Ultima replica a Coletti

CONTRO IL DAZIO SUL GRANO

    Le gentili anime accademiche possono respirare: lo squisito analizzatore marchigiano resta liberista e individualista. Di fronte a chi si immaginava già che avesse passato il Rubicone, egli presenta una prova decisiva: si è guardato nello specchio, e si è rasserenato trovandosi come prima. La martellata non ha lasciato traccia: nemmeno un capello si è spostato. Sicuro: i protezionisti si riconoscono a guardarli, ammonisce la nuovissima dottrina. Il bello è questo: appena un liberista passa tra i "rincaratori" (si può dire così?) eccolo mutarsi nel viso e nella figura come fanno i condannati nel 25° canto dell'Inferno dantesco. Peccato che l'egregio economista umanista non ci abbia tratteggiata completa la teoria delle trasformazioni personali successive al cambiar di opinione! ne sarebbe uscita una pagina ricca di humor e di vivacità, quale solo il Coletti od un altro scrittore elegante ed acuto e mordace come lui potrebbero regalarci.

    No: Francesco Coletti va tolto dalla schiera dei protezionisti, non ama quegli obliqui contatti. Basta, per comprenderlo, guardarne la fotografia: alto, segaligno, volto dolicocefalo come macerato dalla riflessione, vivacissimi gli occhi. Tutto l'opposto del protezionista, probabilmente grasso, rotondeggiante, morbido e cerimonioso. Però alla prova dello specchio forse anche l'on. Olivetti passerebbe nello stesso gruppo dell'economista di San Severino: che la teoria "up to date" non sia del tutto sicura e decisiva, ma ancora un poco appannata?

    Il fortunato strumento, fido compagno e confessore delle eleganti signore come dell'economista macerato, deve aver suggerito al nostro "rincaratore del grano" la definizione del perfetto protezionista: "un tale che ammette a priori la regola della protezione". La norma è chiara: date le premesse però, mancia competente a chi troverà ancora un protezionista. Scomparsi tutti dalla circolazione, non ne resta più uno. Come nei manicomi nessuno ammette di essere pazzo, tutti proclamandosi sanissimi di mente, così tra i "rincaratori" più emeriti nessuno vuole il rincaro come regola: tutti sono liberisti in teoria, salvo le indispensabili eccezioni, da valutarsi naturalmente caso per caso, nel momento presente tipicissimo per la malvagità dei produttori stranieri di tanto più abili. Siderurgici e zuccherieri, cotonieri e chimici, Benni e Peglion, Olivetti e Marescalchi con tutti i minori corifei, non hanno mai dimenticato di tirarsi fuori dal protezionismo come regola. Se il Coletti se ne accontenta, sono dispostissimo a recitare il "mea maxima culpa" e battezzarlo liberista al pari degli onorevoli sopra riferiti. Tanto più che vuole un solo dazio sopra i 2500 della tariffa!





    Quanto al nodo dell'argomento, nelle due colonne brillanti e vivaci dell'economista marchigiano - che ora con Arrigo Serpieri disputa la gloria di essere il moderno Jacini - non ho trovato risposta alcuna. Osservazioni particolari parecchie, e puntate vigorose: ma al "quia" lo specchio pur troppo è rimasto muto. Eppure valeva la pena di non sbrigarsela, col classico "non ho detto male di Garibaldi"; e forse anche di evitare il rinvio ad uno scritto di oltre venti anni fa. Il concedere un dazio rincaratore del grano non è un problema contingente, da risolvere nel 1924 e non nell'anno duemila? In Italia e non nella Nuova Caledonia? Per un malanno definito e minacciante, e non solo asserito?

    Ma allora ci occorre conoscere questo "periodo futuro con prezzi ribassati": le pagine del 1902 non ci possono illuminare, ma purtroppo anche le colonne ancora fresche di stamperia non ce lo precisano.

    Se non viene in aiuto un fatidico "Deus ex machina" non vedo come abbia torto chi ne prevede i caratteri in un modo differente dal suo. Si tratta di un problema contingente: non metto nemmeno in dubbio che per risolvere date crisi convenga un dazio protettivo, ma domando: quale è la crisi?. Sui mercati internazionali vi è accenno ad una notevolissima e sostanziale caduta del prezzo del frumento? Questo è un fatto da accertare prima di passare oltre: ma il Coletti non dice parola. Guardiamo gli elenchi dei prezzi nel grande mercato esportatore nord-americano: la media trimestrale nel 1921-23 è stazionaria, con lievissimo cenno a depressione: i noli ed i cambi vengono poi a tenere le quotazioni del frumento per quintale a Genova dall'ottobre del 1921 ad oggi oscillanti attorno alle 108-120 lire per quintale: un po' più di cinque volte il prezzo del 1913-14, quando costava L. 21. Caratteristica la fermezza dell'offerta in tutto l'anno scorso, il prezzo movendosi solo in limiti strettissimi, da L. 109 a 111; flettendo nei due mesi di agosto-settembre a 104-98, ma per risalire subito alle 108,50 che non abbandona più nemmeno nel primo trimestre del 1924. Esercita in questo modo una concorrenza distruttiva per i nostri produttori? Non lo si direbbe dato che, anche nel 1922, quando nessuno se ne lagnava, i prezzi in Italia erano sulle 115 lire per quintale.





