita europea. Gli spagnuoli ebbero anche il merito di non far pesare questa loro civiltà (che altrove, come nel Regno delle Due Sicilie, incontrava invece le reazioni di una cultura superiore) e rispettarono costantemente le autonomie isolane, pur garantendosi il dominio col preparare la prevalenza di ceti proprietari e semiborghesi (preti, impiegati, professionisti) importati dalla penisola iberica.

    La vita economica non si poté avvantaggiare da questo lungo dominio perché, se pur ne venivano conseguenze di tranquillità e di vita più sicura, il progresso agricolo veniva ostacolato dalla natura politica e antieconomica del feudalismo importato. Se Pisa s'era dedicata ad una opera di vero e proprio sfruttamento commerciale dell'isola, gli aragonesi imponevano il dominio di una casta nobiliare parassita, vivente lontana dai suoi feudi, alla corte di Spagna, in cambio del servizio di polizia che offriva ai suoi sudditi. L'arte di governo di questi dominatori si rivelò specialmente nella loro attitudine ad evitare ogni squilibrio troppo profondo ed a lasciare ai sardi indomiti ogni licenza sotto un governo patriarcale sdegnoso di preparare condizioni di vita più moderna.

    In queste condizioni l'eredità che il Piemonte si trovava a raccogliere nel '720 era contraddittoria e difficile. Il nuovo regime non poteva infatti seguire una politica di acquiescenza e di tranquillità anche perché si appressava a lottare con ogni energia contro gli ultimi resti di feudalismo. Il Piemonte si trovava in un periodo di vitalità crescente ed ebbe l'impressione di trovare nella Sardegna la sua catena ai piedi. D'altra parte tutte le manifestazioni più vive della vita sarda tendevano alla Spagna; in letteratura Giuseppe Delitala, Antonio dello Frasso, la monaca Merlo, in diritto il Vico, il Dexart, l'Asquer. Gli isolani erano rimasti anche nelle ultime guerre fedelissimi ai dominanti.





    L'ostacolo più profondo per il consolidamento del governo piemontese era dato dall'esistenza di un feudalismo completamente spagnuolo che restava nella nuova situazione un peso ancora più morto per ogni svolgimento economico, mentre alimentava colla sua autorità e la sua influenza secolare pericolosi dissidi tra il vecchio e il nuovo. Non ci deve stupire se il Piemonte, che veniva creando una sua aristocrazia burocratica e militare solida e prussiana, fu costretto, non tanto per seguire il proprio istinto quanto per prevenire sedizioni future, ad imporre il suo regime amministrativo. Conservando le autonomie isolane non era possibile intraprendere una lotta seria contro il feudalismo e i residui di vita spagnuola. Questa superiore esigenza può giustificare storicamente anche il male che ne derivò ossia l'invadenza quasi dispotica dei viceré di Casa Savoia. Ma i sardi, colpiti nel loro senso geloso di autonomia covarono la ribellione che scoppiò violentissima sotto la condotta dell'Angioi, diretta contro gli impiegati piemontesi, alimentata dai nobili scontenti, fatta con furore dalla plebe rurale che incominciava ad avvertire profondi disagi.

    La ribellione fu soffocata nel sangue e provò ancora una volta l'immaturità della vita economica sarda. Infatti nessun impulso aderente alla realtà guidava le menti dei rivoltosi: la plebe rurale non agitava idee di rinnovamento o aspirazioni alla conquista della proprietà, ma combatteva ancora medioevalmente o con uno spirito selvaggiamente libertario a fianco dei suoi padroni feudatari. L'impulso veniva da una mera esasperazione privata contro le angherie degli amministratori piemontesi; non metteva in discussione nessuno dei principii costituzionali dello Stato piemontese, anzi ne rispettava e ne esaltava la monarchia; si tendeva soltanto a sostituire con impiegati sardi gli impiegati piemontesi.

    È giusto riconoscere che i piemontesi non avevano offerto ai sardi nessuna prova dei vantaggi del loro governo; trattando l'isola alla stregua di una terra di conquista non potevano neppure, impegnati in una politica estera avventurosa, garantirne la pubblica sicurezza; né compiervi le necessarie opere pubbliche per la viabilità e contro la malaria, date le cattive condizioni del loro bilancio.





    Anche la rivoluzione francese passò senza lasciare traccie, senza educarvi un costume politico: i sardi continuarono a manifestare i loro malcontenti nelle congiure. Solo mentre il Piemonte iniziava il suo Risorgimento e si assumeva il compito di preparare l'unità italiana incominciò in Sardegna la lotta contro i pregiudizi e l'economia feudale.

