STATO E STATALIL'articolo di Augusto Monti intitolato "Organizzazioni di statali" comparso nel numero del 4 Marzo u. s. ci ha procurato molte risposte e repliche: ne scegliamo due che ci son parse particolarmente significative fra le altre; invitiamo intanto gli amici a meditare sul problema, ed, eventualmente, a scriverci le loro opinioni in proposito. La parola di uno "statale"Caro Monti, il tuo articolo sulle Associazioni di "statali", pur non convincendomi perfettamente, non mi ha destato sorpresa, sia perché mi avevi già esposto i concetti ai quali ti saresti ispirato nello scriverlo, sia perché ho ritrovato in esso tutta la tua personalità, contraria a ogni forma di neutralità vuota o ipocrita, a tutto ciò che non ha un'idea propria. Ti dico subito che questa volta non sono d'accordo con te. Le Associazioni degli statali - dici tu - non devono essere apolitiche, perché altrimenti sono pericolose per lo Stato, e, per evitare questi pericoli, devono inquadrarsi, "smistarsi" nei partiti, perché in tal modo subordineranno i loro interessi a quelli del paese. Ora noi, nel nostro passato recente, abbiamo avuto la fortuna, non so quanto invidiabile, di aver attraversato e di continuare a provare esperienze interessantissime dal punto di vista politico, e particolarmente in riguardo alle associazioni dei dipendenti statali. Una delle conclusioni di queste esperienze è da te formulata in questi termini: "il più grande sproposito commesso dal partito socialista italiano dal suo nascere ad ora, fu quello di avere sempre appoggiato gli "statali" mettendo a disposizione di essi le forze del proletariato libero". Cioè i tanti guai derivanti dall'azione delle associazioni statali apolitiche, (la quale sarebbe anzi la causa principale del sorgere del fascismo, a quanto tu dici) sono dovuti al fatto che un partito politico ha appoggiato le "rivendicazioni" degli statali come se fossero dei suoi adepti. Quale il rimedio a questo stato di cose? Far iscrivere nel partito quelli che finora erano stati apolitici! In tal modo essi si permeano immediatamente delle idee del partito e tutto è salvo. E'possibile che tu non ti accorga di questa contraddizione? Supponiamo che durante il periodo bolscevico gli statali avessero seguito le idee che ora esponi e, invece di formare associazioni apolitiche, le avessero costituite nell'interno dei partiti, compreso naturalmente il socialista. Siccome il rappresentante più autentico dello spirito bolscevico era il partito socialista, ad esso sarebbero affluiti in gran parte gli statali iscritti alle associazioni apolitiche, e, fra essi, certamente gli elementi più vivaci e che esercitano maggiore influenza sull'indirizzo e sull'azione dell'associazione. Non riesco a vedere come le disastrose conseguenze da te deplorate sarebbero state evitate. Il partito socialista non avrebbe certo appoggiato le rivendicazioni degli statali meno di quanto le abbia appoggiate quando erano avanzate dalle associazioni apolitiche. Se questo ragionamento è esatto, la soluzione che tu proponi, esaminata dal punto di vista pratico, non ci libererebbe dai mali che tu hai lamentato. ***
Più grave ancora si presenta la questione dal punto di vista che mi pare di poter legittimamente chiamare liberale. Siccome norma d'azione dello statale ha da essere la gerarchia e la subordinazione, ed è quindi assurdo (sic) che un funzionario si organizzi, si associ "non per altro che per criticare l'opera dell'Amministrazione, per discutere l'opera dei capi, e quindi per infirmare quel principio d'autorità che solo può reggere l'immane edificio di una amministrazione statale, gli statali stessi dovrebbero rinunciare alla facoltà di organizzazioni proprie, neutre, apolitiche, di categoria e simili". Dato il punto di partenza, io non so se non sarebbe ugualmente legittimo dedurne che, siccome lo statale è un soldato, i soldati non devono fare politica e dovrebbero da sé, senza che venga una legge ad imporlo, rinunziare alla "facoltà" di iscriversi ad un partito. Tu invece non solo non ammetti questa seconda incompatibilità, ma anzi trovi utile e consigliabile che gli statali si iscrivano ai partiti e formino associazioni nell'interno di essi. Non so se tu ti sia soffermato sulla gravità delle conseguenze che deriverebbero dall'attuazione