    Sul mercato italiano c'è stata invece una caduta nella scorsa estate; e come! di circa un quarto, fino alle 85 lire per quintale, appena in questi ultimi mesi risalendo al livello del grano estero. Il ribasso dunque si è mantenuto interno, connesso all'abbondanza del raccolto e compensato appunto da questa, sicché il reddito non appare scemato. Il Coletti trova infantile questo confronto del 1923 col 1922 e non ne vuol sapere, perché forse lo turba più di quanto non voglia lasciar supporre: ma non se ne può fare altro. Il reddito lordo deriva da questi due elementi: prezzo e quantità, ma uno è in funzione dell'altro sono due variabili legate, interdipendenti. Non si può estendere il calcolo alla campagna del 1924 ed alle successive, perché l'avvenire è dietro al nostro specchio e non davanti, o meglio è sulle ginocchia di Giove. Se nel prossimo estate il raccolto non sarà abbondante, non è troppo arrischiata la profezia che il prezzo di vendita riescirà assai più rimunerativo. Il reditto netto nell'ipotesi del Coletti sarebbe minore in quanto il raccolto sarà meno abbondante: ma non offre nessuna luce sul prezzo probabile. Eppure lasciano chiaramente supporre un rincaro interno, almeno fino al livello del grano straniero, le notizie della sostenutezza nei paesi concorrenti, dove la zona coltivata viene ristretta appunto con lo scopo di rialzare i prezzi di vendita.

    Se non si vuole combattere contro dei mulini a vento, per un metafisico "periodo duraturo a prezzi ribassati" è giocoforza fare il calcolo terra terra dell'incidenza del dazio nel 1924, in Italia. Anche se lo si fosse messo nello scorso estate, quando incominciò la caduta provocata dall'abbondanza, non c'è ragione alcuna per immaginare che il prezzo interno ne avrebbe risentito: anche senza dazio, il prodotto straniero rimase di ben venticinque lire per quintale più elevato, e tuttavia se ne comprò in quantità tutt'altro che tenue: oltre ai 17,6 milioni di q.li introdotti nel primo semestre del 1923, e quindi relativi alla campagna precedente, dallo scorso luglio al gennaio 1924 arrivarono altri 14 milioni di quintali. Il prezzo estero avrebbe potuto diventare effettivo: spiegare perché quello interno non salì alla pari è compito degli agricoltori: ma intanto resta evidente che il dazio non poteva servire.





    E pel 1924? Il dazio non può avere virtù taumaturgica: è un rozzo strumento che agisce attraverso all'incidenza, non nota soltanto ai sottili teorici come il Brown ma palesi a chiunque esamini l'andamento dei prezzi in mercati aperti e chiusi. Agisce interamente in determinati casi, è inerte in altri. Si può quindi supporre che gli economisti e pratici, riuniti nella commissione di studi della "Federazione dei Consorzi Agrari", approvando "il ripristino dei dazi doganali ora sospesi quando si tratti di evitare il danno di una crisi" si riferissero alle circostanze in cui questo rimedio può essere efficace, non agli altri in cui rimane sterile. Non c'è qui affatto questione di liberismo o di protezionismo; ma di decidere se vi siano gli estremi per l'incidenza. Se dunque ancora nel luglio 1924 i prezzi esteri rimangono sulle 120 lire per quintale, il dazio non risulta necessario: e se il prezzo interno scende al di sotto mentre il grano d'oltremare continua fermo, il dazio risulterebbe inattivo. Converrà allora ricorrere ad un premio, con tutte le sue ripercussioni sui contribuenti. C'è di più; anche se il grano estero rinvilisse, prima di accedere ad un dazio sarebbe indispensabile il calcolo sulla durata; e ponderare bene se il rincaro del grano non danneggi delle industrie esportatrici col trattenere più alti i salari nominali. Tante incognite di cui nulla si dice dai difensori del dazio rincaratore del grano.

    Quanto alle conseguenze indirette che un aumento delle importazioni cerealicole può esercitare sul cambio, vennero esposte in modo magistrale nel 1918 da Luigi Einaudi. Per infilzare del tutto questo buffo sofisma e relegarlo tra i mostricciattoli da museo, conviene riesporlo ancora una volta. Quando si compera all'estero per diciassette miliardi di lire e si hanno soli sedici miliardi tra merci e servizi e titoli da cedere in pagamento ai creditori, non diventano diciassette anche se il cambio sulla sterlina da 100 passa a 110 e magari a 150 e 200. Può darsi che offrendo un interesse del 10 per cento si trovi all'estero della gente disposta a farci credito per un miliardo di lire: se noi accettiamo l'accordo potremo comprare tutti i diciassette miliardi di merci e servizi, altrimenti ci dovremo accontentare di sedici soltanto: il cambio non si modificherà punto per causa del commercio internazionale. Ma può accadere che noi non accettiamo il peso del 10 per cento di interesse, per offrire il 6 per cento: i portatori (stranieri) di capitale disponibile lo accetteranno, a patto di ricavare il residuo 4 per cento da un peggioramento del cambio. Ma allora questa caduta non dipende dalle importazioni; ma solo dall'aver voluto mascherare un saggio d'interesse per ricettare una tenuità apparente. Anche qui le importazioni non agiscono che come occasione eccezionale, indiretta, per una politica sbagliata: il peggioramento del cambio si deve a questa e non alle importazioni.

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