BUROCRAZIA E FASCISMO

II.

Gli impiegati e la "Marcia"

    Il Presidente del Consiglio on. Mussolini giunto alla Capitale subito dopo le elezioni, tenne il 10 aprile al popolo di Roma, il discorso che non aveva tenuto al popolo di Milano, e disse nell'occasione, fra le altre parole memorabili, queste memorabilissime: "Si diceva che gli impiegati non avrebbero votato per il Governo: hanno votato". Alle quali parole gittate alla folla stipata davanti a Palazzo Chigi, voci dalla folla risposero: "tutti, tutti".

    Gli impiegati che dalla piazza di tra la folla rispondevano così al Duce e per sé e per i colleghi assenti credo che non esagerassero quando assicuravano che, nonostante le voci e i timori e le speranze, gli "impiegati", ancora una volta avevan marciato, ancora una volta avevan espresso la loro fiducia nel Governo Nazionale.

    È stato detto che il fascismo è il partito e il movimento politico degli impiegati, e in questa affermazione c'è difatto molta verità. Gli impiegati in genere, gli impiegati governativi particolarmente, erano destinati tutti ad affluire a questo movimento. Nel tempo della rissa fra neutralisti e interventisti, l'impiegato, che vuol poi dire in Italia, il borghese di media coltura, fu, in genere, interventista, e volle la guerra come la volle la nostra borghesia intellettuale, per i noti impulsi garibaldini e mazziniani, sentimentali e filantropici, tanto esaltati e derisi a seconda dei tempi e delle parti.

    Nelle giornate di maggio gli impiegati dei Ministeri di Roma fecero il diavolo a quattro e i colleghi di tutte le parti d'Italia tennero loro bordone come meglio potettero. Durante la guerra il ceto impiegatizio, non ostante i larghi e non sempre richiesti esoneri, diede un fortissimo contingente di quelli che furono i veri martiri della guerra, gli ufficiali subalterni: e furon le famiglie degli impiegati, cioè la media borghesia italiana, quelle che più stoicamente e con più coscienza e con più abnegazione sopportarono dello stato di guerra i più duri disagi.





    Terminata la guerra si formò in questa classe un curioso e complesso stato d'animo, del quale è indispensabile rendersi ben ben conto, quando si vogliano intendere appieno le origini del fascismo.

    A formare questo stato d'animo contribuiva anzitutto quel general sentimento di insoddisfazione e di disorientamento che lasciò in tutti la fine della guerra, sopravvenuta fuori d'ogni attesa e determinata da troppi fatti di indole non coreograficamente militare, e a cui non seguì in nessun paese l'immediata ed integrale attuazione di tante promesse e di tante speranze: tanto più forte fu in questa nostra borghesia impiegatizia l'insoddisfazione quanto più profonda era stata la fede che essa aveva riposta in molti dei miti della guerra mondiale, e tanto più grave era il suo disorientamento in quanto, lontana dalle estreme ideologie dell'imperialismo e del disfattismo socialista, non trovava una formula semplice per esprimere il suo disinganno, come non trovava un bersaglio bene individuato contro cui sfogare la sua esasperazione.

    In un primo momento questa classe, obbedendo in parte alla naturale inclinazione di ogni vero italiano, in parte serbando la consuetudine di imitare e di seguire, sia pure a una certa distanza, gli atteggiamenti del ceto operaio organizzato, rivolse il suo malcontento contro lo Stato e contro il Governo, ossia, più precisamente contro gli uomini del Governo e contro le istituzioni e gli organismi dello Stato. Intanto agiva, potentissimo, il solito fattore economico: il persistere e l'aggravarsi del caroviveri dopoché, col finir della guerra, eran cessate le ragioni di sentimento e di disciplina che avevan fatto fino ad allora tollerare tanti disagi, aggiungeva esca al fuoco, e l'impiegato, spettatore dei guadagni e degli sperperi degli operai delle grandi città, mentre schizzava fiamme contro quegli zotici che "guadagnavan più di lui", ne imitava e ne travisava i modi di lotta, buttandosi a capofitto, come quello contro i padroni, e le loro organizzazioni, così esso contro lo Stato e le sue amministrazioni.





