SOREL ED IL FASCISMO

    Lo sforzo evidente che il fascismo si impone per darsi un contenuto ideale sarebbe degno di rispetto e potrebbe anche essere fecondo di proficui risultati per la chiarificazione delle idee in questo periodo veramente babilonico della nostra vita politica, se il fascismo accennasse davvero, attraverso questo suo sforzo, a chiarire prima di tutto se stesso. Ma, purtroppo, non è così. Già, è da diffidare sempre di queste teorizzazioni postume con cui si cerca di giustificare un movimento nuovo con ideologie vecchie. Il movimento, che è il corpo, e le idee, che sono lo spirito, debbono nascere insieme in uno stesso parto, uniti in uno stesso organismo, che solo a questa condizione potrà essere vivo e vitale.

    Ma, insomma, bene o male, quando si appende cappello, pastrano, giacca e pantaloni ad uno stesso chiodo, da lontano questi panni possono dare, in qualche modo, l'illusione della persona viva e servire, almeno, da spaventapasseri. Ma il guaio è che il fascismo non si contenta di un solo rampino, e vuole avere tutta la sua collezione di attaccapanni. C'è il chiodo Mazzini, c'è il chiodo Crispi, il chiodo De Maistre, adesso hanno piantato anche quello Oriani, ed in uno hanno appeso la camicia nera, nell'altro il fez col fiocco, in questo le panaches e in quell'altro le mollettiere. Ora, poi, si vuole conficcare bene a fondo il chiodo Sorel, dove vorranno appendere, suppongo, proprio il manganello, posto che questo nuovo rampino dovrebbe giustificare il fascismo come partito sindacale e di masse, e per via di quella violenza che quasi tutti, oggi, in Italia, e i fascisti per i primi, si ostinano a non comprendere.





    Ora, pur senza ammettere che i grandi nomi, dopo la morte delle persone che li hanno portati, diventino res nullius, sicché ognuno possa appropriarsene col diritto del primo occupante, è certo che dalla dottrina d'un pensatore possono talvolta dedursi le conclusioni più diverse e, perfino, diametralmente opposte al pensiero originario del loro autore. Ma, a prescindere che, in questo caso, si tratta di superamento di una teoria antica e non di semplice adesione ad essa, sta in fatto che le dottrine di Sorel trovano la radice profonda della loro originalità non tanto nei risultati concreti cui pervengono, quanto, e sopra tutto, nel metodo che le ispira. Ed è certo, a parte ogni altra considerazione, che voler collegare il metodo del sindacalismo sorelliano con quello del sindacalismo fascista é tale impresa logica che può solo sorridere alla facile improvvisazione dei filosofi novissimi che oggi pontificano in Italia.

    Il sindacalismo di Sorel, infatti, non si può comprendere esattamente se non si astrae dal fatto pratico e non si inquadra nel pensiero generale dell'autore, in cui esso diventa proprio il metodo speciale attraverso cui è destinata a realizzarsi, nella presente epoca storica, quella marcia verso la liberazione che costituisce per Sorel il superamento attivo del suo iniziale pessimismo. Questa marcia verso la liberazione, in cui consiste, in fondo, il vero progresso della Storia, si attua, a sua volta, inizialmente, per opera di pochi, e cioè mediante quel fenomeno storico e psicologico, insieme, della scissione, che è davvero fondamentale nel pensiero di Sorel.





    Dalla massa amorfa, indifferenziata e incosciente si scinde un gruppo di uomini, il cui legame è il mito, e i quali, appunto attraverso il mito, prendono coscienza di loro stessi e della loro missione nel mondo. Questo gruppo che, illuminato dal suo mito caratteristico, brilla per la prima volta sull'orizzonte della Storia, si isola dalla massa, e mediante questo suo isolamento si organizza come cellula generativa del nuovo mondo, affermando la sua esistenza ed il suo sviluppo progressivo mediante la negazione dei valori già esistenti e la costruzione di nuovi valori, morali e religiosi, politici e sociali. Il metodo di questa formazione è, dunque, l'isolamento e l'intransigenza: isolamento di culture prima ancora che intransigenza di atti e rivoluzione di fatti.

    Non si può comprendere perfettamente Sorel se non si riconosce con lui che questa formazione di nuovi valori e di un nuovo mondo per opera di un gruppo iniziale si è verificata già altre volte nella Storia, ed una in maniera addirittura universale, attraverso il Cristianesimo. Ed è proprio la prassi antica dello sviluppo progressivo del Cristianesimo che Sorel addita come schema ed archetipo al sindacalismo attuale.

