LA FRANCIA REPUBBLICANA

PARIGI, 13 maggio.

    I giornali della sera pubblicano la statistica ufficiale delle elezioni dell'11 maggio:



Conservatori 20
Intesa Repubblicana-democratica (ex-blocco nazionale) 117
Repubblicani di sinistra 52
Sinistra democratica 75
Radicali e radicali socialisti 139
Repubblicani socialisti 35
Socialisti 102
Comunisti 29


    Invece di un commento mi viene naturale un riscontro. Elezioni del 1914 (programma: l'imposta del reddito e il servizio militare di due anni):



Socialisti 104
Repubblicani socialisti 24
Radicali e radicali socialisti 172
Sinistra democratica 66
Progressisti, conservatori, destra ecc. 234


    Si potrebbe risalire più in là, alle elezioni del 1906, che portarono al potere l'Herriot di quei giorni... Clemenceau o a quelle anticlericali del 1902. Si è parlato addirittura del programma di Belleville (1869) che in Francia infatti è sempre di attualità, nel 1881 con Clemenceau, nel 1895 con Millerand, nel 1924 con Herriot. La Francia non si allontana dai suoi valori storici e dai suoi metodi di governo. La tradizione è: equilibrio raffinato a tendenze conservatrici tra moderati e radicali. Il metodo: mandare al governo, a quarant'anni, gli uomini che a trenta facevano i sovversivi. Con questo espediente, in Francia, si hanno le prove logiche per continuare a credere al progresso, mentre d'altra parte non si è ancora trovata una scuola convincente e completa per i presidenti del Consiglio nazionalisti fuori della pratica o delle lotte vissute nei partiti di sinistra. Millerand, Clemenceau, Briand, Viviani, Painlevé, per non parlare che dei viventi, vengono dal socialismo.





    Per spiegare un fenomeno così caratteristico le formule dell'arrivismo e dell'opportunismo servono soltanto ai superficiali. Un rilievo basta a dimostrarne la serietà: non solo gli uomini ma i partiti si spostano a destra, invecchiando; nelle ultime elezioni i conservatori superstiti sono 20, mentre siedono a destra e sono fior di reazionari i repubblicani di sinistra e la sinistra democratica, nati come semi-rivoluzionari dopo Gambetta! È naturale che la Camera del 1924 sia tutta a sinistra rispetto a quella del 1871, e del 1876 se appena si pensa che in 50 anni il problema monarchico è stato liquidato e chi si chiamava progressista per difendere la Repubblica contro Boulanger, oggi nonostante l'ironia del nome conservato, si trova alla Camera vicino agli sparuti legittimisti.

    Non può sfuggire, a chi abbia qualche pratica di storia francese, che queste infinite dizioni sottili ed evanescenti, dei partiti democratici, non costituiscono affatto una trovata elettorale o un'improvvisazione, come le nostre democrazie sociali o democrazie nazionali: sono partiti storici con una tradizione precisa nell'ultimo trentennio e possono ancora commuovere i cuori degli elettori. Sarebbe assurdo paragonarli ai grandi partiti moderni, di tipo inglese o tedesco; ma la vita francese è solida e seria anche senza essere moderna nel senso preciso che si dà in politica a questa parola. Sussiste una vita democratica francese sebbene di un proletariato forte e intransigente si scorgano appena adesso le prime reclute. I valori bisogna cercarli nella passione innata per la politica, nell'abitudine al parlamento, che consente ancora una specie di gusto per il tribuno, per l'oratore, per l'aritmetica delle manovre alla Camera dei Deputati.

    In Francia è riuscito perfettamente l'esperimento della Riforma senza calvinismo, nel senso che si è creato lo stato nazionale attraverso secoli di storia e si é spezzata ogni influenza politica del clero, senza che per educare degli anticlericali fosse necessario turbare le coscienze dei buoni cattolici. La legge della separazione è un fatto compiuto su cui non si tornerà ed è un risultato della politica rettilinea e dell'equilibrio stabile della Terza Repubblica.