    Ma succedeva questo curiosissimo fatto: che in quel generale sollevamento contro i poteri dello Stato che contraddistingue il periodo '19 e '21, gli impiegati in genere, quelli governativi in particolare, mentre erano in quella opera di denigrazione e di smantellamento, parte attiva, come tutti gli altri ceti operanti nella vita pubblica italiana, e anche più, erano anche in quella stessa lotta un elemento passivo, inquantoché rappresentando essi gli impiegati, davanti alla comune del pubblico, appunto quello Stato, appunto quelle amministrazioni contro cui si appuntava l'ira generale, erano essi gli impiegati i più esposti, a ricever l'urto e le offese di quell'incontenibile furore, e si sentivano essi, prima e più di ogni altro, premuti e bistrattati dal malcontento universale: per cui odianti o odiati, assaliti e assalitori, stato e antistato, questi dipendenti dal Governo e dai pubblici uffici e dai pubblici servizi formarono in quei tempi la più miseranda categoria di dannati che sia stata messa nell'inferno del dopo guerra a scontare peccati non suoi.

    S'aggiunga poi un'altra circostanza ed è questa: che questi impiegati i quali, in quella frenesia di ribellione, movevano con tutti gli altri a parole ed a fatti, contro lo Stato e contro le Amministrazioni Statali, erano poi di fatto i più interessati, i soli immediatamente e visibilmente interessati, alla conservazione e alla restituzione di quello Stato dei cui stipendi essi, dopo tutto, o bene o male, vivevano, e siccome, o più chiaramente o meno chiaramente, a seconda della maggiore e minore coltura, ma tutti effettivamente sentivano questa identità di interessi, questa quasi consunstanzazione che era tra essi dipendenti dello Stato e lo Stato loro padrone e loro mantenitore, così accadeva che mentre essi alla esistenza e stabilità dello Stato menavano con le loro impazienze e le loro esigenze i colpi più fieri, d'altra parte e nello stesso tempo non ristavano dall'invocare la cosa, o la persona o il miracolo che ponesse fine a tanto putiferio, e non cessavan dall'augurarsi prossimo l'avvento di chi assicurasse la baracca, a cui eran legati per la vita, essi ed i loro.





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    Si vede di qui quanta parte debba aver avuta la classe impiegatizia nel provocare prima, nel favorire poi il movimento fascista. Quando sul finire del '20 le agitazioni operaie erano sul declinare e con la votazione delle leggi sui sopraprofitti, coll'approvazione del trattato di Rapallo, l'espulsione di D'Annunzio da Fiume parea si iniziasse anche per l'Italia un periodo di governo serio e fruttuoso, si fecero avanti, ultime riserve del bolscevismo "nazionale", gli impiegati, gli impiegati per antonomasia, gli statali, e, vergognandosi che tutti gli altri, contadini, operai, ferrovieri, avessero già fatto il loro sciopero, ed essi no, nella primavera del '21 esasperavano la loro agitazione fino al parossismo del famoso "fronte unico" e fino all'esplosione di scioperi, di ostruzionismi, di polemiche, che avvenne, come ognun ricorda, proprio nell'imminenza delle elezioni del '21.

    È diventato un luogo comune l'affermare che il sintomo più grave della crisi italiana del dopo guerra sia stato quell'ininterrotto susseguirsi di scioperi e di agitazioni operaie che culminò con l'occupazione delle fabbriche: ogni persona appena ragionevole sa che quest'affermazione o è falsa o è tendenziosa. Vera invece e obiettiva é l'affermazione, secondo cui il sintomo più grave di quella crisi furono le agitazioni dei dipendenti dallo Stato e dalle pubbliche amministrazioni, ed il punto di maggior depressione toccato dalle forze vitali ed essenziali d'Italia è segnato veramente dall'agitazione detta del "fronte unico" e dagli scioperi dei maestri elementari e dei professori medi. Le industrie del nord e la piana del Po sono in Italia ma non sono l'Italia; delle Amministrazioni, invece veramente si può dire che siano, nella sua espressione più visibile e più intelliggibile, l'Italia; quando industria e agricoltura sono in travaglio la questione è di ricchezza e, o prima o poi, le cose si accomodano da sé alla meno peggio; quando sono in travaglio le Amministrazioni pubbliche la questione in Italia è di Stato e quindi addirittura di esistenza, di vita o di morte.





