Premessa a uno studio sul Mezzogiorno

L'UNITÀ

    Le insufficienze economiche e i ritardi sociali del Mezzogiorno hanno alimentato - è risaputo - una letteratura cospicua. Inoltre, le necessità di esso - rapportate agli atteggiamenti e alle possibilità costituzionali dello Stato Unitario, cioè trasferite sul terreno integrale - son motivo rilevante di tendenze diverse, le quali si pongon come politiche anche quando intrinsecamente si presentano di carattere amministrativo, per il coordinamento insito nei concetti delle varie manifestazioni sociali, vale a dire per la costrizione che ogni fatto, ancorché tecnico, si inquadri in un suo clima politico dal quale non può essere avulso, pena la infondatezza.

    Le suddette tendenze possono compendiarsi in tre movimenti distinti. 1) Il popolarista: noi vogliamo "restituita e integrata l'autonomia dei Comuni e delle Provincie; riconosciuto l'Ente regione nell'Unità Statale"; e quindi, mentre "si moltiplicano i tentativi di centralizzazione e di intervenzionismo", dichiarazione di "lotta contro lo Stato accentratore e panteista", (Appello della Direzione del Partito ai Popolari d'Italia). 2) Il federalista, (nella realtà, esiguo e meramente letterario,) che inquadra i problemi locali in una veduta complessa ed ampia di ordinamenti nuovi, e che - vitalizzato, per quanto io mi sappia, dalle elaborazioni dottrinali di una rivista, Critica Politica - si riattacca alla tradizione federalistica del nostro Risorgimento. E tra questi due - come fatto subitaneo e tipicamente isolano, e con chiari motivi insurrezionali - il movimento sardista (ora falcidiato in misura rilevante), che, se pure cerchi dedursi da un indirizzo posto come nazionale (noi siamo per "un movimento autonomistico a base regionale che assicuri a tutte le regioni italiane una vita propria, autonoma, svolta nell'ambito, ben si intende, dei grandi ordinamenti politici e generali"), é, nondimeno, atteggiamento propriamente localistico, la qual cosa è lasciata anche intendere dall'affermazione che urge una rapida attuazione (del regionalismo) poiché esso se costituisce "una questione importante di ordire statale, per la Sardegna è questione di vita o di morte". (Il Sardismo, in un'intervista di Lussu).





    Interessante movimento, questo, perché si sostanzia di due manifestazioni contrastanti: da una parte, una imponente esasperazione psicologica (che è, ab imis e come fatto qualitativo, nelle possibilità - mentali e di fatto - di tutta e sola l'anima meridionale); dall'altra, la presenza di un inesplicabile embrione di una certa classe dirigente, per la quale, usare il termine "combattentismo" significa dare un nome, ma nulla spiegare, se altrove non è stato mai fortunato un movimento specifico di ex-combattenti.

    Occorre riconoscere che, ad ogni modo, una certa consistenza generale e una possibilità costituzionale di attenuazione l'ha soltanto l'affermazione regionalistica del popolarismo. Contro di essa, però, nella vita dell'oggi si contrappone trionfalmente il principio nazionalistico dello stato accentratore.

    Ci par di aver accennato sobriamente ai caratteri del movimento regionalistico. Ma esiste nel Mezzogiorno una tendenza che lo riguardi? In altri termini, è in elaborazione una mentalità pel regionalismo? Vediamolo.

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    Sessanta e più anni di convivenza unitaria hanno comportato al Mezzogiorno una coppia di pregiudizievoli dittature burocratiche. Per la prima, adesso che si comincia ad indagare con una certa serenità sugli avvenimenti che seguirono la unificazione d'Italia, si riconosce che - dopo il '60 - l'Italia non si consolidò con graduali sviluppi di comprensione mentale, ma in modo esoso e volgare, grazie ad una classe di burocrati, che venne quaggiù a padroneggiare - i "piemontesi" dell'anedottica popolare. - Furono, è vero, le vicende del nostro Risorgimento che determinarono questo fatto. Comunque, esso ha un peso non trascurabile, tanto più se si consideri che la burocrazia ripugna ai problemi della terra, come ben disse il Treitschke; per la seconda, essa fu instaurata da Giolitti, mentre - d'altra parte - il Mezzogiorno quasi niente godeva delle parentesi liberali del suo predominio.

    E sulle imponenti questioni giuridiche insolute - ad esempio, la demaniale - e sugli avvelenamenti della vita municipale, la corruzione, i soprusi e i favoritismi di un funzionarismo esotico insensibile, per costituzione mentale, alla realtà meridionale, dovevano fatalmente mantener basso il nostro costume civile delle plaghe meridionali.





    In qualche punto - come in Sicilia - si manifestò a volte una reazione involutiva, ma, effimera per durata, fu solamente volgare.

    L'intellettualismo regionalistico è stato rappresentato da qualche isolato: mai come tendenza di psicologie collettive, nonostante non mancassero provocazioni.

