LINEAMENTI DI POLITICA
ECCLESIASTICA FASCISTA

    Le polemiche per le devastazioni brianzole e la lettera del Cardinale Gasparri hanno improvvisamente richiamata l'attenzione dei lettori di giornali su un gruppo di idee e di relazioni politiche intorno a cui ancora si addensa, più che l'oscurità, l'incomprensione.

    Delineare, quindi, con la maggiore esattezza possibile, la politica ecclesiastica del fascismo e le reazioni che essa ha provocato in Vaticano, e spiegarsi così perché la lotta tra la Chiesa e lo Stato oggi è più che mai viva, pur attraverso i filosofemi pedagogici del ministro Gentile, significa contribuire potentemente a chiarire la caotica situazione politica italiana, in uno dei suoi aspetti più caratteristici.

    Iniziando tale esame occorre tenere per fermo, senza bisogno di speciale dimostrazione, che il sorgere del Partito Popolare Italiano nel 1919 significò il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa di quel moto di rinnovamento dei nostri istituti politici, che non si è ancora concluso, e la necessità, anche per la Chiesa, di servirsi del metodo liberale per sostenere la sua azione politica.

    Questa verità, di cui le nostre classi dirigenti non si sono ancora convinte, svela tutto un programma di azione papale, che ringiovanisce di molti lustri la politica cattolica e mostra come la Chiesa dia prove di profonda vitalità, proprio in epoche in cui ai superficiali potrebbe sembrare l'opposto.





    Non più, dunque, patti Gentiloni e politica clerico-moderata, non più adesione al regime a scopo transattivo, ma, intuendo il processo rivoluzionario in marcia nel paese, la Chiesa, attraverso il P. P. I. tenta impadronirsi del nostro problema istituzionale, prevenendo così implicitamente ogni rinnovellato tentativo di giurisdizionalismo tradizionale da parte dello Stato italiano.

    Si svela, così, a poco per volta quella doppia faccia di tutti i partiti di centro, che ne costituisce l'aspetto più caratteristico, e rende la loro azione a volta rivoluzionaria a volta conservatrice.

    Così il P. P. I. aggredendo alle radici lo Stato burocratico-accentratore, in ciò che esso aveva prodotto di più perfetto: la dittatura giolittiana, esercita un'azione potentemente rivoluzionaria, di cui ancora oggi durano, anzi si intensificano i contraccolpi, mentre, cercando di inalveare il torrente rivoluzionario entro lo schema di idee tradizionali, mira a fermare il processo di disintegrazione dello Stato burocratico-accentratore entro le linee di un nuovo Stato parlamentare, salvando così istituti più distanti quali il Parlamento, il principio maggioritario, il Governo di Gabinetto e la proprietà privata.

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    A parte le deviazioni di carattere demagogico, comuni a tutti i partiti in questa epoca di convulsione, il P. P. I., ponendosi su di un terreno di rinnovamento istituzionale, collabora potentemente alla formazione delle nuove ideologie che dovranno operare la distruzione dello Stato-Moloch.

    Questa posizione di attacco e la riserva confessionale, che, per quanto negata, è alla base del giovane Partito, non potevano non scatenare la controffensiva del regime.





    Più che contro il Partito Socialista, impossibilitato ad operare qualsiasi realizzazione dal dissidio insanabile tra la destra riformista e parassitaria e la sinistra anarcoide, la controffensiva del regime si svolge contro il P. P. I. perché questo, imponendo la proporzionale ed il Governo di coalizione operava praticamente la sua rivoluzione ideale, obbligava lo stesso regime ad adeguare la sua protervia alle designazioni dei partiti di masse, in una parola, dall'interno delle stesse formazioni ministeriali conduceva l'attacco più aperto e più tenace al regime.

    Stretti così tra la rivoluzione socialista che vociava nelle piazze e la rivoluzione popolare che operava nei Gabinetti, i ceti dirigenti si videro perduti. Tra l'azione rivoluzionaria nel paese e quella rivoluzionaria nel Parlamento essi intuirono che non vi era una terza strada: tertium non datur.

    Occorreva risolversi per un'azione qualsiasi, se non per soddisfare la ragione per placare almeno l'istinto. E così scelsero l'azione controrivoluzionaria nel paese e nacque il fascismo.

    In questa scelta vi è già un giudizio istintivo tra la diversa intensità delle due rivoluzioni. I ceti dirigenti sperano di potere battere il bolscevismo sul campo della violenza; sono sicuri di essere sconfitti dal popolarismo nell'azione parlamentare.

    Queste considerazioni di intuizione immediata spiegano la diversa attualità delle ideologie in contrasto, e chiariscono sufficientemente la necessità anche per gli altri partiti di impadronirsi di alcuni postulati istituzionali del popolarismo se vogliono batterlo su un terreno di storicismo.