    Giolitti, nel suo ultimo - ma non estremo - discorso elettorale, identificando, come è suo costume, la storia contemporanea d'Italia con la storia dei suoi ministeri, fece cominciare la degringolade dalle sue dimissioni del giugno 1921, e ricordó che quelle dimissioni egli dovette rassegnare per la renitenza mostrata dai popolari a concedergli i pieni poteri per la soluzione della questione burocrati. Anche per noi la degringolade, se non comincia, almeno s'accentua e si accelera circa quel tempo, subito dopo le elezioni del '21: Giolitti ne addita come causa la sua assenza dal potere, noi, meno... giolittiani ma, di proposito, altrettanto semplicisti, troviamo che in quell'episodio, sopra la persona di Giolitti, sopra la tattica del P. P. I., sta enorme la questione della burocrazia, la questione degli impiegati, che determina essa lo scoppio della crisi, non come piccola questione di corridoi parlamentari, ma addirittura come questione di regime.

    Si voglia o non si voglia, le idee di pieni poteri, di dittatura, come soli mezzi per restaurare l'ordine, si vanno affacciando e divulgando proprio in occasione delle crisi dei servizi pubblici e delle agitazioni di impiegati e salariati pubblici. Quando il conflitto è tra operai e padroni, da un pezzo oramai il pubblico è avvezzo a considerare la questione come una questione tra privati, in cui i pubblici poteri poco o punto ci hanno a che vedere; ma quando il conflitto é tra dipendenti dello Stato e Stato, e questo conflitto ingenera disordini nei servizi pubblici e il contagio si appicca pure agli uffici, alle scuole, agli organi cioè più delicati della vita d'uno stato moderno, allora è naturale che il pubblico ignaro e sgomento, per istinto e poi anche per ragionamento, sia indotto a non trovar della crisi altra via di guarigione che l'intervento dello Stato, del Governo, anzi dell'Uomo che rappresenti l'uno e l'altro, e che abbia, dalla disperazione e dalla stanchezza universale, facoltà di tagliare, cauterizzare, licenziare, punire, di "mettere a posto quei mangiapane", senza cautele e senza inciampi di leggi, di partiti, di camere e di simili trappole. In Italia, nella comune, l'idea della "dittatura", è spuntata, si è diffusa e si è imposta così.





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    Ora gli impiegati mentre provocavano il sorgere del fascismo inteso come "stato forte" come "governo a poing" come "pieni poteri", come "dittatura", erano in pari tempo i più adatti a intenderlo ed a favorirlo come movimento politico, come nuovo partito. Gli impiegati erano appunto per questo movimento i militi ideali: gente che aveva l'educazione del "signore" e il marsupio del povero cristo, che condivideva coi sovversivi il malcontento e l'impazienza dello stato presente di cose, ma che in pari tempo repugnava a certi atteggiamenti dei sovversivi ed era interessato alla conservazione ed al rafforzamento del regime, gente che viveva una vita politica ambigua e contradditoria, stretta tra l'istinto di ribellarsi allo Stato e il bisogno di servire lo Stato e quindi di sostenerlo, gente che costeggiando tutti i partiti era stata sempre scontenta di tutti i partiti, era, ripetiamo, l'elemento ideale per questo movimento duplice e ambiguo, bolscevico e conservatore, rinnegatore dell'antica politica e continuatore di quella politica stessa, promettitore di stabilità e di disciplina, ed esaltatore di quegli ideali nel cui culto la nostra media borghesia era stata allevata.

    Molte tessere non credo che gli impiegati in genere, quelli governativi in particolare, abbian fatto staccare al P. N. F. ma certo si è che questi impiegati han recato all'incremento di quel moto un contributo assai più importante che non sia il pagamento delle quote e l'assistenza alle assemblee. Il cinquanta per cento della fortuna del fascismo in Italia è dovuta al fatto che esso fascismo ebbe, fin dalle prime ore, amici sempre più numerosi e sempre più devoti nelle file dei dipendenti dallo Stato e dalle Amministrazioni pubbliche: l'avere in magistratura, nella burocrazia militare, nei Ministeri, nelle poste, nelle ferrovie, in tutti questi nidi di "soprammaniche" della gente devota e "disposta a tutto" per il bene supremo del fascismo, ci spiega una quantità di cose nella storia del fascismo, e ci spiega pure come, scoppiata più clamorosamente la crisi, il Governo di S. M. il Re, dopo aver deciso di resistere, quando si cercò attorno gli esecutori di tale decisione, pochi o punti ne trovò e, posto nella condizione di quei comandi in linea che, intatti loro nelle loro caverne, non avevan più né telefono, né porta ordini, né ufficiali di collegamento né nulla con cui comunicare con la linea, dopo un po' di agitarsi e di imprecare dovette anch'esso rassegnarsi agli eventi ed aspettare anch'esso l'immancabile "prelevamento".