    Dunque, se il regionalismo esiste in qualche enunciazione programmatica, non esiste, invece, nell'"animo" meridionale.

    Vi sono in esso, al contrario, manifestazioni tipiche di esaltazioni collettive. E queste si avvertono, ed è logico, in forma insurrezionale, principalmente li ove le condizioni ambientali sono eccezionalmente favorevoli. Il fatto dell'insularità molto spiega dei moti - diversamente sviluppati - di Sicilia (fasci siciliani) e di quelli recenti di Sardegna (sfociati nel "Sardismo").

    Osservazioni non inutili ci paiono queste: che la Sicilia mai ha conosciuto Marx, mentre le si può riconoscere naturale una certa preferenza per la "forma mentis" dello scrittore di "La città del Sole", ossia un'aspirazione nebulosa e irrequieta verso utopie umanitaristiche (esistenza di plebi e predominii solari: ecco la spiegazione concisa); che la Sardegna sviluppa tipi suoi propri, specifici: in sintesi, sviluppa un socialismo che non aspetta le crisi spossanti per far omaggio alla "realità".

    Il tronco continentale, invece, non offre - ed è spiegabile - di quelle manifestazioni, ma non presente né un tipo evoluto di atteggiamenti consapevoli, nè un comportamento tendenziale di preferenze domestiche.





    L'atteggiamento del meridionale è materiato di equivoci che si possono comprendere o, meglio, dedurre sia questa vivente situazione: intimità di "cafone", che si vorrebbe strozzare sotto orpelli di pseudo-cosmopolitismo; in definizione - come tipo sociale - in uno sterile sfogo di superamento, meglio, di rinnegamento.

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    Si può anche supporre che il Partito Popolare potrà vedere attuato quell'insieme di riforme che è nel suo bagaglio programmatico. Se persiste il tipo attuale del meridionale, che cosa avrà fatto il popolarismo con ciò? È presto detto: avrà imposto al Mezzogiorno una nuova conformazione amministrativa, una nuova fonte di corruzioni. Sarà, insomma, decentramento (di paternalismi) e accentramento (di municipalismi).

    E che il fatto che un partito politico costituzionale abbia posto il concetto dell'Ente Regione, non significhi considerazione di qualche atteggiamento nel Paese, ma semplice integrazione programmatica, lo comprova l'osservazione che esso partito mieteva e miete (per quel che gli è consentito) in Sicilia (idealità cristiane) e in Lombardia-Veneto (quelle e interessi sociali). Nel Mezzogiorno non ho mai veduto adesioni ad esso pel programma regionalistico. E se non per noi, per chi dovrebbe servire il Regionalismo?

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    Il Mezzogiorno, in quanto ha di meglio - ossia nei giovani - non manifesta nessun sintomo confortevole. Ne volete una prova: non son molti quelli che - non dico conoscano per familiarità di studi - ma almeno sappiano che vi sono stati degli studiosi del Mezzogiorno; che esistano due palpitanti enciclopedie delle nostre condizioni rurali.





    Mi domando: in questo ambiente è a parlarsi di regionalismo? Credo di no!

    Secondo me la questione meridionale è prima di tutto - e sovra tutto - questione di stato d'animo.

    Sono due o tre ostacoli mentali o due estremismi che bisogna superare pregiudizialmente: l'implicita tendenza fatalistica (normale) e la credenza (marginale) alla necessità insurrezionale, che sono - piaccia o non piaccia - alla base della "forma mentis" meridionale. Spiegabili nella plebe, non lo sono in persone letterate.

    Questi estremismi vulnerati, è possibile mettere con proprietà la questione del Mezzogiorno, e considerarne adeguatamente i vari problemi.

    Presentemente non vi può essere che paternalismo; non bisogna illudersi.

    Che i giovani leggano Da Verona o Zuccoli o Pitigrilli, è fatto personale e di mere preferenze letterarie. Ma che gli stessi, e dopo siffatte letture, se ne vengano a sputar sentenze che san di sadico vassallaggio, è fatto repugnante e idiota. Non può non contristare, specie quando si pensa che non son poi pochi.

    Ma che per lo meno se ne vadano! Che si avviino verso la farneticata terra del loro sole artificiale, quale risulta dall'ideazione maturata attraverso il contrasto insopprimibile tra l'essere e il voler sembrare.

    Il problema del mezzogiorno avrà a giovarsi soltanto di chi si sente italiano nello spirito ma domestico di mentalità.

    V'è uno spirito, nobile quanto pochi altri, che possiede sapientemente fusi i due caratteri: Giustino Fortunato. Sconsolato ma non pessimista, egli ha dato l'esempio luminoso.

    Che lo si sappia seguire!

    Solo in tal modo ci prepareremo alla verace rivoluzione unitaria!

GIUSEPPE DELLA CORTE