    Se la lotta delle idee si confonde per lo più nella lotta delle persone, se nell'equilibrio parlamentare si scorge spesso molto opportunismo la spiegazione non può essere una condanna: la struttura economica del paese è rimasta immutata sino al 1919; nessun ceto nuovo è entrato nella vita politica: per le lotte epiche, per le rivoluzioni grandiose è mancata la materia prima. Per l'Italia il problema della democrazia è di rivolgersi alla capacità di iniziativa di masse selvagge che entrano per la prima volta nella vita della società; per la Francia democratica che non ha più nuovi barbari (questa era la disperazione di Sorel!) si tratta di custodire le tradizioni di diplomazia e di costume parlamentare e politico e di far sí, coi congegni più semplici e rapidi, che gli ultimi venuti possano utilizzare il lavoro, l'esperienza e lo stile delle generazioni passate.

    Guardando a distanza i risultati del cinquantennio si può dire che il compito della Francia post-napoleonica è stato assolto: la repubblica consolidata, evitate le avventure di politica estera, gli esperimenti di politica finanziaria misurati, conquistate prudentemente le leggi laiche, riaffermata una situazione di libertà politica e di attività parlamentare aperta a tutti. In uno stato antico che trova in sé le ragioni di decadenza da combattere, la conquista di un siffatto equilibrio di buon senso e di misura è un grande risultato: non è facile tenere i nervi a posto, quando non è neanche possibile avviarli audacemente in una sola direzione; un regime di tribuni che riesce ad evitare la demagogia (almeno nella sostanza) è un regime vitale. Il problema stessa della diminuzione delle nascite non può essere guardato con troppe preoccupazioni: è un altro aspetto di questa situazione generale di equilibrio e di misura. Le risorse economiche e politiche del suolo e della storia francese valgono finché la popolazione è quella che è; l'éloge du bourgeois français (del piccolo borghese) non può essere altro che l'elogio di una parentesi, di un cauto periodo di transizione, che prepara a secoli di distanza lo sbocco ad un regime di democrazia moderna.





    Sino a ieri la struttura della Francia si presentava come un blocco unico. La Costituzione nata dopo Napoleone III era piena di difetti, frutto di affrettate conciliazioni tra antitesi feroci; ma non era neppure lecito pensare a rimetterla in discussione, in un paese che aveva avuto tante avventure nell'ultimo secolo. Così il blocco si cementò, di fronte al pericolo monarchico più che di fronte al pericolo tedesco. La regola della disciplina repubblicana nasceva da questa politica di blocco piccolo-borghese: una volta che l'elettore repubblicano deve votare nei ballottaggi per quello dei candidati repubblicani che ha avuto la maggioranza relativa nel primo scrutinio, contro il candidato conservatore, le divisioni dei partiti sino alla capillarità vengono ad avere un significato soltanto formale. L'eredità delle tradizioni francesi non poteva più essere affidata a un capo dopo le avventure dell'ultimo dittatore nel '70; ma il popolo alla sua volta non avrebbe saputo accoglierla se non attraverso interpreti e con complesse cautele.

    Il plebiscito del maggio 1870 aveva dato 7 milioni di voti all'impero e 1 milione e mezzo ai repubblicani. Questo ci può indicare la misura dei compiti che incombevano ai successori di Napoleone. La Repubblica fu un'istituzione grande perché non si ebbe fretta di crearla completa. Nacque tra i compromessi, presieduta da un realista, mentre il firmatario del Cahier di Belleville predicava la guerre à outrance, e mentre orleanisti e legittimisti, disputando della bandiera tricolore, si lasciavano sopraffare dalla minoranza di sinistra.

    Tra la Comune e la Restaurazione la risorsa vitale della Repubblica francese sin dal febbraio 1871 doveva essere il programma moderato e la tattica opportunista. Nella costituzione è rimasta traccia di questa fondamentale indecisione. Il capo dello Stato è il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio? Nulla impedisce costituzionalmente parlando, che quello appunto possa essere il Premier, con poteri dittatori, con funzioni insieme rappresentative ed educative, sopra e contro il Parlamento, senza responsabilità. Che in 50 anni il pericolo sia stato costantemente evitato; che appena parve più forte gli elettori francesi abbiano potuto tranquillamente, in una domenica silenziosa, liquidare insieme Millerand e Poincarè; basta a provare che la Repubblica ha in Francia sostegni spirituali vigorosi e si è assicurata una tradizione indistruttibile.





