La lotta politicaI.LIBERALI E LABURISTIL'accordo fra i liberali e laburisti inglesi avrà potuto suscitare qualche sorpresa soltanto in Italia, dove il liberalismo ufficiale é rappresentato da vecchioni mummificati e da giovani arrivisti (oggi, invece di arrivisti, si può usare il termine più elegante di fiancheggiatori). In Inghilterra vi erano preparati da un pezzo. Fino all'ultimo decennio del secolo scorso, quando ancora non esisteva un partito laburista, i rapporti tra i ceti operai e il liberalismo dominante hanno subito varie fluttuazioni, attraverso le quali é venuta tuttavia maturando l'odierna alleanza. Prima del periodo rivoluzionario che culmina nel 1848, il movimento liberale e quello genericamente democratico (che esprime molte rivendicazioni proletarie) non hanno limiti ben definiti e spesso si confondono l'uno con l'altro. La politica dei mancesteriani di quel tempo ha cercato costantemente di attirare a sé la democrazia cartista. Ma a misura che il liberalismo si determinava come un partito di classe - della classe manifatturiera - si andava sviluppando contemporaneamente la antitesi democratica. L'opposizione economica tra padroni e operai fomentava la lotta politica tra liberali e democratici". Le vicende di questa lotta sono state poco appariscenti (quindi poco studiate) per il fatto stesso che, col fallimento dell'insurrezione cartista nel 1848, la democrazia inglese non ha avuto politica propria, ed ha continuato ad operare solo con un acuto lavorio di penetrazione e d'infiltramento nella compagine dei due partiti ufficiali, il liberale e il conservatore. Questo ultimo é stato assai più pronto dell'altro ad accogliere nel proprio programma alcune improrogabili esigenze di legislazione sociale, e con opportune concessioni democratiche é riuscito ad attrarre per alcuni decenni nella sua orbita i ceti operai. I liberali invece. - almeno quelli della generazione di Cobden - erano ostacolati a tentare un tale ravvicinamento dalle rigide formule del loro credo mancesteriano: la legislazione sociale, richiesta imperiosamente dagli operai doveva apparire ai loro occhi come un annullamento della libertà delle industrie, per le quali essi avevano lottato e continuavano a lottare. Di qui l'ostinazione di Cobden (un uomo che, pure, era tanto ricco d'umanità) contro la legge della riduzione delle ore di lavoro nelle fabbriche. I conservatori, invece, meno vincolati da premesse dottrinali, sono riusciti più agevolmente a sfruttare la temporanea difficoltà del liberalismo: da Disraeli a Salisbury il loro programma filo-democratico si é andato gradualmente attuando, fino al punto che Chamberlain, dopo il suo passaggio al conservatorismo imperialista, poteva ascrivere a merito dei suoi alleati d'essersi messi sulla via di una politica veramente moderna, mentre la vecchia mentalità reazionaria s'impersonava ormai - a suo avviso - proprio nel partito liberale. Questa accusa era in verità eccessiva, perché proprio quando il Chamberlain la formulava (sul finire del secolo XIX) il partito liberale compiva quella revisione radicale dei suoi programmi, che doveva porlo nuovamente alla testa del movimento di rinnovazione politica dell'Inghilterra. Già questa trasformazione del liberalismo classico si era preannunziata nelle ultime fasi dell'evoluzione mentale dei due corifei del liberalismo inglese: Gladstone e Stuart Mill! Il primo era una personalità troppo ricca d'interessi spirituali, per potersi definitivamente fermare nel gretto ed angusto manchesterianismo; il secondo, pur non ripudiando la sua educazione benthamista, riuscì tuttavia a sorpassare la concezione troppo particolarista della vecchia mentalità liberale e ad intendere la necessità di una integrazione dell'individualismo, capace di adeguarlo alla crescente complessità dei rapporti sociali e politici. Queste stesse tendenze si anelarono facendo largamente strada tra i politici militanti del liberalismo: molte false prevenzioni contro la legislazione operaia furono deposte; l'importanza dell'educazione di stato ebbe un più largo riconoscimento, la necessità di regolare e controllare i rapporti economici (specialmente quelli internazionali) si fece sentire più viva. In rapporto al problema sociale, questo nuovo orientamento si rivela nella maniera del tutto nuova d'intendere il rapporto fra la libertà e l'associazione. Mentre per il liberalismo classico le