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    Il governo fascista se non ha risolto il problema della burocrazia, inteso come semplificazione di servizi e responsabilità dei funzionari, ha però dato innegabilmente una sua soluzione a questo problema, considerato non nell'aspetto tecnico ma in quello psicologico, e inteso come intelligenza da parte dell'impiegato pubblico dell'idea dello Stato, e come devozione di esso impiegato ad essa idea.

    Il problema della burocrazia, inteso come problema del funzionamento dei nostri organi amministrativi e dei nostri servizi pubblici e come problema del "rendimento" dei nostri funzionari, è sovratutto un problema di psicologia e un problema di cultura. Male funzionano gli organi statali ed i servizi pubblici, non tanto per difetto di ordinamenti, quanto per scarso rendimento del personale, e poco "rende", il personale posto al servizio dello Stato e degli Enti pubblici, anche o specialmente, perché questo personale, particolarmente in Italia, non è educato alla "religione dello Stato" non conosce e non pregia dello Stato i valori astratti e trascendentali, e considera la "roba dello Stato" come la "roba del diavolo", il servizio come "corvée" faticosa e inutile, il superiore come un "pignolo", il pubblico come uno "scocciatore" e come un nemico. Risolvere il problema della burocrazia è anche dare al funzionario - dare alla nostra borghesia media e minuta - la conoscenza e il culto dello "Stato".

    Tante intelligenze, tante colture, tante concezioni di Stato: lo Stato Dio, lo Stato patria, lo Stato campanile, lo Stato sindacato, lo Stato padrone, lo stato carabiniere ecc.: c'è n'è per tutti i gusti: l'essenziale è che per il funzionario lo Stato, il pubblico, sia qualcosa, qualcosa di noto di concreto, e, naturalmente, di pregiato o di riverito. Annebbiatesi od obliteratesi, dopo la prime generazioni di "impiegati patrioti", e di governatori "filosofi", le concezioni più alte di Stato etico, di Stato patria, di Stato laico, ecc., trascurata, per l'ubbia e la fatalità dell'unità, l'idea dello stato campanile o dello Stato regione, non venuta a maturazione l'idea dello Stato sindacato, era rimasta quella dello Stato padrone, Stato Crispi, Stato Giolitti, ma anche questa poco efficace e di splendore intermittente, connessa necessariamente com'è alla presenza fisica del "padrone". Dopo la guerra, nell'eclissi delle antiche idee e rappresentazioni di Stato, e nelle impazienze e immaturità delle nuove (Stato dei Consigli, Stato della regione), parve appunto che, a un certo momento, addirittura l'idea e l'essenza medesima di Stato fosse per far naufragio, come prima sotto i colpi dei bolscevichi, così più tardi sotto quelli dei fascisti.





    Fatto fallire a suo tempo il disegno di salvar la situazione con un governo di coalizione antifascista e anticomunista, il fascismo fece precipitare gli eventi con la Marcia. Impadronitosi del potere diede, come si diceva, anche al problema della burocrazia, inteso nel senso che diciamo noi, una sua soluzione: incosciente prosecutore della tradizione e ignaro ricalcatore delle orme altrui il fascismo, anche in questo campo, rimise in valore gli antichi clichés, che parevan passati di moda, fra cui quello dello Stato-Patria (lo Stato Nazione della rivoluzione francese, dopo tutto), e quello dello Stato-Padrone.

    Il primo ideale è quello che si può chiamare propriamente Nazional-fascista e la sua rivendicazione è veramente merito e vanto del Nazional-fascismo come movimento ideologico e come partito. Io dubito che questa concezione di Stato sia capace per sé sola di galvanizzare le energie di tutti i funzionari, e più ancora dubito che i modi adoperati dal fascismo riescano a diffondere ed a far generalmente riverire questa concezione; ma non esclude che, per molti dei dipendenti dallo Stato, la identificazione dell'astrazione Stato con la realtà concreta di patria italiana, abbia prodotto quell'adesione intima, quella immedesimazione fra interesse dell'impiegato e interesse dello Stato in cui è la soluzione vera, secondo me, del problema della burocrazia.