della tua idea. I dipendenti statali non avrebbero altro mezzo per far sentire la loro voce, per difendere i loro interessi che quello di iscriversi a un partito, magari sovversivo. Lo Stato dovrebbe dir loro: "io non posso assolutamente permettervi che mi parliate come funzionari, perché lo vietano l'ordine, la disciplina e la gerarchia; voi siete però liberissimi di iscrivervi al partito comunista o al partito anarchico e allora, come delegati e rappresentanti di quei partiti, sarò ben lieto e onorato di ascoltarvi con deferenza e di concedervi tutto quello che desiderate". Il sistema è forse concepibile in uno Stato in cui i partiti politici comprendano la quasi totalità degli adulti, ma sarebbe evidentemente inadatto per noi, non solo nelle attuali condizioni politiche dell'Italia, ma nelle condizioni normali dell'anteguerra, data la proporzione infima degli inscritti ai partiti politici in confronto al totale della popolazione. E resta ancora da dimostrare che gli aderenti ai partiti siano moralmente, intellettualmente e tecnicamente migliori di quelli che ne rimangon fuori. Mi pare quindi che ripugnerebbe al più elementare senso di libertà costringere una categoria di persone, e soltanto quella, a entrare in partiti, di cui si riconosce lo scarsissimo valore, o a rinunziare alla tutela dei propri interessi non solo materiali, ma anche ideali, perché non è detto che fuori dei partiti politici non possano vivere le idee, anzi potrebbe forse sostenersi che le idee cessano di vivere quando diventano il programma di un partito, e si trasformano in insegne o maschere di interessi non sempre legittimi ***
Tu vedi la necessità di vietare le associazioni apolitiche di statali, per la difesa dello Stato e perché, nel caso di conflitto fra Amministrazione pubblica e dipendenti, la massa dei dipendenti si trova di fronte un'astrazione che in ultima analisi si risolve nel dipendente in veste di funzionario, cioè il dipendente non si trova di fronte nessun altro che sé stesso. Qui l'identificazione di Stato e di burocrazia giunge all'estremo di ignorare addirittura l'esistenza del Governo e quindi, indirettamente, di quei partiti che devono essere, nel tuo pensiero, la base di tutto, e dei quali il Governo è l'espressione. Eppure i fatti hanno dimostrato che diverse erano le condizioni, e quindi le azioni, delle associazioni degl'impiegati, a seconda dell'uomo che si trovava al Governo. Per esempio Luzzatti, ministro dell'Interno, aveva salutato con simpatia il sorgere di un'associazione fra i funzionari di prima categoria del suo Ministero. Giolitti, appena succedutogli, sciolse telegraficamente la associazione, da lui ritenuta incompatibile con le funzioni di quella categoria. Ed è inutile citare altri esempi. La resistenza alle domande dei dipendenti statali non dipende dai capi gerarchici dei dipendenti stessi, ma dal Governo che, quando è veramente tale, ha per resistere mezzi molto maggiori e più formidabili di quelli che hanno le organizzazioni padronali per resistere alle richieste degli operai. La soluzione, a mio parere, dev'essere dunque cercata, non nel proibire le associazioni degli impiegati, ma nel tracciare confini definiti alla loro azione e nel colpire esse e i singoli associati quando esorbitano da quei confini. Si tratta dunque di dar forza allo Stato, non di sopprimere le associazioni dei suoi dipendenti, perché si ammette a priori che esso non possa loro resistere. ***
Un'ultima questione riguarda il confronto fra la "superba accolta di forze libere" costituita dal proletariato e "gli appetiti indiscreti" delle associazioni di statali "tipicamente piccolo-borghesi". Confesso che la mia intelligenza, semplice fino a essere pedestre, non é mai arrivata a capacitarsi di queste distinzioni e opposizioni fra operai e dipendenti statali. Intanto fra i dipendenti statali, le cui associazioni avrebbero concorso in linea principale a creare l'irritazione "fascista" ci sono i ferrovieri che nella massa si chiamano operai quando le ferrovie sono gestite dall'industria privata. Ma anche limitandosi a parlare degl'impiegati, io non vedo nelle loro condizioni in confronto di quelle degli operai altro che una differenza nel genere di lavoro; per il resto son gente che lavora tutta per mangiare, e che prende, per