    La Francia piccolo-borghese, economicamente arretrata, statica intorno a un equilibrio tutt'altro che capitalistico, ha un regime sicuro, spiritualmente moderno, in cui tutti i cambiamenti e tutte le esigenze possono rivolgersi in piena libertà e buon costume sociale. Essa è preparata a superare la crisi di domani; a dare la classe dirigente che saprà con raffinatezza politica guidare il passaggio dalla piccola proprietà agraria alla grande democrazia moderna. Tutte le rivoluzioni in Francia sono utilizzate: la politica non si lascia sorprendere dalle crisi dell'economia.

    La democrazia parlamentare che praticò la politica moderata e opportunistica dopo Gambetta ha questa superiorità fisiologica sul nostro depretismo e giolittismo. Nasce in un paese di piccoli signori, in cui la politica è un istinto il gioco diplomatico una passione disinteressata. La minoranza repubblicana che successe a Napoleone fu una classe dirigente sul serio, se seppe superare il "16 mai" sottomettere Mac Mahon, democratizzare il Senato, stroncare il feudalismo, costringere al ridicolo Boulanger, non compromettersi negli scandali che macchiarono spesso i capi democratici più influenti. Per mantenere questa linea di governo i programmi dovevano essere tutti elastici e servire con le convenzioni più accorte allo scambio delle élites che il governo parlamentare divora ed esautora con la maggiore rapidità.

    Clemenceau ripresenta il programma di Belleville nel 1881 aggiungendovi le esigenze del socialismo e crea il partito radico-socialista. Nel '99 per stroncare la politica di "apaisement dans le domaine religieux" di Méline si trova alleata dei socialisti e dei radicali, l'union progressiste che, appena passato il pericolo clericale, si ferma in una posizione reazionaria sino alle elezioni del '24 nelle quali la denominazione di progressisti resta agli amici di Poincarè. Millerand andando al governo con Waldeck-Rousseau inizia la tradizione del partito repubblicano-socialista che avrà uomini come Briand, Viviani, Painlevé. Superato il pericolo anticlericale con Combes, il partito socialista vien ricacciato all'opposizione dalla politica personale di Clemenceau. Questo farsi e sfarsi del blocco di sinistra ha lasciato ai francesi una fresca fiducia nella capacità di rinnovamento della democrazia, ed ha abituato tutte le formazioni politiche alla responsabilità del governo. Naturalmente la lotta politica ne è stata moderata entro i limiti di combattività della piccola borghesia.





    Ma nessun Stato ha mai avuto a sua disposizione un sistema così completo di quadri per il governo: Poincarè, Clemenceau, Millerand, Caillaux, Herriot, Briand, Painlevé, Barthou, Tardieu, Blum, quasi tutti uomini di primo ordine, rappresentano una riserva stabile per la continuità di qualunque politica estera. Con una classe dirigente di questo genere la sola ipotesi di una dittatura non può destare che il ridicolo. Gli stessi uomini che hanno il temperamento del domatore democratico, lo stesso Briand, che per l'abilità di manovra può ricordare Giolitti, sono vittime ad ogni istante dell'imprevisto. La loro influenza non può essere continua pur mentre rimane costante la politica di governo.

