UOMINI E IDEEIl signor Abertini"Ebbene io affermo che non si può contestare il diritto agli italiani ben pensanti di chiedere al signor Albertini - parlamentare, giornalista e cittadino, dall'etichetta nazionale - conto della responsabilità che si é assunta col suo atteggiamento di passività nemica, al cospetto di una battaglia elettorale con così preciso significato politico. Credo che il fascismo italiano non dimenticherà tanto presto l'affronto alla causa della pace interna e del trionfo delle forze nazionali, che detto signore, vittima di una presuntuosa e folle aspirazione politica, ha consumato con freddo animo domenica scorsa". Queste sono frasi di una intervista concessa dal comm. Cesare Rossi, capo dell'Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, al Corriere Italiano. Non potevano essere dette in un momento più opportuno. L'esito delle elezioni era accolto con un certo sbalordimento, non si sapeva come far entrare nel coro degli inni osannanti la nota che segnasse il dispetto e il rancore per la votazione milanese. Ora va bene: c'est la faute à Voltaire. Non solo a questo modo si fa la storia, che é operazione assai importante e lusinghiera per i nuovi adepti alla filosofia dello spirito, ma si crea pure quello stato d'animo - inducente ad azioni e a reazioni - che é quasi una riprova e una giustificazione "a posteriori" dell'accusa lanciata. Il linguaggio - o il silenzio - del signor Albertini potrà d'ora in poi esser meno temperato e guardingo, e servire a diffondere tra "gli italiani ben pensanti" la persuasione che sia da punire con estremo rigore "l'affronto alla causa della pace interna". Incapaci di scoprire, degli eventi odierni, le cause ultime ed elementari, e di precisare, con sagace occhio clinico i loro responsabili autori vogliamo scrivere a commento poche note di cronaca (idealistica). Gli italiani ben pensanti, che sarebbero poi i borghesi, hanno letto le parole del comm. Rossi, e benché inclini a prestar fede a una voce che si fa sentire su la soglia del potere, rimangono allibiti. Hanno conosciuto il senatore Albertini come persona rispettabilissima, che é salito con indefesso lavoro alla carica di direttore del più diffuso quotidiano d'Italia, e s'è meritato, nel momento culminante della sua attività e quando poneva tutta la sua forza di indirizzatore dell'opinione pubblica al servizio di una causa altamente patriottica, in età inconsuetamente giovane gli onori del laticlavio. Lo hanno visto sempre primo a rivendicare l'onore nazionale di fronte agli stranieri, e esaltatore anche in patria di uomini e di sentimenti che tanto spesso, per ragioni di bassa politica, erano misconosciuti o trascurati. In tempi calamitosi lo hanno inteso serenamente, ma a volte con cupa e profetica insistenza, invocare il ripristino dell'autorità dello Stato; e allorché altri tentavano transazioni e eran pronti a superare pregiudizi e a offrire la giustificazione storica di qualunque forma più offensiva e ripugnante, lo hanno ammirato incapace di pieghevolezze, sicuro di salvare, con i suoi principi e con gli interessi aderenti, l'onore, incontrastato rappresentante di una classe che, quando i più la stimavano stremata e costretta a patteggiare, si apprestava invece a difendere sopra tutto il suo patrimonio ideale. Ma più scandolezzati ancora sono i suoi concittadini milanesi. Essi ricordano la difesa del comune contro l'assetto, e poi la vittoria, socialista; la continua e intelligente opera di chiarezza negli argomenti economici e finanziari, che era come un gratuito patrocinio del contribuente di fronte alla lontana, insensibile burocrazia fiscale. E quel suo