    Ma su ciò, forse, sarà, opportuno tornare in altra occasione. Per ora ci basta accennare per delineare lo sviluppo della lotta.





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    Il fascismo, è dunque, fin dal suo primo manifestarsi diretto contro il socialismo e contro il popolarismo: a difesa dello stato burocratico-accentratore, sia contro la dittatura del proletariato sia contro lo Stato parlamentare decentrato.

    Battuto il bolscevismo sul terreno della violenza ed assunto il potere il fascismo doveva determinare la sua posizione di governo sia rispetto al socialismo che rispetto al popolarismo.

    Alla prima determinazione provvide con la formula del sindacalismo integrale, alla seconda con la formula della Chiesa che serve lo Stato.

    Tralasciando ogni ulteriore sviluppo della posizione fascista in confronto alla lotta di classe, e più ancora alla dittatura di classe, di cui il fascismo stesso, in definitiva, è un esempio vivente ed occupandoci per ora della sua posizione nei riguardi dell'azione cattolica non deve sfuggire che qui l'impostazione del problema veniva pregiudicato da ragioni tradizionali che non potevano non giuocare servendo i consueti sviluppi. Anzitutto non occorre mai dimenticare che col fascismo il regime tenta un contrattacco, reagisce ad una azione di cui ha già dovuto subire le conseguenze. Quindi non può recedere dal tentativo di raggiungere le sue ultime finalità: distruggere o diminuire la forza del P. P. I. per tentare di ricondurre l'azione cattolica al vecchio schema clerico-moderato. Per ciò fare deve da una parte tentare di separare quanto più è possibile il fenomeno religioso dal fenomeno politico e dall'altra, sforzandosi di dominare il primo, tentare di prospettare il popolarismo come demagogia bianca, per assimilarla, dinanzi alla mentalità miracolista del paese, alla demagogia rossa.

    Naturalmente questa manovra viene condotta in nome della demagogia tricolore, che intuisce forse per la prima volta durante la storia unitaria, la possibilità di salvataggio attraverso l'immaturità delle masse.

    A favorire uno sviluppo di questo genere molto si prestava per la sua indeterminatezza la formula nazionalista della Chiesa che serve lo Stato.





    Come questa formula abbia potuto nascere e divenire programma di governo è un problema psicologico, più che politico, che appassionerà assai lo storico dell'avvenire. Esso dovrà proporsi il terribile sforzo di spiegarsi l'abbandono della formula cavourriana e delle elaborazioni manciniane e crispine sul giurisdizionalismo moderno, per adottare una posizione così equivoca; ma il fatto sussiste ed a noi per ora basta constatarlo.

    Ora la stessa equivocità della formula nazionalista parve al fascismo favorire quella elasticità di manovra che gli occorreva, perché mentre gli permetteva di tentare il disperato, se pure sterile tentativo di dominare il fatto religioso, abbandonando la rigida concezione laica fino allora seguita dalla politica scolastica dello stato italiano gli faceva sperare di poter continuare con la neutralità del Vaticano fino alle estreme conseguenze l'offensiva contro il P. P. I. inteso come uno dei tanti partiti politici italiani, anzi uno dei più pericolosi di fronte al mito della Nazione pacificata, per effetto della politica fascista, con la religione cattolica, e divenuta osservante della legge divina.

    In sostanza il fascismo, spinto dalla logica degli avvenimenti, inaugurava una politica a doppia faccia mirante a disintegrare dal P. P. I. tutte le forze di inerte conservazione sociale, tra cui comprendeva il Vaticano stesso, che, secondo una concezione volgare, emergente da una pura illusione ottica, è stato sempre ritenuto alleato del regime nella lotta contro gli assalti rivoluzionari.





    Il nuovo sogno legittimista quindi si concretava nello sforzo di rimorchiare nuovamente la suprema gerarchia ecclesiastica nella lotta contro il modernismo politico, nella fiducia che il Vaticano non avrebbe tardato a ritrovare la via che la tradizione gli additava, secondo le previsioni degli innovatori. Arma per condurre questa manovra il disinnesto della destra clericale dal centro e dalla sinistra demo-cristiana, e la creazione di un partito clerico-fascista, che, nell'ossequio mai smentito al regime - di cui aveva sempre fatto parte, anche quando errori di prospettiva avevano potuto far credere il contrario - doveva trarre lo spunto per il progettato ritorno antimodernista.

    Tutto ciò spiega, in sintesi, gli avvenimenti di questi ultimi tempi e può chiarire talune apparenti contraddizioni che sono, invece, perfettamente logiche.