    Il ritratto dell'uomo politico francese, ammesso che un discorso generico possa valere in questi casi, conferma i nostri rilievi sui costumi e sulle qualità della democrazia parlamentare post-napoleonica. E' raro che si trovi al Quai d'Orsay o al parlamento la figura di eccezione, l'intuito politico geniale. Le qualità storiche prevalgono su quelle più individualmente caratteristiche. C'è una cultura professionale, un'astuzia che gli ambienti ufficiosi insegnano; una raffinatezza diplomatica diventata abitudine, che nelle manifestazioni esterne ti sembra superficiale e volgare, ma che in nessun modo ti riesce di sorprendere e di smontare. Un'impassilità diventata stile. Una banalità e un semplicismo fatti apposta per professarli in un consesso internazionale senza compromettersi. Tutti i valori di routine, di costanza nel proseguire un programma ideato da altri, di moderazione, che a noi italiani professori di genialità e di improvvisazione sembrano ridicoli, costituiscono il noviziato indispensabile in un paese che spinge lo spirito di risparmio in tutti i campi. Il risultato è che mentre il politico italiano deve recitare la sua parte improvvisandola disperatamente, il francese non stona mai nella retorica, mentre d'altro canto il suo calcolo e il suo ordine non risentono affatto di pedanteria. Tutta la cultura politica francese è diventata stile e pratica: tutta è politica estera e agilità di combinazioni parlamentari: ossia esperienza che rende sicuri di sé, anche quando si ignorano i tre quarti dei problemi regionali, economici, sociali. Sotto questo aspetto le deficenze sono grandi: il meccanismo sociale funziona perché ci sono gli impiegati: gli uomini politici non hanno tempo a pensarci (meno ancora che in Italia) - essi devono proporre questioni di tendenza e di orientamento; il loro stile è manovra parlamentare. Tutta la Francia contribuisce anno per anno neutralizzando tutti gli egoismi di casta, con un processo rigoroso di scelta a creare questa classe dirigente specializzata nella funzione della politica; girare le difficoltà, manovrare e rendere delicati i sistemi rigidi, condurre gli uomini. Ecco un esempio grandioso di raffinato spirito di risparmio, simile al processo di tesaurizzazione per cui la Francia ha creato Parigi, che rappresenta di fatto, che è la Francia. In questi temperamenti di capi i difetti indicano spesso mediocrità, sempre un livello troppo comune: Poincaré è uno spirito troppo giuridico, meticoloso, testardo; Clemenceau autoritario, aggressivo, cinico; Briand, troppo sicuro e parlamentarista sino alla corruzione; Herriot, debole e semplicista; Painlevé, ingenuo e timido; Tardieu superbo e provocatore; Blum dilettante eppure senti in tutti l'onestà, il senso di responsabilità e la pratica del capo democratico.





    In dieci anni, dopo il 1914, la Francia ha dimostrato che non si può parlare della sua decadenza, anche se il suo equilibrio sembri statico all'osservatore. La guerra provò la sua coesione, il dopo-guerra ha documentato quanto essa respiri un un'atmosfera di libertà. Non conobbe movimenti di ex-combattenti e di reduci. Gli ex combattenti italiani dovettero improvvisare il fascismo per risolvere il problema della disoccupazione; i francesi non avevano che da tornare ai loro lavori di pace, bestemmiando contro la vie chère ma godendo tuttavia di un modesto benessere di piccoli proprietari. Per attenuare l'esaltazione degli spiriti servì il bloc national. Oggi che è ben morto sarebbe ingiusto non dirne l'elogio. Esso è stato il fascismo attenuato di una nazione seria. La maggioranza del signor Arago e del signor Isaac comprendeva press'a poco tante teste vuote quante ne comprende tra noi il listone. Inesperti di politica, condannati al silenzio alla Camera, compresero da sè, dopo 5 anni di non esser fatti per questa vita e quando i giornali pubblicarono nell'aprile i nomi degli uscenti che non si presentavano, di una cinquantina almeno il pubblico francese credette di leggere il nome per la prima volta. La differenza è decisiva: con Poincarè questa gente taceva, con Mussolini ricorre al manganello o si esercita negli incidenti e nelle accuse più scandalose. Il bloc national fu mansueto sino alla fine e votò prima di sacrificarsi le imposte più impopolari.