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    Ma la concezione più fortunata in questo campo, quella che ha prodotto il miracolo delle "cose che marciano", di cui tanto si compiacciono i nostri commessi viaggiatori e i turisti tedeschi in viaggio di nozze, è, senza dubbio alcuno quella dello Stato-Padrone, quella dello Stato-Carabiniere. E di questa il vanto bisogna lasciarlo a Mussolini, il quale istintivamente per risolvere, lí per lí, la questione burocratica, ha ricalcato le orme ed ha ripetuto i gesti dei grandi "principali" delle nostre falangi di "mezze maniche": "... la burocrazia è in molta parte lo Stato. In fondo il presidente del Consiglio è colui che si impone di venire ogni mattina alle 10 dinanzi al proprio tavolo a studiare e controllare le pratiche. La burocrazia... è come un motore gigantesco che nei primi attimi del suo funzionamento ha un suo ritmo irregolare e accelerato, che è suscettibile di improvvisi arresti. Allora intervengo io e spingo la leva del motore arrestato o che girava a folle: ed ecco il motore si sgrana e il ritmo ripiglia regolare". Son parole di Mussolini e c'è dentro tutto l'uomo.

    Come pure in queste parole è contenuta la spiegazione di quel tal miracolo del "filare delle cose" e dell'adesione data e mantenuta dagli impiegati al Governo Nazionale. Sebbene prima anch'essi si agitassero e tumultuassero, erano essi i primi a soffrire, anche spiritualmente, di quel disordine, e, nessuno più degli impiegati, sentiva il bisogno che venisse qualcuno a "comandare". Adesso si sentono, è vero, premuti e spinti ma han l'impressione di sentirsi anche sorretti"; gli impiegati sono sempre impiegati e non sarebbero più tali se cessassero di brontolare dei capi e di sparlare del "principale"; il prezzo delle pigioni cresce, quello dei viveri non diminuisce, gli stipendi sono sempre quelli e talvolta anche sono stati decurtati; e si vedono certe cose, in questi uffici, dei salti, delle piroette, dei favoritismi; e di tanto in tanto qualche cacamus dall'alto vuol far di giorno quel che s'è sognato di notte e manda ordini e dà disposizioni che le son cose dell'altro mondo quando le si devono eseguire; il sussurro si fa più forte, par che voglia crescere a tumulto, ma poi tutto tace: "Voi sapete che cosa oggi penso dello Stato e della Burocrazia. Ne penso bene. Penso che l'Amministrazione dello stato cammina quando ognuno, al suo posto, è occupato nel suo preciso dovere": è Mussolini che parla, il Principale: abbiamo un Padrone, lavoriamo: e ogni sussurro di fronda si quieta, e tutti gli amari bocconi si trangugiano e si torna alla bisogna. Ad altri tocca di peggio, tanti sono stati licenziati: e poi, andando avanti si migliorerà. In alto si pensa a noi finalmente: "I benefici economici ed i progressi tecnici raggiunti non sono che un mezzo per aprire la via ad una politica di speciale interessamento per le classi lavoratrici, siano esse manuali o tecniche o professionali, siano esse nei campi, nelle officine, nei laboratori e negli uffici": anche il Re, nel discorso della Corona ha avuto una buona parola per "le classi impiegatizie" e per i paria "degli uffici": è la prima volta nella storia del Regno d'Italia.

    Mussolini, il Re, le "buone parole" dei "principali": gli operai non se ne accontentano, gli impiegati si.





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    E neanche noi, scribacchini di quella "miserabile cosa" che è l'opposizione, non ci accontentiamo delle buone parole dei principali e non ce ne accontenteremmo neanche se quelle parole fossero seguite dai buoni fatti: non per noi ma per la classe a cui apparteniamo, e per il bene del nostro paese.

