SINDACALISMO E "STATALI"Gli articoli di A. Monti mi hanno non meravigliato ma persuaso ch'io lo conoscevo - un tempo - sotto diverso profilo. Lo conoscevo?: credevo conoscerlo. E certo il torto è mio. Nel 1921 (preistoria!), durante certe lotte politico-sociali, erami parso ch'egli condividesse - almeno in parte - le mie vedute di sindacalismo apartitico (come critica e come costruzione) cui si accompagnava un afflato mazziniano ed uno stato d'animo combattentistico-vittoriale, che, come non ci faceva indifferenti al fatto-nazione e al sentimento-patria, confortava la nostra ribellione al demagogismo imperante. Ed ora il brillante ed abbondante scrittore permetta a me grafòfobo e difficoltoso divincolatore di idee, qualche appunto a... qualche punto dei suoi scritti. Il Monti non è persuaso della infallibilità beneficente del paternalismo, sia d'un monarca assoluto sia d'una oligarchia. Se ne fosse persuaso, ai sudditi (impiegati statali compresi) dovrebbe negare qualsiasi atto di non subiezione. Non è persuaso della infallibilità, dal momento che concede una non-subiezione teorico-pratica ai sudditi ("statali", in ispecie) attraverso l'organizzazione partitica. Ma il Monti dichiara di preferire il movimento degli "statali" organizzato dai partiti che non dal sindacalismo apartitico. A questo punto, la questione teorica diventerebbe più alta, diventerebbe, cioè, generalissima. E bisognerebbe così porla: il produttore, per il suo cammino verso il novus ordo deve attenersi al sindacalismo apartitico o seguire un partito che faccia del sindacalismo? Su tale questione io mi limito a due osservazioni. Non è vero che il "partito" sia meno temibile allo stato del sindacalismo: meno temibile... allo stato attuale - che non è... stato di grazia o stato-nazione. S'io dico il vero l'effetto nol nasconde di quanto è avvenuto nella storia del dopoguerra che parmi - a proposito degli "statali" - il Monti non sempre ricordi non tenendo, fra l'altro, conto come gli "statali" siano stati in gran parte organizzarti in sindacati partitici. La traduzione in pratica dei canoni sindacalisti non può essere demagogia, incompetenza, facilonismo, perché sindacalismo è competentizzazione, spirito di sacrificio, superamento spirituale, eroizzazione. Il sindacalismo apartitico non prende le cotte, non ha le scalmane del partito, che vuol prendersi il mestolo in mano. Il sindacalismo apartitico non ha imperativi di "concorrenza" come l'hanno i vari partiti che fanno del sindacalismo. Ho già quasi esposto - con quanto sopra - anche il mio secondo punto. I partiti darebbero - almeno secondo il Monti - un afflato di idealismo al panciafichismo piccolo-borghese degli impiegati! Ma forse che il sindacalismo (competentizzazione, spirito di sacrificio, superamento spirituale, eroizzazione) è senz'afflato di ideale? Forse che il sindacalismo non è una religione palingenetica e pandinamica? s'intende il sindacalismo e non il pagnottismo verniciato, antebellico e postbellico, di questo o di quel colore... Nota Bene - Né s'inibisce la vita del partito al cittadino-produttore: no; ma, in quanto produttore, egli viva la vita del sindacato apartitico: Ubaldo Riva.
POSTILLAIl sindacalismo apartitico dell'amico Riva è il sindacalismo soreliano che i teorici italiani e francesi ci presentarono come rimedio alle degenerazioni paternalistiche del riformismo. Senza rimettere in discussione tutto Sorel, anzi accontentandoci di giudicare dai risultati, si può constatare che gli scarsi gruppi di organizzazioni sindacali che in Italia si vennero formando per ispirazione soreliana non riuscirono a creare un movimento completo ma rimasero ai margini della classe operaia, confusi ora con gli anarchici ora coi comunisti. In omaggio al dogma-nazione ci fu chi finì per rivolgersi al fascismo. In realtà, parlando di interessi e di competenze i sindacalisti italiani non seppero nascondere le loro provenienze ideologiche: un intellettualismo talvolta addirittura estetizzante, canoni critici e schemi di costruzione negati poi per una mistica esaltazione del fatto. E' l'equivoco che vizia l'opera sottile e corrosiva di Sorel. Ma non é soltanto per l'esempio di questi esperimenti falliti che noi non crediamo più a un'ideologia che pur ha servito a spiegarci molti fenomeni dello società contemporanea. Ormai, in pieno fascismo, noi sentiamo di dover rifiutare proprio l'essenza della critica sindacalista al parlamentarismo. Accettiamo Sorel per quel che è parola d'ordine rivoluzionaria alle masse, scuola di intransigenza. Ma ci sembra incompleta la sua visione della realtà tutta limitata tra interessi e competenze. La politica ha dei diritti contro e sopra l'economia. Non si tratta soltanto di sommare gli egoismi e di radunare gli individui. C'è nella partecipazione dell'individuo alla vita sociale un fatto più profondo, più spirituale, che soltanto la politica spiega e domina. Nella concezione del politico c'è più larghezza, più realismo, più disinteresse. Le classi lottano su questo terreno, non su quello meramente sindacale. Esclusivismi, intransigenze, egoismi, individualismi trovano nella realtà politica l'ultima sentenza di appello. Un noviziato soltanto sindacale, un'educazione di classe in cui la psicologia del produttore sia separata dai rapporti che lo legano con l'esterno e con altri tipi spirituali, finisce per essere una scuola di egoismo, una deformazione dell'attività sociale. C'è la politica al disopra dei politicanti. Dove i competenti cercherebbero schemi, dove i produttori si irrigidirebbero in problemi tecnici, basta il ritmo più vasto della vita del partito, il senso degli orizzonti sociali, che è istinto del politico, per superare ogni difficoltà. Contro i sindacalisti insomma noi rivendichiamo la legittimità di un'arte dei fatti sociali, di un'arte politica. Anche dal punto di vista morale vivere la vita politica nella classe, nel partito è qualcosa di più che fermarsi al contrasto degli interessi più personali; è portare i propri interessi a contatto degli altri. Eredi dello spirito soreliano, o almeno della parte sana di Sorel non sono infatti le variopinte organizzazioni di mestiere, ma anzi i bolscevichi instauratori della dittatura del proletariato. E un tal testamento l'ha scritto proprio Sorel. p. g.
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