il suo lavoro, una paga, si chiami stipendio o salario. E non so perché l'azione degli operai che cercano di migliorare le loro condizioni debba essere considerata eroica e altamente lodevole e benefica, e quella degli impiegati debba costantemente essere descritta come un arrembaggio, un assalto brigantesco alle casse dello Stato. A meno che si pensi che gl'impiegati entrando al servizio dello Stato, oltre al rinunziare o ai diritti politici come, secondo te, stabilirebbe il nuovo stato giuridico, o al diritto di organizzarsi in sindacati economici (diritto riconosciuto a tutte le altre categorie) come vorresti tu, debbano pure rinunziare a soddisfare il volgare bisogno del cibo materiale e cibarsi soltanto della gioia e dell'onore di essere soldati al servizio della collettività, e di altri consimili sostanziosi nutrimenti. Finché il dipendente statale sarà considerato un essere inferiore, la cui esistenza è tollerata, purché si adatti a rinunziare a una parte di essa, che tutti gli altri possono vivere liberamente, è vano discutere di soluzione del problema burocratico. Come l'ascensione della classe operaia è cominciata quando essa ha potuto e voluto provvedere da sé stessa ai proprii interessi dentro e fuori dei partiti politici, così la questione burocratica continuerà a rimanere allo stato cancrenoso, finché all'impiegato non sarà riconosciuto il diritto, finché esso stesso non sentirà il dovere, il bisogno di essere un uomo completo come gli altri, di essere sé stesso, e non di foggiare la propria anima e la propria condotta su quella degli altri; di non essere né una macchina per lavorare o girare a vuoto, né una macchina per votare; di sentire di avere una funzione ed un'utilità sociale e di potersi dedicare, associandosi con i suoi compagni di categoria, al perfezionamento delle proprie condizioni, senza che quest'azione sia considerata deleteria e delittuosa. Scusami se t'ho annoiato e credimi tuo G. P.
La parola di un organizzatoreIn risposta al citato articolo del Monti, Battaglie sindacali (Organo della Confederazione generale del Lavoro) nel numero del 14 Marzo u. s. pubblicava un articolo segnato A. e intitolato Storture. Diamo dell'articolo le parti essenziali. Pare impossibile che Augusto Monti non abbia riflettuto sulla assurdità di "costringere", è il termine esatto, centinaia di migliaia di lavoratori e impiegati dipendenti dallo Stato ad inscriversi in partiti politici per far valere i propri interessi di categoria, e sul fatto che, qualora il suo progetto dovesse realizzarsi, la fisionomia dei partiti ne uscirebbe falsata e la loro funzione deviata, imperocché - stante la grande massa dei dipendenti statali - i nuovi venuti non tarderebbero a determinare un sopravvento degli interessi economici categoriali e intercategoriali sulle ragioni ideali e dottrinali dei partiti stessi. Gli impiegati e i dipendenti statali hanno fatto sempre sentire la loro influenza sui partiti standone fuori, figuriamoci quanta ne farebbero sentire se ci fossero dentro e in numero ragguardevole seppure non preponderante! Il male che il Monti vorrebbe evitare col suo progetto, nella applicazione pratica di esso alimenterebbe a dismisura. I partiti, poi, non potrebbero più contare su delle forze vere, reali, stabili. Non occorre proprio nessun sforzo d'intuizione per prevedere come i funzionari - inscrittisi nei partiti, non per propugnare dei principi ma per difendere degli interessi - prenderebbero facilmente il volo per altri lidi ogni qualvolta parrebbe loro di trovare maggiore e più immediata difesa con l'acquisto di una diversa tessera nel momento più quotata. Si potrebbe fin d'ora dar per certo che - attuandosi il progetto Monti - la maggior parte dei funzionari fluttuerebbe nelle acque dei partiti che stanno al potere o sono prossimi a conquistarlo, e ben si comprende. È facile immaginare, poi, che questi partiti - se vorranno evitare di essere continuamente disturbati dall'intervento nelle discussioni generali dell'elemento impregnato di interessi particolaristici - dovranno provvedere a creare nel loro interno delle separate sezioni sindacali: ed ecco il Sindacato che si ricostruisce, sia pure frazionato in diverse sedi politiche, a rivendicare il suo diritto di esistenza! . . . . . . . . . . . . . .