coalizioni operaie esercitano un'azione spiccatamente liberale sia col forzare, mercé il loro intervento, la libertà del contratto di lavoro, sia (ed anche più) con l'esigere il controllo dello Stato su quel contratto; pel nuovo liberalilismo invece, in questa medesima azione si palesa uno spirito schiettamente liberale: infatti, esso osserva giustamente, non é libero l'operaio isolato e privo di mezzi, nel trattare col padrone, ma diventa libero solo con l'ausilio dell'associazione, che lo pone in grado di trattare sopra un piede di eguaglianza e gli assicura quel trattamento umano, senza il quale non possono neppur sussistere le condizioni elementari della libertà. In questa concezione del nuovo liberalismo, la "libertà" sconfina nell'uguaglianza (della democrazia); non la mera uguaglianza formale innanzi alla legge e neppure l'uguaglianza di fatto dei comunisti, ma un che di mezzo fra l'una e l'altra che gl'inglesi designano con l'espressione: equality of opportunity. Ed é proprio qui il punto dove s'incontrano il progredito liberalismo e il moderato laburismo, che sorge e si organizza nell'ultimo decennio del secolo scorso. Tra la dottrina di un Sidney Webb e di un Mac Donald da una parte e quella d'un liberale come l'Hobhouse, p., e., dall'altra, le affinità sono assai superiori che non le differenze. Le concessioni che lo scrittore liberale fa alla democrazia sociale trovano un perfetto riscontro in quelle che i laburisti fanno allo spirito individualistico e liberale: la classe operaia inglese non potrà mai dimenticare che alla libertà essa é debitrice della sua peculiare organizzazione storica; anch'essa porta sulle sue insegne impressi i superbi motti: Dio e il mio diritto; e contro lo Stato oppressore: Togliti dal mio sole. Ciò spiega come si sia andato gradatamente formando l'accordo liberale-laburista dapprima nell'elezioni del 1906 e poi, su più larga scala, in quelle del 1923. Un simile accordo, alcuni avevano immaginato di promuovere in Italia, dal 1919 in poi, senza pensare che non disponevano se non di un proletariato raccogliticcio e di un pseudo-liberalismo forcaiolo: l'uno e l'altro facenti, oggi, decorosa mostra di sé nelle file del fascismo. Ma parliamo dell'Inghilterra! Mentre il fatto dell'accordo liberale-laburista non può dar luogo a divergenze d'interpretazione, assai più controverso é il significato, il valore, della loro vittoria comune, nelle recenti elezioni. Da noi, dove le spiegazioni più profonde degli avvenimenti politici consistono nel registrare la tendenza del loro movimento verso destra, o verso sinistra, sono state formulate le vedute più catastrofiche o più iberboliche sul nuovo avviamento della politica inglese verso sinistra. Anche gli esperti di problemi economici non hanno saputo trarre un partito adeguato dalla considerazione che la lotta elettorale era stata impostata sull'opposizione tra il protezionismo imperialista e il liberismo. Non si é voluto vedere in ciò che uno dei tanti episodii dell'annosa antitesi fra due concezioni economiche; mentre in realtà, i termini del dibattito sono oggi profondamente mutati. Senza dubbio, in un certo senso, si può sempre dire che un'interna crisi dell'industrialismo sia tuttora aperta, in vista della quale alcune correnti industriali sono portate ad assumere una tendenza protezionista, mentre alcune sono rimaste fedeli all'antico liberismo. Ma non é qui l'aspetto più profondo, né la più precisa individuazione dei termini del conflitto, perché, ancor oggi, quel che v'è di più vitale nell'industrialismo inglese persiste nel liberismo, che gli offre le più opportune condizioni di esistenza. Bisogna allora ricercare l'altro termine della lotta. Tale ricerca é stata già fatta con molto acume da un economista tedesco, studiosissimo di cose inglesi, fin dal 1906. E i risultati della sua indagine valgono ancor oggi anzi tanto più oggi, che alcune tendenze segnalate nell'indagine di 18 anni fa, appaiono ora ben più nette e accentuate. Mi riferisco al libro dello Schulze-Gaevernitz: Britischer Imperialismus und englischer Freihndel". Quivi si considera magistralmente il lento e graduale spostamento della struttura economica della Gran Bretagna, da quella di uno stato industriale a quella di uno stato-creditore e rentier (Glaubigerstaat, Rentuerstaat). L'Inghilterra, osserva lo Schulze, nel secolo XIX era il tipo di uno stato industriale