nobile spirito d'iniziativa, per cui in ogni campo, dall'arte alla beneficenza, dove ci fossero riconoscimenti da ottenere, la città primeggiava, la ricchezza, la capacità, l'avvedutezza, il cuore dei milanesi venivano portati a esempio, eran ragione di degna gara e di salutare invidia. Sicché é una sola voce di sgomento e poi di sdegno tra i cittadini migliori, tutti, nel club dell'Unione, al Cova, in Galleria, per le strade, si risentono delle imprudenti e demagogiche parole del commendator Rossi come di un'offesa personale, subito si costituisce un apposito Comitato che invia a S. E. Mussolini, Presidente del Consiglio, un vibrato se pur deferente telegramma, nel quale gli chiede che non venga più oltre concesso, ad un pubblico funzionario, di vituperare un Senatore del Regno... Ma, nell'immaginare questa cronaca, s'era dimenticato che in Italia i difensori del senatore Albertini non esistono: quando sono al dunque, al punto di prendersi una qualche responsabilità, si disperdono, si camuffano, scappano. Tutti lo leggono, lo approvano, se ne servono: nessuno lo segue. Nessuno, dei suoi per modo di dire educati vicini oserebbe insultarlo: ma il primo che capita può inveire contro di lui, che tutti, buoni e umili, o magari ipocritamente inferociti gli danno ragione. Figurarsi quando parla un quasi membro del Governo! Come farebbe a aver torto? Venisse dittatore Gramsci, sarebbero tutti disposti a applaudirlo. I borghesi d'Italia non sanno esser conservatori, ma ministeriali; pronti, invece che a difenderlo e a amministrarlo, a fondare l'erario. Questo al senatore Albertini deve spiacere più di tutto: che a difenderlo, o, perché non gli suoni ingiuria, a capirlo e a consentire con i suoi atteggiamenti, non ci siamo che noi. Si tratta d'una posizione di coscienza e non importa più nulla; non la distanza che da lui ci separa intellettualmente, le cose di lui che ci dan noia che egli consideri Boito un grande musicista o Tito un gran pittore, ospiti la prosa di Fraccaroli, induca Sacchi a scrivere come un artista da caffè concerto; o abbia continuamente sconosciuto gente come, mettiamo, Sorel Croce, Pareto, e contribuito a respingere fuori della Nazione, con perfetta mancanza di senso storico, ma anche di semplice simpatia umana, i proletari fedeli ai loro miti. Liberismo il suo e non liberalismo, filisteismo borghese in tutti i toni, e non mai comprensione, adeguazione verso le manifestazioni e passioni umane, religione, arte, pensiero; chiarezza quasi bottegaia o contabile di scrittore a scapito di ogni eleganza, modi di ragionare pedestri o banali, incapacità all'ironia. Lo specchio di questi difetti, lo sappiamo, é la terza pagina del Corriere. Ma siamo noi romantici, inafferrabili, quasi evanescenti, scettici, dubbiosi nelle sue fedi, rovesciatori dei suoi ideali; borghesi spurii, o tanto letterari - e infrolliti - da esser pronti a "rendere" le nostre posizioni per il mero gusto di assistere a una prova storica o di sperimentare la disfatta nel nostro intimo; siamo noi che gli stiamo vicini e gli saremmo fedeli. Non ci può curare, non ci può redimere; non aspiriamo né alla sua serietà, né alla sua disciplina; l'equilibrio suo ci pare un giuoco e certi schemi di diritti e doveri ci fanno sorridere. Siamo convinti d'un ordine futuro, per il mondo e per le nostre anime, alla cui stregua tutti i problemi che lo investono e in nome dei quali egli tien testa all'odio e alle minaccie smetteranno d'aver valore. Ma quando é unico al suo posto e forse l'insidia che gli tendono non é retorica e vana, non si saprebbe desiderare altro che d'esser riconosciuti come suoi compagni. U. M. di L.