Giova invece discutere delle misure per eliminare il più che sia possibile il ricorso all'arma dello sciopero da parte degli addetti ai pubblici servizi. Premesso che ogni rinuncia all'uso di un'arma ritenuta dannosa agli interessi generali (nel caso lo sciopero) implica - quando non si voglia porre il rinunziante in istato di inferiorità rispetto agli altri che ne possono usare - l'offerta di un mezzo di difesa che sostituisca l'arma dimessa, è necessario creare degli istituti di conciliazione, d'arbitrato e giustizia, che diano garanzia che i legittimi interessi dei lavori dipendenti dallo Stato non saranno né calpestati né trascurati. Si tenga poi presente che non tutti i dipendenti statali sono addetti a pubblici servizi, mentre vi sono moltissimi dipendenti dell'industria privata che ai servizi pubblici attendono. Gli elettricisti, ad esempio, non dipendono dallo Stato, tuttavia un loro sciopero potrebbe cagionare agli interessi generali - pubblici e privati - un danno infinitamente superiore di uno sciopero degli operai delle officine carte e valori, che sono "dipendenti statali". Uno sciopero generale dei mugnai e dei panettieri (industria libera) colpirebbe molto di più la popolazione che non uno sciopero di sigaraie (dipendenti statali). Il problema degli scioperi nei pubblici servizi merita ben altra trattazione che quella fatta da Augusto Monti e "risolta" col fare ingurgitare dai partiti politici centinaia di migliaia di dipendenti dello Stato. . . . . . . . . . . . . . .
La funzione di passare gli interessi particolaristici al vaglio degli interessi generali, che il Monti vorrebbe affidare ai partiti politici, è di pertinenza della Confederazione dei Sindacati (per noi la Confederazione del Lavoro), la quale ha il precipuo compito di funzionare da equilibratrice degli interessi delle singole categorie, in modo che l'azione dell'una non torni a danno di un'altra o delle altre. Il Monti sbaglia, inoltre, quando parla di apoliticismo della Confederazione del Lavoro, quasicché questa si fosse essa pure socchiusa in un angusto concetto corporativo. Niente di più errato. La Confederazione del Lavoro è "apartitica", che è qualcosa di ben differente di "apolitica". La Confederazione è libera da vincoli con partiti; ma svolge una "sua" azione politica in difesa degli "interessi generali" della classe lavoratrice. Contro gli "statali" apoliticiNel mio articolo "Organizzazioni di statali" oltre a dire alcune cose inedite, o quasi, m'è toccato anche di ripetere cose già dette su questo argomento o in R. L. o altrove; è naturale che, ripetendomi, io abbia solamente accennato a certi argomenti, e certi altri io abbia sottintesi: per cui è successo che molti lettori han trovato nell'articolo motivi di dubbi e di obbiezioni e qualcuno ha trovato in esso cose che io non avevo mai pensato di metterci. Riespongo dunque in succinto e più chiaramente che posso le idee che, sul problema della burocrazia, noi siam venuti finora esponendo a varie riprese. Ripensando sul problema della libertà politica in Italia e dell'ingerenza esercitata dalla burocrazia nel governo della cosa pubblica io ero venuto, per ora, a queste conclusioni: Il Regno d'Italia non è mai stato una "monarchia costituzionale" ma è stato sempre una "dittatura burocratica" in cui, negli intervalli fra due o tre Governi personali, dal '61 in qua, le vere e proprie funzioni governative, sono state tenute dai funzionari. Nell'Italia odierna "governo" vuol dire "governo della burocrazia" cioè dell'"alta burocrazia"; la storia dei nostri ministeri, anche politici, si potrebbe fare intitolandone i vari capitoli non come si crede dal nome di questo o quel ministro, ma dal nome di questo o quel direttore, di questo o quel segretario generale. Gabinetti ministeriali, Camera dei deputati, Senato: tutte lustre, tutti paraventi, tutti spolverini per dissimulare o sancire l'opera del dittatore politico, quando c'era, o dei dittatori burocratici negli intervalli. Recentemente anche la burocrazia minuta era venuta esercitando iniziativa ed opera legislativa, era venuta partecipando al governo; ed organi di questo effettivo governo erano appunto le organizzazioni di statali, salariati, e, principalmente, impiegati, le quali, sorte con il proposito immediato di curare gli interessi giuridici ed economici dei loro affigliati