esportatore. Con ragione asseriva un noto proverbio: ciò che Manchester dice oggi, Londra dirà domani. Il liberismo economico e tutta la struttura politica dello stato liberale erano strettamente connessi a questo peculiare organismo industriale. Ma, al presente, ciò che ieri diceva Manchester, oggi non ripete più Londra: anzi lo Stock-Exchange londinese subentra al posto della borsa di Manchester, e, da condizionata che era, la condiziona a sua volta. Londra é diventata il cuore del mondo economico inglese: ivi s'incontrano tutti i valori economici di tutti i continenti; ivi si contraggono i prestiti mondiali e si operano gli investimenti mondiali. Al posto dell'industriale subentra il finanziere, al posto del produttore il creditore. Ora gli interessi essenziali di un paese-creditore sono indipendenti dagli interessi liberisti delle industrie locali; al contrario, al finanziere, allo speculatore, importa promuovere artificialmente qualunque intrapresa che possa creargli un lucro. Di qui la sua preferenza per gli investimenti coloniali, dato lo spirito protezionistico delle colonie; di qui, dunque, l'intimo nesso tra lo Stock-Exchange londinese e l'imperialismo protezionista, tra la politica estera e gli interessi dei creditori inglesi. Lo Schulze Gaevernitz mostra come nella seconda metà del secolo XIX sia andato comparativamente diminuendo il numero degli individui interessati nella produzione industriale strettamente inglese, e crescendo invece quello dei rentiers, che incassano i dividendi d'intraprese che essi ignorano quasi del tutto; e come, per conseguenza, si sia andato nuovamente spostando il centro di gravitazione economica dai paesi industriali del nord-est ai paesi del sud dell'Inghilterra, i suburbia di Londra, che già nel tempo dello stato agricolo avevano avuto una importanza predominante, e la riacquistano ora, sotto ben altro titolo, ma con la stessa insegna conservatrice. Infatti la psicologia del rentier è quella di chi ama il guadagno ben tutelato e protetto senza le lotte e i rischi della concorrenza. Essa si manifesta anche nei costumi più ingentiliti e raffinati, nell'amore del comfort e del lusso, in opposizione col rozzo e severo tenor di vita degli inglesi di un secolo fa; nella passione sfrenata degli sports, nel gusto del decadentismo artistico. È tutta insomma una concezione della vita, che si fa lentamente strada e che rappresenta nel suo complesso una attenuazione dell'energia vitale e creativa del popolo britannico. L'antitesi tra lo stato-industriale e lo stato-rentier, che lo Schulze Gaevernitz vedeva già chiara fin dal 1906, appare nella sua massima evidenza nel periodo del dopo guerra, e in virtù della guerra stessa che ha ingigantito la figura dello stato-creditore. Ma, a sua volta, la guerra non é monopolio di nessuno - classe o individuo -; essa sta ugualmente per tutti e contro tutti. Provocando la più vasta crisi industriale che la storia ricordi, spingendo all'estrema miseria quel ceto operaio che un secolo e mezzo di lavoro tenace aveva reso partecipe della prosperità dell'industria nazionale, la guerra ha finito col suscitare il senso del pericolo, e con esso l'attività vitale del popolo che appariva attenuata. Il significato intimo della vittoria liberale e laburista é proprio qui: quali che siano per essere nel futuro i rapporti dei due partiti vincitori, é certo di grandissimo momento il fatto della loro solidarietà nell'ora del pericolo, che minacciava per l'appunto il loro patrimonio comune: quell'industria, da cui attingono eguale ragione d'essere i liberali e i laburisti. I nostri scrittorelli nazionalisti anche stavolta colgono nel segno, quando ostentano - mefistofelicamente! - di rallegrarsi dell'infrollimento degli inglesi, di cui la recente conversione a sinistra sarebbe una chiara testimonianza. Il significato del fatto é precisamente l'opposto; ciò che vale anche indirettamente a segnalare da quale parte stia l'infrollimento. GUIDO DE RUGGIERO.
