LA POLITICA DI GIOBERTIL'avere l'Anzilotti (Gioberti, Vallecchi, ed.) poco approfondito l'esame del travaglio culturale giovanile del Gioberti, gli ha impedito di mettere nel dovuto rilievo diversi aspetti (secondari, ma caratteristici) del pensiero dell'abate torinese. Anch'egli s'industria d'attenuare l'importanza dell'adesione giobertiana al repubblicanesimo mazziniano, dovuta all'accettazione del panteismo di Bruno e di Spinoza, quale risulta nella famosa lettera di Demofilo ai compilatori della Giovine Italia; mentre, d'altra parte, passa quasi sotto silenzio le pure giovanili e successive adesioni al materialismo, al romanticismo, al giusnaturalismo ed alla teocrazia, precludendosi per ciò la possibilità di capire appieno il pensiero del Gioberti maturo. Certamente, il documento politico più importante dell'epoca giovanile é la famosa lettera al Mazzini: ed é notevole il fatto che all'esaltazione dello "stupendo panteismo bruniano" consegua l'accettazione delle idee repubblicane e dell'evangelismo giansenista così caro al Mazzini non meno che al Lamennais, poiché tale accettazione ritornerà, ogni qualvolta il Gioberti, obbedendo al suo temperamento, abbandonerà il ferreo platonismo della "formola ideale" per riconoscere i negati diritti della democrazia (1). Potenzialmente, é ovvio, e quale espressione del suo persistente temperamento giovanile, il Gioberti ha sempre portato in sé la possibilità di deplorevoli abbandoni alla passionalità demagogica e retorica; ciò che mette in chiaro, oltre che la sua origine popolana, il carattere della "democrazia" verbosa e vacua delle "teste bruciate": Brofferio (che il Rodolico ha dimostrato essere stato un impunitario) e Macchi. Per il Gioberti della "formola ideale" la democrazia (e il panteismo di cui era la politica espressione) vichianamente era la fase preistorica, infantile e sentimentale dello spirito, destinata ad esser negata e sorpassata dall'affermazione dell'Idea. Insistere sul panteismo giovanile del Gioberti non deve voler significare il proposito da parte nostra di dare valore più grande di quel che effettivamente abbia all'adesione ad esso del riformatore piemontese, ma il riconoscimento che tale adesione rimase sempre in lui in funzione di stato d'animo e di sentimento: elemento attivo, si direbbe, in contrapposizione all'elemento statico rappresentato da suo intellettualismo. Il vero si é che prima del ritrovamento della "formola ideale" l'animo del Gioberti fu come un campo d'esperimento, nel quale le più contrastanti idee e tendenze vennero a cozzare per la selezione e la prevalenza. Così nel culto dantesco come nella tradizione alfieriana e nel teocraticismo del De Maistre trovarono forse la loro origine l'idea del primato, e il sentimento della fatale prevalenza piemontese; mentre forse al razionalismo positivista si deve il suo realismo politico, e al giusnaturalismo il concetto dell'iniziale uguaglianza di fatto e di diritto di fronte alla natura ed a Dio. Purtuttavia tutte queste varie tendenze rimasero in lui latenti ed all'oscuro stato di potenza: correnti vicendevolmente equilibrantesi nel convulso mare del suo animo; finché l'idea - madre di tutta la sua filosofia - non fu da lui percepita e non impresse al suo spirito una sicura linea di demarcazione e di condotta, assieme ad una robusta spinta verso l'azione. Il tono commosso con cui il Gioberti parla della sua percezione della "formola ideale" potrebbe a tutta prima lasciar supporre che tale percezione egli abbia avuta per illuminazione improvvisa, se i diligenti recenti studi del Menzio sulla dissertazione inedita sul Progresso, preparatoria del Primato, e del Caramella sulle anticipazioni vichiane della "formola ideale" non testimoniassero che anche di essa la maturazione fu lenta e che solo attraverso un lento processo di elaborazione la teoria del linguaggio del De Bonald doveva spiegargli il mistero della Rivelazione, e la filosofia del Vico inspirargli il senso dell'unità della Legge divina esplicantesi nei corsi e ricorsi della storia, intesa questa quale biografia dell'umanità. Colla formola ideale: "l'Ente crea l'esistente e l'esistente torna all'Ente" la concezione allegorica della