in antagonismo con gli interessi dell'alta burocrazia centrale e provinciale, in progresso di tempo, a poco a poco, per necessità di cose, si eran trovate a combattere a lato dei gros bonnets, per conservare e per estendere l'influenza della burocrazia nel reggimento della pubblica cosa e nella usurpazione effettiva di poteri legislativi e governativi. Prima della guerra forza e arma di queste organizzazioni era il loro programma di apoliticità, che permetteva loro di raccogliere nelle proprie file la gran maggioranza degli statali, di parlare a nome di tutti e, cosa più pericolosa, di premere indifferentemente sopra i parlamentari di tutti i partiti, per far prevalere i così detti desiderata della classe. Ricordiamo bene come andavano le cose: congressi, riunioni, ordini del giorno, campagne di stampa, e fin qui niente di male; poi bombardamento di memoriali e di lettere private sul Parlamento; nell'imminenza delle discussioni fuoco tambureggiante di telegrammi personali ai deputati o ai senatori di tutti i partiti; al giorno della... battaglia i varchi erano aperti, le posizioni conquistate in anticipazione, la maggioranza dei deputati spessissimo si trovava impegnata, magari con dichiarazioni scritte e firmate, ad approvare quella tal legge, anteriormente, non solo alla discussione, ma anche alla determinazione dei propositi e delle possibilità del cosidetto Governo. Dopo la guerra codeste organizzazioni apolitiche divennero tanti punti franchi in cui i vari bolscevismi che agitavano, come tutti gli Italiani, anche gli statali e gli assimilati, deposti i mutui rancori e conclusa una diabolica tregua, costituivano il fronte unico per dar battaglia allo Stato e ai cirenei dello pseudo-governo. E anche qui i metodi erano intonati con i tempi: sempre più difficile, sempre più a sinistra anche quando si trattava di... destrissimi; ostruzionismi, scioperi di un'ora, scioperi di una settimana, e, cosa meno spettacolosa ma più rovinosa ancora, la resistenza passiva e sotterranea all'approvazione di leggi che tendessero a ridurre la strapotenza e ad infrenare l'irresponsabilità della burocrazia, a cui l'odor del governo effettivamente esercitato durante la guerra aveva dato definitivamente alla testa. Perché, diciamolo francamente, la apoliticità degli statali e delle loro organizzazioni, è sempre stata una lustra buona per attirar gente e nonsensi e per garantirsi l'impunità; effettivamente apolitiche codeste organizzazioni non sono mai state né potevano essere: prima della guerra eran rosee, e gli statali furono l'anima dei famosi "blocchi popolari" di nathaniana memoria; subito dopo la guerra si tinsero di scarlatto; ma già nel '921 e più nel '22 il colore era diventato azzurro o nero. "Marinaro sugno!": l'apoliticismo degli statali e delle loro organizzazioni è l'apoliticismo delle nostre classi medie, di cui l'impiegato forma il tipo: più che apoliticismo è amorfismo politico, è ineducazione politica; è la storia, senza offender nessuno, del "bestiame imbarcato", che, quando il mare è mosso, balena e si rovescia come lo spinge l'onda e, se qualche santo non aiuta, la barca sbanda e tutto va in bocca ai pesci. Rimedi: educazione, Mazzini, ecc.: ottima cosa, ma cosa lunga. Seguitando intanto a meditare e ad indagare su questo problema io ero venuto notando il fatto di alcuni gruppi di impiegati e salariati statali, che, invece di aderire a quelle tali organizzazioni apolitiche, aderivano ad organismi sindacali concorrenti ai primi, ma diversi da quelli pel loro carattere dichiaratamente politico: questa specie di "smistamento" degli statali fra le varie organizzazioni, iniziatosi prima della guerra, io notavo che s'era andato intensificando dopo la guerra, in seguito e per effetto specialmente della proporzionale; e meditando sopra questo fenomeno e studiandone le conseguenze più o meno remote, ero venuto nella convinzione che questo "sbloccarsi" del fronte unico apolitico degli statali stessi in vari sindacati di marca politica, fosse cosa in definitiva giovevole e agli interessi dello Stato e agli interessi, specie morali, degli statali: e questa convinzione io aveva espressa qui e altrove, in articoli e studi concepiti fin dal '21 e pubblicati non più tardi del maggio del '22. Ma siccome da allora in qua, per effetto del ciclone fascista, è successo che molti di