POSTILLEMarcia al CardelloNon si vuole fare qui il commento alla penultima sagra. Sarebbe assurdo e cretino "moralizzare" una volta di più sopra un fenomeno così estemporaneo e ovvio, che dobbiamo accettarlo come s'accetta il bel sole e il dolce far niente. Ma Oriani è - nel nostro spirito - qualche cosa di più che un pretesto di festa e un giustificatore di sentimenti e passioni. Perché non conobbe nessun riserbo e non ha saputo mettere a riparo le sue idee, i suoi spunti in un sistema ben congegnato, solido, economico, perché ha gettato quel che supponeva essere il suo tesoro come un'offa al buon pubblico, ecco che tutti ormai ci trovano il loro cibo prediletto e non sanno ritenersi dal magnificarlo loro personale autore. Si potrebbero riconoscere tre incarnazioni, tre generazioni orianesche: la nazionalista, la missiroliana, la fascista; tutt'e tre legittime, tutt'e tre quasi fortunate e accorte nel rilevare, nel pubblicare un lato del pensiero, un tono, un modo del loro maestro; ma tutte del pari incapaci d'intenderlo a pieno. Non si vuol dire che Oriani sia vivo e importante solo esteticamente, come scrittore d'un romanzo, e di quegli articoli che hanno già in sé l'incisività, la crudezza, la drammaticità contenuta e segreta, che fu poi la miglior gloria dei "Frammenti". Bisogna accettare l'Oriani senza discussione brutto, rétore e gonfio, tortuoso e sbandato, incerto de' suoi mezzi, inetto alla più elementare disciplina; l'infatuato riecheggiatore di parole altrui non comprese, l'esageratore - si potrebbe dire il calunniatore - delle altrui idee, il balordo profeta, l'ammonitore parolaio; il candidato che tien comizi sui libri e non riesce mai a consolarsi dell'applauso mancato. Questo appunto é il centro, la ragione della vita d'Oriani: che nessuno s'è accorto di lui. E' il secolo diciannovesimo che gli sta intorno, é l'impossibile pubblico; è la distanza, la solitudine creata allo scrittore dalla morte delle Accademie, dallo sfasciarsi (rispetto a lui) d'una società che aveva riconosciuto la letteratura come sacro retaggio e come incitamento all'azione nei giorni del Risorgimento. Altri creavano per un nuovo pubblico, cercando di raccoglierlo e di sostenerlo con l'accender dispute, con il segnare tendenze scientifiche e pseudo-sociali; placido e accomodante verismo, umanitarismo e rivoluzionarismo annacquato, da Capuana a Cavallotti o a Virgilio Brocchi. Ma Oriani, da buon romantico, piglia l'arte come una missione, nelle sue rappresentazioni vuol chiudere e risolvere un mondo, e insieme dettar legge, insegnare la via; non lui s'accomoda al pubblico, ma gli altri devono riconoscerlo, lo devon portare in trionfo e proclamare. Assumendo di continuo il tono dell'oratore, non trova naturalmente udienza; alla vibrante, ostentata espansione non può rispondere che un secco e lungo silenzio. Bisogna sentire, nelle opere della maturità (del tramonto) l'eco di questo silenzio: una vera e propria pausa entro lo stile che lo spazia, e un poco lo raffredda e lo appiana. Alfredo Oriani è lo stesso di prima: tende al drammatico, come un amante sciagurato; a cinquant'anni piange urla impreca, è pazzo di vuoto orgoglio o s'abbandona a una chimerica disfatta; ma, inconscia a lui stesso, ha appreso una misura; a forza di concreta giustizia sperimentata (e qui se ne ha la riprova: la sorte fu tanto giusta con lui, che finì, quant'era possibile con emendarlo) impara, senza volere, un senso d'equanimità. Non nei discorsi, nella prosa, nella pratica, ma nella sua coscienza subentra la pace. Il romagnolo frenetico sa ormai che non è possibile vincere - farsi ascoltare - con il furore delle asserzioni, coi picchi delle parole, con le escandescenze delle immagini. Esito della lotta tra lui e l'Italia repugnante non era - e si capisce - la sconfitta del nemico; ma una insaputa e inattesa vittoria su se stesso. Si meritava questo successo perché, come nessuno dei letterati, fu sincero; per ciò appunto primitivo ed infantile. Non se ne compiacque, non ebbe tempo d'avvedersene. Ma prima che gli epigoni lo proclamassero grande, prima che fosse entrato nella famiglia degli illustri, a forza di lavoro, al prezzo e con l'aiuto delle delusioni, aveva compiuto la sua non desiderata via, era salito a un'aria più nitida, a una maggior comprensione. Si disconobbe e fu, come accade, estimatore, propugnatore dei propri difetti. Non lo si pigli troppo sul serio; non si cerchi, nelle memorie intime, nei ricordi degli amici, la sua immediatezza che è iattanza. Resta invece, memorabile, l'uomo che ha fatto in tutta la sua vita professione d'inutile sdegno e non di meno, con la vecchiezza, s'è potuto affinare, umanizzare. Ma non per questo l'hanno commemorato. U. M. DI L.
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