II.I CONSERVATORINegli ultimi tempi, prima dell'avvento laburista, i conservatori inglesi hanno seguito una politica che si potrebbe dire industriale, per guarire le sofferenze dell'industria e per il bene, sempre ipotetico, dell'esportazione. Se, stanchi di vociferare alle apparenze, i conservatori avessero ricercato le cause del male essi avrebbero agito differentemente e più relativamente: essi avrebbero senz'altro lamentato l'abbandono fatto dai tory, nel 1780, dell'agricoltura per l'industria. Oggi l'Inghilterra deve importare i due terzi dei generi alimentari occorrenti, cosa che obbliga la nazione a riguadagnare nelle officine il valore di tali importazioni alimentari. Ora la guerra, con le sue selvagge distruzioni, ha rovinato i compratori inglesi e il cambio, mantenuto alto specialmente a causa della balcanizzazione dell'Europa Centrale, suscita una serie di concorrenti temibili. Prigionieri - nel 1914 come nel 1922 - del miraggio industriale, conservatori inglesi non si sono voluti risolvere ad abbandonare a tempo opportuno la loro tradizionale politica protezionista. Questo sistema, tra gli altri inconvenienti, ne ha uno immediato ed é quello di rendere caro il costo della vita. E poiché il caro-vita porta gli alti salari, che a loro volta causano l'alto prezzo dei prodotti, non si poteva sperare in queste condizioni uno sviluppo delle esportazioni, né del consumo interno. Aggiungansi le esigenze della mano d'opera: gli operai inglesi, come gli altri, hanno voluto dopo la guerra vivere come prima lavorando di meno. La loro forte organizzazione sindacale s'è sempre opposta a qualsiasi riduzione di salario come a qualunque abbassamento del famoso livello di vita, lo standard of life, divenuto intangibile, come un dogma. Donde la disoccupazione. Comunque però il conservatorismo inglese - che aveva mantenuto sempre fermi i suoi postulati - dopo le elezioni del 1922 s'è incominciato a scindere in tories puro sangue e in nuovi venuti che hanno riconosciuto tutti i mali del regime industriale e che sarebbero forse voluti andare tanto lontano, quanto i liberali, sulla via delle riforme per trovare un rimedio agli abusi. Allora i conservatori erano al potere con una maggioranza schiacciante, che sembrò giustificare la rivolta del Carlton Club contro Lloyd George, ma fra essi vi era un buon numero di "managers" del partito, uomini che non si appagavano troppo delle apparenze e che vedevano le cose con calma maggiore. Tra i membri che erano tornati in Parlamento sotto il titolo generico di conservatori, ve ne erano una cinquantina che erano personalmente gli aderenti di Chamberlain. Essi erano nettamente opposti a quel che si chiama "reazione" e, come disse Sir Archibald Soldvidge, "essi credevano in un grado più o meno forte nella collaborazione con nazionali-liberali. E costoro servirono di temperamento durante il governo di Bonar Law e di Baldwin, e raddolcirono alcuni presupposti del programma rigido dei venti conservatori, come sovratutto apparve dai discorsi che essi tennero in occasione della ultima campagna elettorale. Baldwin, parlando ai suoi elettori, ribadì il concetto che egli e i suoi aderenti volevano innanzi tutto soddisfare a quattro interessi nazionali: l'interesse degli industriali, quello dei consumatori, quello degli agricoltori e quello delle Colonie, per quanto sotto quest'ultimo nome si dovessero solo comprendere i Dominions di razza bianca e le colonie della Corona, ma non l'India, il cui sviluppo industriale ha sempre costituito per Baldwin "un immenso pericolo". Ai coloniali, l'allora premier accordava alcune tariffe preferenziali. Agli agricoltori della metropoli concedeva una sovvenzione annua di una lira sterlina per acro di terra coltivata. Ai consumatori Baldwin faceva sperare una diminuzione dei diritti sul the e sullo zuccaro e, poiché i consumatori delle città, per la maggiore parte vivono delle industrie o del commercio, l'ex-premier faceva loro balenare l'idea di un miglioramento a causa della prosperità dovuta alla riforma doganale. Agli industriali Baldwin prometteva infatti la protezione doganale, che costituiva poi la parte essenziale del suo programma. Egli, come industriale, si vantava di conoscere bene ciò che bisognava ai manufatturieri inglesi. I differenti articoli di quel programma erano fra loro connessi. Grazie al reddito dato dalla tariffa doganale lo stato contava di pagare le sovvenzioni all'agricoltura e di far fronte agli sgravi imposti sullo zuccaro e sul the, come, aumentando le risorse dei consumatori, Baldwin contava di sviluppare l'importazione dei prodotti coloniali. Se non che tutti questi interessi erano puramente empirici. I coloniali non vedevano in tal modo tradursi in atto la grande idea di Ioseph Chamberlain, già ripresa dal primo ministro australiano Bruce. Per realizzare