quegli organismi sindacali han ritirato le corna della loro fede politica e tendono a dissimularle con l'eufemismo della "apartiticità", così, ritornando nel mio ultimo articolo sull'argomento, per essere più rigoroso e non lasciar adito a scappatoie, invece di parlare come prima di "Sindacati aderenti a questo o quel partito", parlavo di "gruppi che si formano nei partiti", intendendo dire che nella organizzazione sindacale l'elemento che a me maggiormente premeva era l'elemento "politico", non l'elemento "sindacato", e volendo insistere sul principio che libertà sindacale è compresa e subordinata alla libertà politica. Ma anche in questo, da parte mia, non ci voleva essere altro che indagine di realtà e deduzione di norme, non mai affermazione astratta e aprioristica di un principio, né proposito (del resto assurdo) di piegare la realtà a questo principio e di costringerla in un tipo preconcetto. Io m'accontentavo di esprimere anche qui la mia avversione per i Sindacali apolitici, amorfi, gelatinosi, timidi e accomodevoli e la mia simpatia per le organizzazioni dichiaratamente politiche, le quali, se non altro, pretendono dai loro iscritti, se non la professione, almeno la dichiarazione di una fede. Nel caso degli statali poi le mie simpatie per le organizzazioni a tinta e a pregiudiziale politica si aumentano, perché io vedo in queste organizzazioni uno strumento adatto a conseguire un fine che per me è importantissimo: quello di trasformare il funzionario italiano in cittadino italiano. Come la trasformazione del cittadino in funzionario è nelle storie passate l'indizio più preciso del degenerare di una libera repubblica in un governo assoluto, così solo la trasformazione del funzionario in cittadino sarà nella presente storia d'Italia, se non la prova, almeno una delle prove che veramente, anche da noi, allo Stato autocratico si è sostituito lo Stato liberale, al Regno Sardo la repubblica d'Italia. ***
Con questi chiarimenti io credo anche di aver risposto, o esplicitamente o implicitamente, alle più importanti obbiezioni de' miei oppositori. Naturalmente essi potranno esser più o meno persuasi secondo che avranno o meno accettate certe nostre pregiudiziali, e secondo che, per esaminare questi problemi, si metteranno, o non, dal punto di vista di Rivoluzione Liberale. Resta che si risponda partitamente a qualche altra obbiezione. Dice G. P.: "ammettendo con a. m. che norma d'azione dello statale ha da esser la gerarchia e la subordinazione e che senza il principio d'autorità non si regge l'amministrazione statale, io trovo legittimo dedurre da questi principi non solo il divieto agli statali di creare organizzazioni apolitiche ma anche il divieto di iscriversi a partiti politici e di far della politica". Rispondo: meditando, non sul generico problema dei rapporti esistenti fra i funzionari e lo Stato, ma sullo specifico problema dei rapporti che corrono fra me funzionario di stato e l'amministrazione da cui dipendo, io mi son dovuto più d'una volta proporre questo tormentosissimo caso di coscienza: "io dipendente dalla tale amministrazione ho il diritto di criticare, come faccio, gli ordinamenti attuali dell'amministrazione mia e di discutere gli uomini che attualmente sono i miei superiori? Facendo così come io faccio non manco forse ad uno de' miei massimi doveri di subordinato, di gregario, che è quello di obbedire tacendo?". Io son riuscito, per ora, a tranquillare la mia coscienza solo facendo la distinzione ch'io feci nell'articolo che ora si discute, e ragionando così: in quanto impiegato tu devi obbedire ed eseguire e null'altro: potrai discutere e criticare in quanto libero cittadino; ma organizzazioni tipiche di cittadini e organi di discussione sull'operato del governo, organi di discussione politica, sono i partiti e i giornali politici: nei partiti e nei giornali politici tu potrai, anzi dovrai, discutere e criticare l'opera del governo secondo le tue idee e la tua capacità; in una organizzazione che ti accolga solo in quanto sei un impiegato, tu resti sempre soltanto un impiegato; se in questa sede e in questa veste tu voti un ordine del giorno che discuta, che critichi, che deplori, tu manchi ad un tuo dovere, tu non sei più a posto con la tua coscienza. Distinzione sottile, casistica, da avvocato o da teologo, tutto quel che volete, ma