trinità contenuta nella giovanile lettera al Mazzini prende corpo: il Padre (oggetto del primo ciclo) diventa l'Ente primo, unico e creatore; la Grazia "nascente dalla sostanza divina" diventa la Parola generatrice e generata, il Cristo e l'Idea (termine medio sintetico); mentre lo Spirito diventa l'Umanità-Cristo (oggetto dei secondo cielo, il ciclo umano), desiderosa di ritornare in seno a Dio. Con essa formola ideale, che é l'espressione più matura e geniale del teologo e filosofo torinese, la creazione col suo perché riceve una legge ed una spiegazione: i due cicli della formola rappresentano, oltre che le due sfere di azione dello Spirito, nella prima divino e nella seconda umano, le due fasi distinte della vita del Gioberti, nonché l'esplicazione delle finalità umane e la dimostrazione della caduta originale. In un passo della già ricordata memoria sul Progresso preparatoria al Primato, lo stesso Gioberti molto chiaramente s'esprime a tal riguardo. Precisamente scrive: "L'origine del progresso e del regresso é sovrannaturale, e questi sono la continuazione e l'esplicazione naturale di due fatti primitivi e sovrannaturali. Il principio sovrannaturale del progresso é la rivelazione e l'integrità primitiva rinnovata in parte della redenzione. Il principio sovrannaturale del regresso é il peccato originale, quello della corruzione e della decadenza". (Menzio, La preparazione al Primato e la diss. in. sul Progresso di V. G. Giorn. St. d. Lett. it., fasc. 2267, pag. 82 e seguenti). Dove si vede il teologo cattolico diventare proto-modernista per spiegare secondo la storia i dogmi della Chiesa, l'uomo di fede giustificare mediante il pensiero il sentimento del peccato primitivo e del conseguente dualismo uomo-Dio; il filosofo acquetare il suo tormento intimo nel riconoscimento della ferrea legge della vita cosmica; e l'uomo del secolo, il cittadino, accettare la lotta per la libertà come un dovere da compiere (espiazione, missione) per accostarsi a Dio. Di conseguenza, il primo ciclo (involutivo) sarà quello della caduta originale e della enunciazione-rivelazione dell'idea mediante il Cristo (Grazia), e comprenderà tutta l'attività teoretica del Gioberti pensatore e polemista; mentre il secondo ciclo (evolutivo) sarà quello della affermazione-concretizzazione dell'Idea, e comprenderà l'attività politica di fatto del Gioberti capo-partito ed uomo di Stato. Il platonismo dell'idea del Primato dell'Italia deriva verosimilmente dal platonismo del dogma della rivelazione ausiliato dall'apostolicità della Chiesa romana, e si capisce molto facilmente come l'Italia, sede del Papato, possa esser dal Gioberti stimata la Nazione-madre, quando si ammetta che la sola rivelazione é il fatto unico della nostra giustificazione e del nascere in noi dell'Idea, evidentemente conservata dalla Chiesa che di detta rivelazione é la depositaria e l'erede. Questa l'idea-chiave del Primato italico-papale, e la giustificazione del suo permanere nei secoli: - é la superiorità dell'Idea (libertà-metessi) sulla materia (schiavitù-mimesi) che il Gioberti intravvede nella Chiesa, la quale per la sua esistenza nei secoli ha perciò bisogno di una Nazione-corpo (terzo termine sintetico) libero ed autonomo, in cui incarnarsi, per manifestarsi e redimersi. L'Italia culla di tre civiltà non poteva non essere la nazione a ciò predestinata. Come la primitiva libertà pelasgica era stata la civiltà-madre della preistoria, e la civiltà romana quella madre dell'antichità nonché il corpo in cui l'insegnamento del Salvatore s'era incarnato, così ora l'Italia risorta a libertà dovrà essere la propagatrice del rinnovato insegnamento cristico e la culla della nuova civiltà cattolica. La tradizione vichiana era pertanto in tal modo ripresa e portata a nuove conseguenze, seguendo le quali l'unità ed indipendenza dell'Italia diventava fatale. E' da notare che tale concezione affatto platonica e teologica (vecchio testamento, popolo eletto), non poteva non essere aristocratica, necessariamente presupponente, nella Federazione delle quattro monarchie della Penisola, l'inevitabilità di una che fra esse fosse preponderante. Il neo-guelfismo del Gioberti, che non fu se non l'esaltazione