quell'idea, cioè per riservare il mercato inglese ai prodotti agricoli delle colonie e i mercati coloniali ai prodotti industriali dell'Inghilterra, sarebbe stata necessaria l'istituzione di diritti doganali sui grani e sui generi alimentari stranieri cosa che gli elettori non avrebbero accettata. Gli agricoltori avrebbero anche essi voluto dei diritti sui cereali e sul bestiame straniero, ma non vennero loro concessi e furono solo consolati con la promessa d'una sovvenzione. Quanto ai consumatori essi avrebbero potuto domandarsi se una tariffa doganale non avrebbe aumentato il costo della vita, prima di accrescere le risorse del popolo minuto. Dal canto loro gli industriali sentivano di non avere tutti interessi uniformi. Il programma quindi di Baldwin, prettamente conservatore ed antisocialista, aveva, dati i tempi, un vero e proprio difetto d'origine, che sia bure in piccola parte tentò di correggere il leader di quella frazione liberaleggiante, che già aveva collaborato nel governo coalizionista di Llody George, lord Balfour, il quale non si dissimulò i pericoli che potevano provenire dalla battaglia di Baldwin. Balfour infatti spiegò che per istituire il regime protezionista non sarebbe stato sufficiente che il partito conservatore avesse ottenuto la maggioranza alla Camera dei Comuni. Con tutto ciò Balfour, pur non sentendosi sicuro del successo proclamava che tutti i membri conservatori dovessero lavorare per la vittoria e considerava in sostanza che la situazione sarebbe stata molto grave se il partito conservatore fosse stata battuto. "Io rifiuto - disse allora Balfour - di credere che noi saremo in minoranza. Ma se noi giungessimo ad un tale stato di cose che ci interdica di realizzare il nostro programma, ci troveremmo in una posizione che potrebbe provocare, dal punto di vista politico, episodi ancora più sgradevoli di quelli che abbia prodotto alcuna coalizione. A sua volta invece lord Birkenhead, che aveva pure partecipato al governo di coalizione pronunciò un discorso industriale piuttosto che politico. Per quel che riguardava la politica interna egli si contentò di polemizzare coi liberali libero-scambisti: in politica estera egli sembrò disinteressarsi del continente europeo. Egli fece solo allusione alla Conferenza di Genova, "Noi facemmo - disse Birkenhead - un grande sforzo a Genova: Io credo che se non fossimo stati sostenuti di più, forse quella sforzo sarebbe riuscito e, se fosse riuscito, i nostri problemi attuali sarebbero stati alleggeriti nella proporzione di uno su due." Applicando anch'egli poi tutta la sua eloquenza nell'esporre i bisogni industriali dell'Inghilterra, l'antico collaboratore di Lloyd George ebbe però anch'egli l'infelice idea di sostenere con molto vigore la causa del protezionismo, tanto che l'oratore sembrò attribuire la prosperità della Francia unicamente al regime protezionista. Onde egli scongiurava i suoi connazionali a proteggere l'Inghilterra con una tariffa doganale ed esitava soprattutto a proteggere la metallurgia inglese, invocando, a tale proposito, gli insegnamenti della guerra. L'Inghilterra non si era forse avvista durante la guerra, che essa non produceva abbastanza acciaio? "In un mondo imperfetto - concluse Birkenhead - una dottrina economica deve essere adattata sia alle condizioni della guerra, sia alle condizioni della pace". Queste idee, ribadite nello stesso giorno da Chamberlain, costituiscono il fondamento della politica conservatrice, che trova poi un punto di appoggio, e anzi di sviluppo, nella politica di imperialismo coloniale. È un fatto oramai incontestabile che, per opera dei conservatori, il concetto d'Impero e d'Impero coscientemente voluto, ingrandito ed organizzato, si sia fatto strada nel pensiero e nella volontà britannica. Fin verso il 1860, molti inglesi, preoccupati dalla rivolta dei cipayes, dalla guerra di secessione degli Stati Uniti e delle colonie spagnuole pensavano, con Turgot, "che una colonia divenuta adulta, si stacca dalla madre patria, come un frutto maturo dall'albero". Come poi questo scoraggiamento si mutò in un formidabile attivismo? Oltre che la facilità delle comunicazioni, le necessità per il mercantilismo britannico di assicurarsi dei mercati esclusivi, operò a questo fine lo spirito tradizionalista, e quella salda volontà di potenza, i cui organi si ritrovano ancora nel partito conservatore. Se il potere fosse