    Nella storia della burocrazia italiana, che è tanta parte della storia della terza Italia, il periodo che andò dal'904 al'914 all'incirca, fu il periodo delle più importanti conquiste da parte della classe impiegatizia: fu il periodo degli "stati giuridici", fu il periodo delle garanzie per gli impiegati contro i soprusi dei "gros bonnets" e dei politicanti romani o locali, fu il periodo in cui avvenne, o, per lo meno, fu resa possibile giuridicamente quella trasformazione dell'impiegato da "funzionario" in cittadino, che è essenziale per la costituzione e la persistenza dello stato liberale moderno e che costituisce il procedimento inverso a quello per cui nella storia sempre si son sostituite alle libere repubbliche le monarchie assolute.

    Se l'impiegato italiano fosse già maturo per questa conquista non so: che l'impiegato nostro abbia adoperato queste garanzie per assicurarsi l'impunità anziché per tutelare la sua dignità, è stato detto da tanti, ed io non vado ora a cercar se sia vero; il mal uso che una persona od una classe fa di uno strumento di modernità non è un argomento per negare l'importanza e la necessità di questo strumento: anche a Verbicaro non si crede alla profilassi, ma la profilassi è salutare anche a Verbicaro; e basta che su mille ce ne sia uno che faccia buon uso e che tragga profitto per sé e per la società di una garanzia giuridica o di una misura di disinfezione, per giustificare la concessione - anzi la imposizione - del disinfettante e dello stato giuridico; gli altri impareranno, e col tempo anche essi si rammoderneranno.





    Intanto sta il fatto che prima della Marcia su Roma, gli stati giuridici degli impiegati, la cui necessità e giustizia, si noti bene, era già stata riconosciuta e proclamata dagli uomini della destra storica", avevano fatto dei nostri travets, nella teoria e nella pratica, della gente indipendente, dignitosa, usa a contare per la propria stabilità e la propria carriera su elementi obbiettivi e assoluti titoli, l'anzianità, concorsi, ecc., avevano immesso questa classe definitivamente nella vita moderna. Con la scusa che quelle tali garanzie "legavano le mani" a chi era in alto, ed assicuravano l'impunità a non moltissimi indegni o inetti, con il pretesto che essendoci tutto da rinnovare occorreva pure rinnovare il personale specie nei "posti di comando" si sono abolite tutte le più efficaci garanzie giuridiche; con la scusa delle interiori agitazioni, e dello spirito "antinazionale", si sono diroccate le organizzazioni, che di quelle garanzie o bene o male, erano i più validi presidi: e così, abolisci e dirocca, l'impiegato é tornato quello che era prima assai del '900: il lustrascarpe del "principale", l'umile servo del "sor cavajer", la foglia secca, che ogni turbinar di vento politico può rapire in volta per tutta la penisola.

     - Ma, contenti loro!...

    Lasciamo andare. Anche se gli impiegati, per parecchie ragioni, s'accontentano, per ora, di questo stato di cose, il primo a non volerlo più oltre tollerare dovrebbe proprio essere il Governo, qualunque esso sia. Le leggi di garanzie per gli impiegati governativi e di enti pubblici non sono solamente una protezione degli interessi degli impiegati stessi, ma sono un ottimo paravento anche per gli uomini del Governo, di qualunque governo, ripeto. Non c'è miglior risposta per chiuder la bocca ai più importanti dei sollecitatori di questa: "c'è una legge, non si può". Certi ministri di Mussolini, letteralmente sopraffatti da codesti importuni, posson far testimonianza della verità di quel ch'io dico, e sono essi oramai i primi ad invocare che sian ristabilite o riapplicate, con l'altre leggi, anche quelle che determinano precisamente le assunzioni e le carriere degli impiegati: riconoscono anch'essi oramai che "la legge" e con la legge il padre della legge il Parlamento, è dopo tutto anche per chi "comanda" l'unica protezione efficace contro gli assalti del peggiore dei parlamentarismi, il parlamentarismo senza parlamento, che è venuto di moda in Italia dalla Marcia in qua.





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    Ma un altro disastro ha provocato nei riguardi della "religione dello Stato", l'avvento del fascismo al potere.

    Prima della Marcia, anche dopo la guerra, pure quando lo "Stato di tutti" era già divenuto lo "Stato di nessuno" c'era ancora in Italia almeno un funzionario dello Stato, il quale in quel blocco informe s'era ritagliato un suo simulacro di Stato, e se lo era foggiato da sé e per sé, a propria immagine e somiglianza, e vi aveva insufflato il suo spirito, e se n'era fatto, nel suo freddo ateismo, un Dio, il suo Dio: e ad esso sacrificava, e davanti ad esso pregava, e, ad esso ripensando, compieva la sua bisogna cotidiana, onde traeva per sé scarso ma bastevole guadagno, mentre abbondante utile ne ridondava a tutta la comunità.