distinzione, ripeto, con la quale, finora, io mi son tenuto in pace con la mia coscienza. Nell'articolo "Organizzazioni di statali", a questo proposito, io non ho fatto che generalizzare il mio caso speciale, e proporre ad altri la soluzione di cui m'ero appagato. Tanto più volentieri poi lo facevo in quanto la soluzione che io proponevo rispondeva ad un'antica mia convinzione: che la questione della "disciplina dei dipendenti dello Stato" è una questione di "coscienza e di conoscenza dello Stato", cioè una questione essenzialmente politica (o religiosa, se volete; ma, in fondo, è lo stesso), cioè una questione alla cui soluzione possono ottimamente contribuire i partiti politici in quanto, richiedendo, almeno teoricamente, ai loro iscritti una fede politica, appunto esigono da essi una coscienza, magari unilaterale, ma effettiva, di ciò che è Stato. Lo scrittore di "Battaglie Sindacali", reca alla discussione un notevolissimo contributo quando sostiene che a proposito di Stato, di disciplina, di ordine e di Sindacati "giova... discutere delle misure per eliminare il più presto che sia possibile il ricorso all'arma dello sciopero da parte degli addetti ai pubblici servizi". Non saremo certo noi a sconoscere l'importanza della questione a cui accenna l'A. di Battaglie Sindacali; anzi siamo grati all'oppositore che abbia sollevata tale questione rispondendo ad un articolo nostro e riconoscendo così tutta la gravità della discussione da noi sollevata, come saremmo lietissimi se l'A. stesso od altri volessero sulla nostra rivista trattare con la loro nota competenza l'importantissimo problema. Ma nel caso particolare alla diversione dell'A. dobbiamo rispondere così: problema importantissimo quello dello sciopero dei servizi pubblici, ma problema diverso da quello che ora ci interessa. Noi, nel noto articolo, ci volevamo occupare dei rapporti fra Stato e statali; la questione dei servizi pubblici entra nell'argomento nostro solo per i servizi pubblici eserciti dallo Stato; per noi nessun dubbio che lo statale, il quale per qualunque motivo disturba o interrompe il servizio che gli è affidato, deve essere punito con ogni severità; ma per noi lo statale che sciopera è punibile perché "statale indisciplinato" e non perché "scioperante"; per noi è da perseguirsi l'offesa allo Stato, la violazione della disciplina statale, non l'offesa all'interesse dei privati. Ché se poi i capi della Confederazione del Lavoro vogliano identificare "l'interesse del pubblico" con "l'interesse dello Stato", e gli addetti ai servizi pubblici con gli addetti ai servizi statali e con gli impiegati dello Stato, epperò vogliano estendere anche a quelle categorie di operai e di impiegati il rigore che noi desideriamo solo per i salariati e per gli impiegati statali, allora parlino pure chiaro, deducano pure tutti i debiti corollari dalle loro premesse socialiste, noi li staremo a sentir volentieri e, quando si saranno spiegati, diremo anche noi le nostre ragioni. Un'ultima osservazione diretta tanto a G. P. quanto ad A, Nell'articolo mio sulle "Organizzazioni di statali" io non ho mai sognato di far dei "progetti", e non ho mai pensato che si potesse "costringere" gli statali a far qualcosa o a non far qualcosaltro in rispondenza alle mie ubbie: il vedere in ogni trattazione di problema una relazione per un disegno di legge è indizio di schietta mentalità riformista, come è da riformista l'imprestare agli avversari i proprii propositi di migliorare il mondo e di risolvere i problemi con degli articoli di legge. Niente di più lontano dai nostri propositi e dalla nostra forma di mente: per noi la legge non ha mai il compito di costringere ma solamente quello di "prender atto", di estendere ai molti indifferenti quella che è stata per un pezzo la pratica spontanea e libero dagli elaboratori di realtà; noi non ci preoccupiamo mai della possibilità che intervenga la legge a pigliar atto di quel che noi facciamo o diciamo; anzi, quando, per avventura, la legge sopraggiunge a riconoscere, o a deformare, la realtà elaborata e praticata da noi, noialtri, donato un regno al sopraggiunto re, subito ci sentiamo divenuti estranei a quella realtà di prima, e rivolgiamo i nostri sforzi a ricercarne e a prepararne un'altra. E così avanti fino a consumazione. AUGUSTO MONTI.
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