GramsciAntonio Gramsci va alla nuova Camera fascista come rappresentante degli operai del Veneto. È davvero la Rivoluzione, sconfitta, che va in Parlamento a predire sciagure ai vincitori. È il primo rivoluzionario che entra a Montecitorio! Altro che rompere le urne e provocare scandali rumorosi! Bombacci e Misiano erano delle riproduzioni fotografiche di Enrico Ferri; era la rivoluzione dilettosa per le cronache dei buoni borghesi. Il piano ideologico e lo stile di questi agitatori assomigliava stranamente a quello di Mussolini. Se Gramsci parlerà a Montecitorio vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e nello sforzo di ascoltare parrà loro di provare un'emozione nuova di pensiero. La dialettica di Gramsci non protesta contro i brogli o le truffe ma ne documenta dalle pure altezze dell'idea hegeliana, la insopprimibile necessità per un governo borghese. I suoi discorsi saranno condanne metafisiche, le invettive risentiranno dei bagliori d'una palingenesi. Bisogna pensare a tutta la sua formazione spirituale negli anni di Università a Torino per spiegarsi il suo odio contro la società. L'odio di Gramsci é uno degli esempi più convincenti che io conosca di orgogliosa nobiltà e di dignità ferita. Il suo socialismo é prima di tutto una risposta contro le offese della società alla sua solitudine di sardo emigrato. La sua sociologia ascetica, l'assolutezza filosofica dei suoi atteggiamenti giacobini sono nutriti di sofferenza personale. Una sofferenza diventata così intimamente aristocrazia di carattere che può deridere tutti i compatimenti della morale borghese e documentare la sfacciata crudeltà della filantropia. È difficile trovare un tipo così caratteristico di schietto marxismo, una coscienza così superba e ferma di plebeo che non si rinnega. Ma già nell'istinto c'era il disprezzo per tutta questa semi-borghesia, e l'istinto maturò nelle campagne isolane, dove le opinioni politiche giungono logicamente sino all'abigeato e alla pratica dell'assassinio vendicatore. Tuvieri mostrava cent'anni fa ai repubblicani della penisola, che fuori di ogni ipocrisia la logica era coi monarcomachi: anche Gramsci invoca delle conclusioni fedeli alle premesse, senza mezze misure. Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l'eredità malata dell'anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l'innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costituito secondo i rapporti logici di una grande utopia redentrice, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall'amarezza, interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo rigore della sua razionalità. La voce é tagliente come la critica dissolvitrice, l'ironia s'avvelena nel sarcasmo, il dogma vissuto con la tirannia della logica toglie la consolazione dell'umorismo. C'è nella sua sincerità aperta il peso di un corruccio inaccessibile; dalla condanna della sua solitudine sdegnosa di confidenze, sorge l'accettazione dolorosa di responsabilità più forti della vita, dure come il destino della storia; la sua rivolta é talora il risentimento e talora il rancore più profondo dell'isolano che non si può aprire se non con l'azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se non portando nei comandi e nell'energia dell'apostolo qualcosa di tirannico. L'istinto e gli affetti si celano ugualmente nella riconosciuta necessità di un ritmo di vita austera nelle forme e nei nessi logici; dove non vi può essere unità serena ed armonica supplirà la costrizione, e le idee domineranno sentimenti ed espansioni. L'amore per la chiarezza categorica e dogmatica, propria dell'ideologo e del sognatore gli interdicono la simpatia e la comunicazione sicché sotto il fervore delle indagini e le esperienze dell'inchiesta diretta, sotto la preoccupazione etica del programma, sta un rigorismo arido e una tragedia cosmica che non consente un respiro di indulgenza. Lo studente conseguiva la liberazione della retorica innata nella razza negando l'istinto per la letteratura e l'agile gusto nelle ricerche ascetiche del glottologo; l'utopista detta oggi il suo imperativo categorico agli strumenti dell'industria moderna, regola colla logica che non può fallire i giri delle ruote nella fabbrica, come un amministratore fa i suoi calcoli imperturbabile, come il generale conta le unità organiche apprestate per la battaglia: sulla vittoria non si calcola, non si fanno previsioni perché la vittoria sarà il segno di Dio, sarà il risultato matematico del rovesciamento della praxis. Il senso etico é dato qui dalla tolleranza e dalla sicurezza silenziosa: c'è la borghesia che lavora alacremente per la vittoria del proletariato. Più che un tattico o un combattente Gramsci é un profeta. Come si può esserlo oggi: inascoltati se non dal fato. L'eloquenza di Gramsci non rovescierà nessun ministero. La sua polemica catastrofica, la sua satira disperata, non attendono consolazioni facili. Tutta l'umanità, tutto il presente gli é in sospetto. Chiede la giustizia a un feroce futuro vendicatore. p. g.
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