    Un bel giorno, questo fedel servitore dello Stato da lui divinizzato apprese dai fogli e dai bandi che moti sediziosi eran scoppiati contro la sicurezza dello Stato e che coloro i quali sedevano sulle cose di tutti s'apprestavano a debellar quei moti pieni di buona speranza di facilmente riuscir nell'intento; e si rallegrò alla novella l'umile servitore del Dio Stato, credendo che la fiamma di fede ch'egli aveva sempre ricettato nel suo animo, si fosse miracolosamente propagata anche agli uomini che sedevano a Roma; e che, per lo stesso miracolo, il simulacro piccolo del Dio ch'egli s'era intagliato per sé, si fosse tanto ingrandito da assumere davvero la statura e le misure del Grande Stato di tutti.

    Ma poi altri fogli ed altri bandi gli dissero che quella notizia era dovuta ad un errore di stampa, e che quei moti non eran sediziosi, ché anzi i sediziosi di testé erano divenuti dopo di un giorno degli ottimi cittadini tutti intenti ad operare per il bene della Patria e del Re: e già prima che a lui giungesse l'inattesa e mirabolante notizia e anche dopo vide sugli edifici pubblici, sugli edifizi dello Stato, comparire in un giorno non previsto dal calendario, una bandiera, inastata lassù da gente che non ne aveva il permesso, per festeggiare non lo Statuto, o il Piave, o Vittorio Veneto, e neanche la Breccia di Porta Pia, ma un'altra breccia, un'altra marcia, un'altra conquista, quella di Roma fatta da... Romani, quella dello Stato di tutti (o di nessuno), fatta da un pugno di... sediziosi.





    E allora si spense nell'animo di quel devoto dello Stato quella fiammella e si fece là dentro una grande oscurità. Allora ricercò quel simulacro che egli s'era intagliato per sé nel grande blocco informe ma non lo trovò più, e si vide invece dinanzi una specie di Molocche, vestito di mai più viste foggie, tatuato di macabri segni, con sopra una grande scritta "Stato fascista".

    L'antico credente nello Stato senza aggettivi e senza padroni, l'antico officiante davanti al simulacro del suo Stato, provò davanti a quello stato di una fazione, un senso, più che di sgomento, di repugnanza, e il suo primo impulso, fu di uscir dal tempio, ove era accaduta la sostituzione, e di ricercasi altrove un altro Dio e un altro tempio.

    Ma era già vecchio, era già stanco, e non era solo, che all'ombra del primo altare gli eran nati parecchi figli che mangiavan pane e vestivano panni; ed egli sentì che oramai era tardi per farsi un'altra vita e cercarsi un altro Dio. E rimase dove era, o tollerato o dimenticato, al servizio di quel Dio in cui egli non credeva, e da cui non poteva più astrarre, ed a cui non poteva lui attribuire la propria immagine ed insufflare il proprio spirito. E rimase a ripetere davanti a quell'altare i gesti di prima, macchinalmente e distrattamente, e continuò a spedir la bisogna usuale ma senza fervore e senza alacrità, di sacerdote fatto sacrestano, di credente fatto praticante, svuotato di fede e d'animo, inerte e stupito.

    La tragedia del dissidio fra Stato fascista e funzionari avvezzi, anche nella babilonia di un tempo, a coltivare ed a servire lo Stato senza aggettivi, non deve essere soltanto argomento di parabola per un letterato perdigiorno, ma dovrebbe anche essere oggetto di seria meditazione per quanti hanno a cuore le cose d'Italia. In questo dissidio, anche se ridotto a pochi, anche se limitato ad un solo, è il germe della dissoluzione d'Italia, Strappi come questi nelle tradizioni non così facilmente si risarciscono. Certo non li posson ricucire coloro che li hanno praticati. Codesto è compito delle opposizioni.

    E se non riesciranno le opposizioni a risolvere ed a comporre codesto dissidio, allora, fatalmente, la falla sempre più si aprirà; e le conseguenze di questo scomporsi della compagine statale non sono così facilmente prevedibili.

AUGUSTO MONTI.