stato in mano di intellettuali, d'ideologi, molto tardivi a formulare ipotesi e molto sensibili, forse l'Impero britannico, la Greater Britani, di cui sir Charles Dilke, pubblicava il quadro nel 1868, nello stesso momento in cui egli prendeva il sopravvento sui suoi contradditori, non sarebbe forse mai esistita. I conservatori quindi riuscirono a rinsaldare l'unità dell'Impero e per farla durare, per combattere le divergenze che qua e là venivano affermandosi, ricorsero al sistema delle conferenze. La prima conferenza fatta nel 1887, non essendo mal riuscita, si rinnovò nel 1894, nel 1897, nel 1902, nel 1907, nel 1911 ed infine nel 1923. In queste conferenze, dette prima coloniali, poi imperiali subito si manifestarono due tendenze: ferma volontà delle colonie di non alienare la loro indipendenza e desiderio sincero di intendersi con la metropoli su alcune questioni di interesse comune. Ma mercé l'avveduta politica conservatrice, non fu sostenuta nessuna unione regolamentare, né alcuna dispersione egoista, e venne attuata una coordinazione di vivi particolarismi, per mezzo dei quali si venne a formare fra madre patria e colonie l'abitudine di combattere insieme, dico l'abitudine che è poi la chiave d'oro di tutti i particolarismi. Però, quantunque la politica coloniale sia stata ben condotta dai conservatori, la politica estera basata specialmente sul ritorno allo "splendido isolamento" non poteva recare buon frutto. Baldwin era convinto - lo ripeté più volte -che il disordine economico dell'Europa sarebbe durato ancora lungo tempo e che l'Inghilterra non si sarebbe potuta contentare di attenderne la fine. Egli aveva abbandonato la speranza che i cambi europei si sarebbero stabilizzati e che si sarebbe potuto ristabilire così il funzionamento normale del commercio. Onde consigliava agli inglesi di costruire un muro e di trincerarvisi dietro lasciando il continente europeo dibattersi nel caos. Applicando la politica del muro a che sarebbe giunto Baldwin? Al fallimento dell'azione diplomatica dell'Inghilterra. Onde l'ex premier ha giuocato la fortuna del suo Gabinetto e del suo partito su questa formula: "ritiriamoci dall'Europa e proteggiamoci da essa". Contro questa formula si sono scagliati i liberali e i laburisti nelle ultime elezioni. Facendo le elezioni sulla questione doganale, Baldwin ricostituiva l'unità del partito liberale e dava esca agli attracchi dei laburisti, mettendo in serio pericolo la posizione di un centinaio di deputati conservatori, nelle circoscrizioni dove la lotta elettorale era stata particolarmente difficile l'anno antecedente. Era questo un problema di tattica elettorale su cui un governo ed un capo di partito non doveva ingannarsi impunemente. Baldwin invece si é ingannato onde in luogo di avere 75 voti di maggioranza, egli si é trovato in minoranza di più che 100 voti. Errori fatali sono stati per i conservatori sia il sostenere l'istituzione del regime protezionista sulle condizioni economiche attuali, sia il predicare una politica d'isolamento quando proprio la situazione europea era delicatissima, lanciandosi essi così in una esperienza inestricabile, per cui hanno corso rischio di screditarsi per sempre. F. PAOLO GIORDANI.
III.MAC DONALDVien voglia di mettere sotto a questo nome, che ha certa sonorità da personaggio di romanzo di George Sand, il sottotitolo: ovverossia dalla rupe Tarpea al Campidoglio. Forse: mai così vasto fremito di speranze accompagnò chi saliva, fuor d'ogni tragica gradiosità rivoluzionaria, per le prosastiche vie del costituzionalismo parlamentare; né conta che, prudentemente, il Premier ed i suoi si affannino a distinguere tra Governo e potere; le immense moltitudini dell'Europa tormentata veggono, nel Labourismo al Governo, l'avverarsi del vaticinio di Gladstone, un'arra di loro riscossa. Questa vertiginosa fortuna conquistata in due anni, dal 16 novembre 1921, fa riscontro alla caduta fulminea del 1914, che si può ben chiamare un suicidio politico, stoico e deliberato. Siamo al 3 agosto. Dal 1906 Mac Donald é deputato per Leicester, dal 1911 é succeduto al Keir Hardie, come presidente del Gruppo Parlamentare Labourista. Nella difficile situazione del labourismo alla Camera, dominato dalla duplice preoccupazione di non indebolire la maggioranza liberale, ma di darsi al tempo stesso una fisionomia e di acquistare una vera indipendenza, egli si era fatto fama di