    Le stesse perplessità popolari, la collaborazione a metà, lo sforzo di farsi riconoscere come partito e l'altrui pervicacia nel negare il riconoscimento, il tentativo di mantenere l'unità formale del partito e lo sforzo successivo di arginare la scissione, l'adesione ultima ad una politica di centro e la esclusione della destra e della sinistra dalla formazione elettorale, sono fenomeni in dipendenza del corso dell'azione e della reazione principale e mostrano attraverso quali linee di minima resistenza il tentativo di impossessamento del clerico-fascismo avviene, su quali posizioni, invece, di granitica consistenza il partito popolare resiste.

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    Di fronte a questa manovra nazional-fascista il Vaticano intuisce la crisi spaventosa dello Stato italiano, e immediatamente decide di favorire la manovra per trarne tutti i profitti. Però, siccome è convinto che tale politica è dettata dall'istinto del salvataggio, e che al P. P. I. si apre un avvenire, cui, in nessun caso, si deve rinunziare, adegua immediatamente la sua politica, a quella fascista.





    E come questa ha doppia faccia così anche la politica vaticana assume doppio aspetto, e mentre non ostacola, anzi finge di incoraggiare, la formazione clerico-fascista, per avere l'occasione ed il modo di sfruttare fino al possibile l'abbandono dei canoni giurisdizionalisti, continua a sostenere il P. P. I. nella lotta di resistenza al regime, tanto più sperando nel successo del giovane Partito quanto più il regime è costretto ad abbandonare le sue difese tradizionali. Questa politica diabolica che è tutto un commento alla solennità dell'epoca, continua da più di un anno con alterne vicende e non accenna ancora a concludersi.

    I suoi alti e bassi coincidono con gli alti e bassi degli avversari e mirano ad equilibrarli, talune volte attraverso la stessa azione dei clerico-fascisti. Oggi, dopo le elezioni, dopo cioè la constatazione che la formazione popolare è quanto mai imponente la lotta assume un aspetto drammatico perché, di fronte al rinnovarsi delle violenze antipopolari, esasperate dall'oscura coscienza della sconfitta, il Vaticano non teme di palesare più apertamente il suo giuoco, spendendo una parola di appoggio per il Partito Popolare Italiano.

    È, forse, una semplificazione del giuoco politico, ma è anche un sintomo di sconfitta.

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    Ora in tale condizione di cose la prima constatazione che balza viva alla mente del lettore è l'ulteriore indebolimento che ha subito il regime attraverso questa lotta.

    Esso aveva organizzato un sistema di difese giuridiche, che ha dovuto abbandonare, senza poter ottenere un rallentamento nell'attacco istituzionale. Dopo aver buttata tanta zavorra il pallone non sembra possa riprender quota anzi sempre più si abbassa.





    Il P. P. I. è ancora in piedi, ed il Vaticano mostra chiaramente di fare vasto assegnamento su di esso per l'avvenire, per sfruttare nell'ora buona la felice intuizione avuta nel 1919 con l'adozione del metodo liberale.

    Anzi, non è escluso che i dirigenti del giovane partito sognino di assorbire interamente la funzione che avrebbe dovuto avere il partito liberale italiano se fosse mai esistito.

    La politica clerico-fascista è dunque battuta in pieno, perché la sua formula riproducendo un patto Gentiloni più in grande (al patto Gentiloni lo Stato fu estraneo, mentre ha preso parte al patto Gentile) trascurava la nuova realtà politica italiana e le esigenze innovatrici dell'ora.

    Né è possibile uscire da questa situazione con l'inscenare un anticlericalismo tipo demo-massonico, anzitutto perché se il fascismo ha veramente distrutto qualche cosa questa qualche cosa è stata la Massoneria, e poi perché sarebbe troppo tardi, di fronte alle formazioni clerico-moderate infiltratesi nel fascismo stesso.

    Come si può, dunque, fronteggiare la situazione, non già nell'interesse del regime, ma nell'interesse dello Stato italiano, che non è ancora sorta, ma sta per sorgere?

    Per quanto noi ci riserviamo di sviluppare l'argomento in altre occasioni, non crediamo di dover ritardare ulteriormente il nostro pensiero.

    Occorre, dunque, che il regime si dia finalmente per vinto e non ostacoli ancora la formazione dello Stato moderno in Italia, permetta cioè a questo ultimo di fondare la sua ragione di essere su molti di quegli istituti che - per uno strano anacronismo - oggi costituiscono nelle mani del P. P. I. argomenti rivoluzionari.

    Svuotata così la faccia innovatrice del giovane Partito ne risulterà chiaro l'intimo contenuto conservatore, e la riserva confessionale, che è alla base della formazione popolare, emergerà più evidente.

    Solo allora potrà dotarsi lo Stato Italiano di una politica ecclesiastica veramente laica che risponda agli interessi ed al genio della Nazione, e non alle aspettative dei ceti dominanti.

    Ma di ciò ci occuperemo più ampiamente un'altra volta.

GUIDO DORSO.