    L'abolizione della proprietà feudale in Sardegna fu infatti incominciata sotto il regno di Carlo Alberto e resta uno dei più netti esempi di politica liberale dell'antico governo sardo.

    La struttura economica del sistema feudale sardo non si può confondere col feudalismo continentale mancando nell'isola l'obbligo di servizio militare e gran parte delle prestazioni personali dei vassalli. In un periodo intermedio, sotto la dominazione aragonese, i servizi personali erano stati sostituiti dai canoni reali: ma dopo l'ottocento il diritto feudale in Sardegna si riduceva al fitto delle terre. Il danno più grave di questo regime consisteva dunque nella lontananza dei feudatari dai proprii feudi: i signori spagnoli che possedevano le terre migliori non si muovevano dalla loro penisola e i piemontesi abitavano nelle loro terre sarde soltanto durante i mesi di primavera, quando il paese era immune dalla malaria e affidavano per il resto del tempo la gestione dei feudi a rappresentanti.

    Abbiamo spiegato come siffatta condizione di cose non potesse venir mutata per influenze esteriori, dato l'isolamento della vita sarda che non fu vinto neppure dalla rivoluzione francese: la crisi dunque doveva nascere per ragioni tutte interne.

    Il fenomeno più interessante della vita economica isolana al principio del secolo XIX è la lotta tra la pastorizia e l'agricoltura che già aveva interessato gli osservatori continentali del secolo precedente come il Gemelli.

    I fondi chiusi erano dedicati all'agricoltura, i fondi aperti alla pastorizia: ora sin dal 1820 aveva sancito il viceré che si potesse chiudere qualunque fondo, eccetto quelli feudali. Il colpo che da questa legge veniva alla pastorizia danneggiava anche gravemente i feudatari che eran soliti a dare in affitto a proprietari di bestiame forestieri le proprie terre mentre conducevano il bestiame proprio a pascolare sulle terre comuni. La lotta contro la pastorizia che era negli intenti del governo piemontese veniva dunque a tradursi in una lotta contro i feudatari.





    Si costituì a Torino nel 1833 il Ministero degli Affari sardi, affidato al marchese Emanuele Pess di Villamarina, feudatario sardo che si propose il compito di abolire la giurisdizione feudale. Aderendo a tale programma Carlo Alberto pensò addirittura a un editto per il quale si addivenisse al riscatto di tutti i feudi, e si mantenne fedele a tale politica per quanto ragioni di politica estera impedissero la pubblicazione immediata dell'editto. Tra il '33 e il '40 gran parte dei signori si videro liquidati i loro diritti in denaro e in titoli di rendita: per il riscatto fu necessario iscrivere nel gran libro del debito pubblico una rendita di lire 480.000 annue, aumentate poi a lire 576.000; e a compensare l'erario fu imposto ai Comuni un diritto fisso demaniale di cui si curò l'esazione con rigidità ancor più esosa di quella adoperata prima dai baroni. A Cagliari nel 1835 veniva stabilita una delegazione incaricata di fissare i canoni che dovevano esser pagati ad ogni feudatario.

    I fondi così liberati divennero proprietà dei coltivatori, con facoltà di chiusura e le parti in comune costituirono un demanio comunale o statale che nell'intento primo di Carlo Alberto doveva servire per colonie di vecchi militari e invece si venne a poco a poco alienando.

    Questo esperimento è stato la prova più completa della impossibilità di agire dall'esterno, con riforme legislative sulla vita economica dell'isola. Distrutto il regime feudale si è fatto meno che nulla se non si sono create le condizioni obbiettive capaci di impedirne la rinascita. Queste condizioni si riassumono in una esistenza di un capitale liquido da impiegare nelle terre. Non si può creare la piccola proprietà o l'agricoltura intensiva se non le si offrono i mezzi di prosperare. Tutta la lotta contro la pastorizia veniva a cozzare e ad annullarsi contro questa condizione di fatto. Abolito il feudalismo continuava un regime agricolo medievale.

    Gli effetti più notevoli della riforma non furono pertanto economici ma politici; ne risultò un più intimo collegamento della vita isolana con quella della penisola, incominciò a formarsi il regime amministrativo che dominò negli anni seguenti, si posero le basi di un ordinamento unitario.

    La vita intellettuale sarda si può far cominciare appunto con questa rivoluzione semipolitica e semieconomica. Sono di questi anni figure di studiosi caratteristiche come il Tola, il Martini, lo Spano, il Siotto-Pintor, l'Asproni, e specialmente G. B. Tuveri, il Mazzini sardo che riprende in pieno secolo XIX le teorie dei monarcomaci.

    Ma i problemi economici che si vorrebbero porre con la riforma restano insoluti.





BIBLIOGRAFIA

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