CRISI DI CULTURA

Appunti

    I tempi nei quali viviamo sono, se per fortuna o disgrazia nostra non so, tali che non c'è verso di poter entrare in casa di gente amica o starsene seduti in un caffè, senza imbattersi in qualche bravo giovane in preda ai più violenti disturbi spirituali di una crisi di coscienza prossima a scoppiare o già in corso.

    Niente di allarmante, ben che la malattia sembri - oramai - epidemica ed i casi di maggior violenza si riscontrino nelle migliori famiglie borghesi dove s'è, in ogni tempo, avuta molta cura dell'igiene spirituale. Le cose finiscono bene, in genere; con la scelta, cioè, di un buon direttore di coscienza e con un certo numero di esercizi patriottici - accompagnati, nei casi più gravi, da solenni atti di abiura - sulla soglia delle Sezione d'un Fascio: dopo di che si rientra nella religione dell'Atto Puro Nazionale, e si riacquista la pace dell'anima e la sicurezza delle spalle.

    E' un vero peccato che la cerimonia della solenne bevuta di olio di ricino sulla piazza del paese, previa lettura di una formula magica sui peccati di opere e di omissione, sia caduta, a poco a poco, in desuetudine. Sono assolutamente convinto che essa fosse la più pronta e speditiva soluzione di tutte le crisi di coscienza; così per quelli che bevevano come per quelli che facevano bere. Era, anche per coloro che stavano a vedere, o leggevano sui giornali i particolari della cerimonia, una felice occasione per applicare, ancora una volta, ai fatti concreti le leggi del concretismo storico; per essere, insomma, storicisti di fronte alla storia veramente in funzione ed in atto; e per applicare - anche all'olio di ricino - il saggio principio dell'unità degli opposti. Infatti l'olio di ricino procura disturbi violenti e disgusti e nausee: fa male. Ma ripulisce visceri ed intestino e vi fa vedere per parecchi mesi il mondo in tutti i suoi aspetti e colori, belli e brutti, buoni e cattivi, dopo avervelo fatto vedere - per ventiquattro ore - di un colore solo e sotto un solo aspetto: nero e brutto. Insomma, fa bene; fa bene perché fa male. Proprio così!

    Molti casi di coscienza, molte crisi spirituali sono stati così risoluti anche prima che la marcia su Roma aprisse l'era delle conversioni in massa e della trionfante assunzione degli apostoli sulle cattedre universitarie e dell'elevazione dei martiri sugli altari degli ordini cavallereschi.





    Quelli che sono rimasti fuori del culto riconosciuto e quelli che non sono ancora convinti dai tangibili miracoli delle conversioni ci annoiano ancora con le loro inguaribili crisi di coscienza, e inappagabili stati di perplessità: ma troveranno anch'essi le vie della salute. E, del resto, cosa può importarci la sorte loro? A meno che, nel loro numero, non fosse anche qualcuno dei nostri, o non proprio, addirittura tutti noi, della generazione idealista e storicista: di qualunque professione od arte, di qualsiasi scuola o partito. Può darsi che sia così? E se fosse non avremmo anche noi, una buona volta il dovere di deciderci e di uscire da questa famosa crisi di coscienza, che dura da anni, e dalla quale non pare ci abbia guarito né Santo Manganello, né Sant'Olio di Ricino, né altri santi adorati e adorabili sul calvario delle redenzione?

    Ma, questa che chiamiamo crisi di coscienza è, poi, veramente tale? C'è una crisi di coscienza della nostra generazione di fronte ai fatti che si sono svolti contro di noi e nonostante il nostro volere? O noi non riusciamo a renderci ragione di tali fatti e li prospettiamo ancora a noi stessi in una luce ambigua per cui ci appaiono, di volta in volta, salutari e benefici, o malefici ed esiziali? Questo è il punto da risolvere. Se noi siamo o non capaci di decidere di fronte ad un fatto storico, ad un evento maturato e compiuto, delle sue qualità intrinseche e della sua storica natura, e quindi della sua durata e delle sue conseguenze; se siamo, cioè, veramente in condizione di emettere un giudizio senza sentirci, nello stesso momento, giudice e parte; insomma, ed in parole antiche e povere, se siamo capaci di dire che un fatto è utile o dannoso, buono o cattivo.