dell'idea apostolica e dell'Unità, poté far credere che egli postulasse il rafforzamento del Governo temporale del Papa e la preponderanza di esso in seno alla federazione - non si tenne abbastanza conto che il Gioberti era piemontese ed ammiratore e seguace del pensiero liberale e laico d'un altro grande piemontese, l'Alfieri, il quale mezzo secolo prima aveva fra l'altro scritto la seguente molto significativa divinazione: "L'Italia divisa in molti principati e debolissimi tutti, avendone uno nel suo bel centro (quello pontificio) che sta per finire, e che occupa la miglior parte di essa, non potrà certamente andare a lungo senza riunirsi almeno sotto due soli principi che o per matrimoni dappoi, o per conquista si ridurranno in uno." (Gobetti, La filosofia politica di V. Alfieri, p. 116-7). Coll'emergere della Monarchia piemontese nelle guerre e nelle insurrezioni quarantottesche, il pensiero politico del Gioberti maggiormente si concretizza, per orientarsi verso una concezione schiettamente laica e liberale. I due cicli della "formola ideale" si dividono sino a polarizzarsi ed a contrapporsi. Come sin allora il suo pensiero era stato esclusivamente teoretico (anche le sue polemiche contro il Rosmini ed i Gesuiti devono rientrare tutte le lotte che egli sostenne contro il sensismo adoratore del molteplice (internazionalismo gesuitico) e dello statico (riformismo rosminiano, accomodantismo), vale a dire enunciazione e difesa dell'idea contro l'abbuiamento dell'empiria: così ora, poggiando sopra un nuovo dato di fatto, l'azione, il nuovo ciclo, quello esclusivamente umano si inizia. La tradizione sanamente attivistica dell'Alfieri é ripresa, mentre dallo stoicismo che necessariamente con essa si postula, balza alto il pensiero del Machiavelli e di Vico. Ultima conseguenza di questo nuovo fatto doveva essere il farsi l'azione scopo a sé stessa, indipendentemente dai fini impostigli dalla religione e dai principii postulati dall'Idea. Il platonismo iniziale veniva pertanto superato. Non é più l'idea preconcetta d'istituzioni fisse quella in tale forma di attività, poiché rappresentano che determina l'attività politica, ma il libero avanzare del pensiero e il suo progressivo concretarsi nella vita. In grazia a ciò il Gioberti allarga all'infinito il suo orizzonte includendo in esso i pensieri più arditi e le esigenze più estreme: prova ne sia la sua accettazione del socialismo "estremo portato della democrazia che oggi trionfa, perché essa é lo svolgimento del pensiero nelle classi che non pensavano". Quando si aggiunga che nella nuova fase del pensiero giobertiano anche la religione é assorbita dalla filosofia per diventare uno strumento, si é detto abbastanza per riconoscere necessaria la valutazione da noi tentata del giovanile panteismo dell'abate torinese ora più che mai vivo nella filosofia idealista del prof. Gentile e nella praxis del Partito-Governo nazionalfascista. Questa, l'attualità, buona e cattiva, del Gioberti pensatore politico; indipendentemente dalla concezione platonica dei due cicli involutivo ed evolutivo la quale dovrebbe dargli il diritto di essere considerato un precursore del Bergson ed un tardo epigono di Plotino, dopo che si sia riconosciuto che l'azione politica svolta con tanto acume dal Cavour non fece che maturare i germi da lui faticosamente gettati nel solco che la Monarchia piemontese aveva scavato. ARMANDO CAVALLI
(1). - Basta ricordare l'applicazione dei metodi demagogici (e l'anticipazione di quelli fascisti) nella provocata sollevazione di Genova per abbattere con mezzi extra-parlamentari il ministero "municipalista" del Pinelli. Può essere utile rilevare che in quell'occasione il Gioberti, come un qualsiasi demagogo dei nostri giorni, non si peritò di adoperare le parole meno vere e più grosse per raggiungere il suo scopo; dopo di che dovette, come é logico, convalidare gli uomini della piazza che difese ed assunse nel suo Ministero del 16 dicembre 1848: che fu dai conservatori chiamato "il Ministero di Genova" perché sorto dal tumulto e perché in odio a Torino repubblicaneggiava e chiedeva la Costituente! Pensi il lettore se ai nostri giorni non é avvenuto qualcosa di simile.
|