    Poincaré avrebbe potuto salvarsi. Herbette sul Temps aveva indicato la via per giungere in politica estera dall'occupazione della Rhur alle aspirazioni democratiche. L'industria metallurgica - che può procurarsi il carbone necessario accordandosi coi magnati dell'industria tedesca e non riesce invece a sfruttare direttamente le miniere - avrebbe favorito la conversione. Poincaré preferì cadere con la sua maggioranza proprio mentre i giornali di sinistra gli offrivano una ritirata un mese prima delle elezioni.





    L'11 maggio gli elettori francesi si trovarono così a votare un programma di pace attraverso gli accordi internazionali. Il paese è compattamente pacifista pur nel suo spirito patriottico e nazionalisteggiante: non ci sono più malattie di guerra in Francia, né combattentismo, né fascismo.

    Si lavorerà dunque per la pace; ma per una pace negoziata, una pace di diplomatici: anche Painlevé e Briand sono molto cauti nel parlare di Società delle Nazioni; per lo meno propongono la pregiudiziale che nella discussione della pace franco-tedesca, le colonie inglesi non votino e la soluzione sia preceduta da un accordo tra le potenze dell'Intesa! Perciò sarebbe ingenuo attendersi che la linea di Herriot e di Painlevé sia antitetica con quella di Poincaré; la politica estera di una nazione deve sempre parere la stessa! Ma la sostanza è che oggi in Europa nessuno è disposto a far la guerra: le diplomazie lavoreranno su questa pregiudiziale.

    In politica interna le deficienze del bloc de gauche si vedono già nella facilità con cui si vuol ritornare al collegio uninominale invece di imporre la proporzionale integrale. Le sinistre in Francia si sono sempre unite per separarsi dopo la vittoria. La pressione dei comunisti oggi spezzerebbe l'unità del partito socialista se esso si decidesse a collaborare con uomini suoi al governo; senza i socialisti poi i radicali si trovano privi di uomini autorevoli: mandando Painlevé all'Eliseo o almeno, per ragioni di noviziato gerarchico, alla presidenza della Camera, e Herriot alla presidenza del Consiglio, i vincitori si trovano imbarazzati nella scelta del ministro degli esteri. Tutto lascia prevedere che tra qualche mese si tornerà a Briand, che il Quotidien si è affrettato sin dal 12 maggio a mettere delicatamente in quarantena. E Briand, che è l'erede raffinato e migliorato dello spirito di Gambetta, vuol dire appunto evitare tutti gli esperimenti pericolosi, specialmente in politica estera, alla Francia repubblicana.





    Basta la fisionomia di Parigi per definire la necessità invincibile di questa cautela storica che si esprime in politica nel radicalismo moderato. La critica a Daudet e all'Action Française diventa superflua nella capitale francese. Nulla di più ingenuo del nazionalismo e dei camelots du roi in una città che potrebbe improvvisare in due giorni una nuova Comune, con un mero sciopero nei servizi dei trasporti se un pericolo di reazione si concretasse. Leon Daudet non deve aver troppa pratica di strategia: certo non ha respirato abbastanza l'aria dei metro e non ha sentito il soffio esasperato della vita moderna nelle classi umili. Non ha capito che la plebe di Parigi può soffrire la vita infernale della fabbrica, il tumulto dei boulevards, le corvées nel vortice dei chemins de fer sotterranei, soltanto perché passeggiando la domenica nei giardini delle Tuileries, dei Champs Elysées e del Lussemburgo non gli può succedere di incontrare Maria Antonietta. Di istinto gli uomini accettano l'inferno della civiltà moderna a patto di conquistarsi questa dignità e questo senso di sovranità.

    Scrivendo che il proletariato stringe in un cerchio di ferro la capitale dalla banlieue l'Humanitè del 12 maggio non faceva una frase retorica. La repubblica francese è ancora sana perché sta preparando silenziosamente le condizioni di vita libera della futura democrazia operaia, che da Parigi e dalle fabbriche del Nord e dell'Est si appresta a sostituire la piccola borghesia agricola, questa classe meravigliosa che ha reso possibile col suo spirito di risparmio l'industria nascente e la protegge con la finezza della sua tradizionale politica di libertà.

p. g.