tattico abilissimo. Invitato a prendere parte al Governo di guerra, ricusa. Si pensa allora da qualcuno che ciò risponda ad un calcolo politico e in una riunione, che si tiene la sera stessa, si dice in sua presenza, quasi a spiegarne la condotta: "La guerra é inevitabile, ma sarà certamente impopolare". "Sciocchezze" avrebbe risposto Mac Donald "sarà la più popolare delle guerre, in cui il nostro paese sia stato impegnato". Guardate, aggiunse accennando alla folla che si intravedeva, dalle finestre, la gente che comincia a diventare matta!" Infatti il gran pubblico, anche se avesse avuto la calma necessaria per esaminarle, non avrebbe potuto comprendere le ragioni della disposizione del Mac Donald. Questi osservava che la guerra non era che il necessario epilogo di una politica estera, che egli aveva, nel nome del suo partito, metodicamente avversato! la politica russa, la politica balcanica di Grey, da lui sempre combattute, portavano ora i loro frutti avvelenati. Ma il pubblico aveva poco seguite queste, che per lui erano state dispute di dettaglio; il pubblico di sinistra era preparato a stare in guardia contro l'imperialismo di vecchia maniera; ma gli uomini che erano ora al potete non erano forse dei liberali, dei pacifisti? Non avevano essi stessi combattute aspre battaglie contro le follie colonialiste? Ed infatti, nella seduta straordinaria del Gruppo Parlamentare, che si tenne il giorno dopo, il Mac Donald ebbe con sé tre deputati su una ottantina circa. Veniva dimissionato da leader del Partito che aveva tratto vita dalla sua tenace volontà, e di cui egli era stato segretario quando si presentava ancora come una Lega per la Rappresentanza Operaia e nessuno voleva partecipare al ridicolo di un previsto insuccesso. Chi ricordi quel che ancora nel 1881 l'Engels scriveva del movimento delle unioni operaie inglesi, comprende quanto gli sforzi di Mac Donald e di Keir Hardie dovessero sembrar disperati svolgersi fuori di ogni popolarità. Un uomo che va serenamente incontro a ciò, deve esser dotato senza dubbio di grandi qualità morali. Ma intellettualmente, come uomo di Governo, cosa può valere? Forse la distinzione tra forza morale e intellettuale é un po' difficile in questo caso. Per esempio: uno degli aspetti più caratteristici dell'atteggiamento politico del Mac Donald é il suo contegno nei confronti dei "socialpatrioti". Nel diario del rapido trapasso del potere dai conservatori ai labouristi, uno dei primi atti fu l'assunzione di Mac Donald alla dignità di Consigliere privato del re". Erano padrini della investitura i molto onorevoli signori Clynes e Henderson; essi n'erano stati insigniti durante il periodo dell'unione sacra, quando Mac Donald era additato alla esecuzione popolare per il suo atteggiamento inflessibile, quando a lui si negavano dal Governo i passaporti, Ministri quei signori; quando gli si negava persino di potere servire nel Belgio in una ambulanza come a sospetto di tradimento, quando le stesse unioni operaie, di cui quei signori erano allora i dirigenti, si rifiutavano di trasportarlo oltre mare, allo stesso modo che i gentiluomi del Club di Golf del suo paese natale lo radiavano dai soci. Noi sappiamo qualche cosa, noi italiani, di quel che voglian dire certi ricordi e certi rancori. Si può dire che la politica del dopo guerra sia stata aggirata tutta sul reciproco processo al passato. Era logico, era umano che Mac Donald, quando il favor popolare tornò a lui dopo le delusioni della guerra, facesse a sua volta il processo ai "traditori", agli "ingannatori del popolo". Nulla di tutto ciò; più che aver perdonato, egli parve aver immediatamente dimenticato; riprese il suo posto di comando, dal quale era stato scacciato, con la naturalezza con la quale l'avrebbe ripreso se vi avesse lasciato un luogotenente, sotto la sua guida il partito riprese la marcia in avanti, rapidamente cementato al fuoco delle nuove battaglie comuni. Questo cos'è? Grandezza d'animo o abilità? Ed é da ascriversi alle qualità intellettuali o morali del Mac Donald un palese sforzo di probità intellettuale, per cui egli cerca di rappresentarsi in tutto il loro valore le opinioni avversarie, evitando di combatterle con argomenti ad effetto, o quello di esporre il suo pensiero in modo da dissimulare quel tanto di acuto e di originale che può esservi, così da dar la sensazione che si tratti di idee ovvie e indiscutibili? Il