    So benissimo che un filosofo sorriderà a questo punto; e vedo, anzi, molti amici additarmi, con qualche ironia, biblioteche intere di volumi, saggi, storie e memorie critiche, sulla validità od oppugnabilità dei giudizii di valore. Ed io sono dispostissimo ad accettare la lezione ed a sopportare l'ironia.

    Però - e qui risolvo, per conto mio, questa che si chiama crisi di coscienza - sono decisissimo altresì a non rimuovermi da questo concetto elementare e semplicissimo; che, di fronte ad un fatto compiuto, il mio compito e dovere di cittadino è di determinare la mia azione di fronte ad esso, in seguito ad un esame delle cause che l'hanno prodotto, degli elementi che lo costituiscono, delle conseguenze che ne scaturiscono. Pro o contro. Da una parte o dall'altra. Questo è il compito e il dovere del cittadino nelle vicende della vita pubblica. Lo storico verrà più tardi a realizzare l'unità degli opposti; a ritrovare e tracciare il corso dell'idea universale.





    Ma il compito e il dovere del cittadino è quello di avere la sua idea, il suo volere; di adoperarsi alla creazione di mezzi adatti ad un determinato scopo; di commisurare le forze all'obiettivo. Compito di politico; opera, cioè, di passione e di ragione.

    Ora nella nostra generazione non c'è una crisi spirituale, perché la passione non è entrata mai in lotta ed in contrasto con la ragione, in ordine alle vicende storiche del nostro paese ed ai fatti politici che si sono prodotti. Badiamo bene: questa della crisi spirituale è, per la maggior parte di noi, una comoda scusa, per mistificare, ai nostri stessi occhi, la paralisi che ci ha colpiti; per non svelare a noi stessi il vero carattere della crisi che ci travaglia. La quale non è crisi spirituale, ma crisi di cultura; o, meglio, è crisi spirituale in quanto soffriamo e moriamo quasi delle deficienze culturali dell'intellettualismo. La nostra ragione non riesce più a fissarsi su di un fatto determinato senza perdersi tutta in quel fatto stesso ed invece di ricavarne i caratteri e le funzioni, di tracciarne i limiti e descriverne gli aspetti, vi smarrisce i suoi criterii, vi si perde in un riconoscimento generico della realtà.

    Ora se è vero che nella filosofia e nella storia conoscere la realtà è crearla, è altrettanto vero che, nella politica, la conoscenza della realtà, e la sua creazione, si ritrovano nell'azione che tende ad impadronirsene ed a modificarla. Qui lo spirito, se é concreto, incontra le sue precedenti creazioni, ed anche le sue attuali creazioni - altrettanto concrete e positivamente espresse, in leggi, istituti, costumi; e rappresentate da uomini che vestono panni e dicono parole.

    Panni e parole che non sono labari e simboli; o, almeno, non sono soltanto questo; ma circolano nel mondo come uomini veramente vivi - che conquistano, cioè, quotidianamente, la loro vita - e come pensieri in cui la verità si mescola, naturalmente, all'errore, ma dai quali nascono i grandi moti religiosi, i grandi movimenti sociali.

    È possibile rimanere nella posizione passiva dello spettatore? E se non è possibile chi è attore, non è forse tale, appunto perché ha la sua parte? Parte; cioè divisione: affermazione o negazione; discorde concordia; lotta.

    Ma è possibile avere una parte se la ragione non ne sostiene e convalida la bontà, ma, invece, ne ammette, riconosce, proclama l'indifferenza di fronte ad ogni altra parte opposta od avversa?

    Se questo non è possibile, la crisi che attraversa la nostra generazione è appunto una crisi di coltura politica: e consiste nella incapacità della ragione di suscitare pronti e definitivi motivi d'azione.

MARIO FERRARA