    Fu, appunto, mediante la sua completa scissione dal mondo greco-romano, mediante il suo persistente attaccamento alla barbarie giudaica e la sua recisa intransigenza di fronte a tutte le forme della cultura classica, che la Chiesa nascente poté conservare la sua originalità ed assicurare il suo più tardo trionfo. Se i Cristiani primitivi non avessero adottato, di fronte al Paganesimo tramontante, questa rigorosa intransigenza che doveva meritar loro, dagli uomini di cultura come Apuleio, la taccia di barbari, probabilmente il Cristianesimo avrebbe perduta, ben presto, la sua personalità, ed avrebbe presa nell'Impero Romano lo stesso posto di tutte quelle religioni orientali che annegarono i loro riti ed i loro simboli nel sincretismo dell'epoca alessandrina. Il Cristianesimo volle essere, invece, una fede che si isola, e che ripudia in blocco la civiltà esistente con tutti i suoi valori, ed in questo senso deve intendersi l'esilio dal mondo dei primi Cristiani; per essi, veramente, mito e metodo si identificavano in un concetto comune, dacché la fede nell'al di là, nel Regno dei Celi e nella resurrezione, che costituiva il mito specifico del Cristianesimo, si traduceva praticamente in questo metodo di isolamento spirituale dal mondo sensibile, che costituisce l'esilio eroico dei primi Cristiani, pellegrini della Patria Celeste nel regno di Satana.





    Questa tesi di Sorel sulla formazione spirituale del Cristianesimo primitivo si può discutere, ed è stata, infatti, discussa; ma è questa la sua tesi, e bisogna accettarla o ripudiarla in blocco, perché non si tratta di una teoria diretta ad interpretare la Storia che fu; ma di una dottrina che mira ad indicare lo schema di una pratica attiva per la costruzione faticosa della Storia che si fa. Questa dottrina, ripeto, è fondamentale nell'opera di Sorel, ed informa di sé tutta la sua teoria del sindacalismo: che non vuole essere una semplice prassi economica, una tattica della lotta di classe, ma un metodo di rinnovazione morale prima ancora che un sistema di rivoluzione sociale e politica.

    Metodo che si realizza attraverso la formazione spontanea di gruppi separantisi dalla massa caotica del proletariato, che nega, nei suoi risultati finali, non solo lo Stato, ma tutti i valori della civiltà preesistente, e che a quest'opera di negazione e di ricostruzione totale subordina qualsiasi interesse d'ordine pratico. Così soltanto si può comprendere, ad esempio, il mito sorelliano dello sciopero generale, che non è conquista di alti salari, di miglioramenti o d'altro, ma negazione, tanto più alta quanto più senza scopo immediato e senza speranza di vittoria, attraverso a cui i gruppi operai prendono coscienza della propria forza. Metodo, insomma, che ha bisogno, per attuarsi e per raggiungere veramente i suoi scopi morali sugli individui, sublimandone la fede attraverso la disperazione eroica, del clima storico della lotta e della persecuzione.

    Ora, di fronte a questo che é il pensiero fondamentale di Giorgio Sorel, così vivo e così logicamente esposto in tutte le sue opere, come si può onestamente parlare di riferimento al sindacalismo sorelliano a proposito del sindacalismo fascista? Non è mio ufficio analizzare qui questo sindacalismo fascista cosidetto nazionale, ma è, bensí, mio ufficio, per il tema che mi sono proposto, dimostrare come esso sia proprio agli antipodi del sindacalismo sorelliano, e ne costituisca la negazione più recisa ed evidente.





    Dove è, infatti, in questo sindacalismo fascista, la costruzione dei nuovi valori spirituali, l'antitesi assoluta ai vecchi valori, il ripudio in blocco della civiltà attuale e delle antiche tradizioni? Esso, cioè il sindacalismo nazionale, si basa, se mai, proprio sopra un mito tradizionale per eccellenza, su quel mito-Nazione che è caratteristico dell'epoca romantica e che è il solo sopravvissuto, oggi, al tramonto universale degli idoli verificatosi nel dopo-guerra. Ed in quanto al concetto della produzione come fenomeno avulso e distinto da quello della distribuzione, concetto di cui si fa bello, oggi, il sindacalismo fascista, esso non ha proprio nulla a che vedere col pensiero di Sorel, a cui si rivela, anzi, in antitesi, così come non ha nulla a che vedere colla celebre, sorelliana morale dei produttori, in cui il dilemma fra le esigenze della produzione e quelle della distribuzione è affrontato non sotto le forme del contingente e del relativo, ma nei suoi riflessi collo Spirito e coll'Assoluto, e quasi sub specie aeternitatis.

    Ma l'antinomia tra il pensiero di Sorel e la prassi del sindacalismo fascista si rivela più aperta ed evidente nella tattica stessa di quest'ultimo; il quale, in contrapposto alla vecchia unificazione internazionale del proletariato, vuole fondere insieme, oggi, sotto la bandiera della Nazione, i rappresentanti delle classi sociali in lotta. Sindacalismo integrale, si dice, ma qui bisogna dar di frego, addirittura, all'idea sorelliana della scissione, qui abbiamo, proprio, una di quelle centralizzazioni astratte che Sorel tacciava col nome di utopie, qui siamo, senza dubbio, di fronte a quel conciliatorismo democratico ed a quel paternalismo riformista, entrambi di marca ottimistico-razionalista, che Sorel condannava, perché vedeva in essi la causa profonda della comune degenerazione del proletariato e della borghesia.

    Industriali ed operai uniti sotto la guida dell'on. Rossoni, che fa silenzio nei due campi avversi, e si asside arbitro fra il mondo dei pescicani e quello dei leghisti! Dio mio, se un precursore si vuol proprio cercare per questo sindacalismo nuovo stile, non è affatto Sorel che bisogna scomodare, ma l'immortale dottor Pangloss.

SALVATORE VITALE.