pubblico dei sostenitori di Mac Donald, per esempio, é essenzialmente antifrancese; come del resto tutta l'opinione pubblica inglese in questo momento; la preoccupazione dominante per quella gente é di dare una lezione a Marianna. I pochi francofili in Inghilterra vedevano con terrore l'avvento di Mac Donald: i conservatori anti-francesi lo accettarono come una allegra vendetta. Ho presente la vignetta di un foglio umoristico conservatore, in cui si rappresenta il Poincaré sul ring, Curzon e il povero Baldwin sono malconci knock-out e Mac Donald si dispone a scendere sulla pedana. "A te James" era scritto sotto, ed era sottinteso: spacca il muso a quello lì). Ebbene, la lettera a Poincaré così ferma, così serena, dà forse l'impressione di un uomo, che ricordi le manifeste ostilità dei circoli francesi all'ipotesi di un governo labourista di là della Manica? La lettera é utile perché dimentica e fa dimenticare. Insomma l'insegnamento che ci viene dall'Inghilterra é che la politica é l'arte di dimenticare. Lloyd George dimentica che il Poincaré non fa che seguire la politica della forza iniziata con il consenso suo e settimanalmente tratta da scemi sulle colonne della Associated Press, tutti coloro che hanno raccolto l'eredità da lui lasciata. Mac Donald fa lo stesso: ma invece di dimenticare i trascorsi proprii dimentica quelli degli altri. Si tratta però sempre di una mentalità per la quale in politica "la vita comincia domani". NINO LEVI.
IV.I LIBERALILa religione della libertàNon é mera espressione rettorica il dire che il liberalismo é l'anima dell'Inghilterra; esso ha salde e profonde le sue radici nel fatto stesso dell'insularità che già nel periodo dell'occupazione romana suscita contro l'Impero la monarchia di Carausio; che all'indomani della Conquista Normanna spinge Guglielmo il conquistatore a negar l'omaggio feudale ad Ildebrando; che più tardi mette il popolo al seguito dei Baroni che strappano a Giovanni Senza Terra l'ultima e decisiva fra le Chartae costituzionali; e più tardi ancora metterà l'intera nazione dietro Enrico VIII contro Roma e farà dell'Inghilterra il paese in cui il Puritanismo vinse su tutta la linea più che in ogni altro e impresse di sé a un tempo il carattere individuale ed il nazionale, la vita religiosa e la politica. Pel solo fatto che in Inghilterra il Diritto Romano imperiale, con la sua celebre massima Princeps a legibus solutus non riuscì mai a prevalere contro la Common Law e contro i diritti individuali sanciti dalle Corti nel corso di generazioni e più tardi generalizzati nelle norme costituzionali divenute consuetudini storiche, la rivoluzione protestante e puritana proclamante l'autonomia religiosa dell'individuo e riasserente la massima evangelica che occorre obbedire prima a Dio che agli uomini, riusciva a fare più che mai dell'Inghilterra il paese in cui l'autorità e la libertà venivano a trovare la loro sintesi armonica, ad essere due aspetti del medesimo processo; e a preparare, con qualche impoverimento di contenuto, la dichiarazione dei Diritti del cittadino in America e la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo in Francia. Il liberalismo ha quindi in ultima analisi, in Inghilterra almeno, da un punto di vista storico, origine e base religiosa: esso consiste nel ritenere che l'individualità é ciò che va di più sacro nel mondo e che essa, essendo responsabile verso Dio prima che verso gli uomini, ha diritto di procedere non inceppata da ostacoli contingenti di istituzioni, costumi, differenze di razza, di censo, di classe, ecc. e che perciò la società é sana nella misura in cui provvede a suoi membri le più piene, libere e sicure opportunità di sviluppo di se stessi. Il liberalismo non é quindi mai stato, almeno nelle sue origini, mero laisser faire, mera emancipazione, mera negazione di ostacoli e limiti esterni: la emancipazione e la negazione sono solo mezzi per arrivare alla libertà positiva di ciascuno di realizzare completamente sé stesso nel servizio di tutti, nel che é il dovere di ciascuno. Il liberalismo riposa su una dottrina etico-religiosa della responsabilità individuale: il diritto riposa sul dovere. Un recente storico inglese, il Ramsay Muir non esita a dire che questa é l'essenziale differenza tra lo spirito della costituzione inglese e quello della Rivoluzione francese ed americana, che quindi ne sono derivazioni impoverite. L'idea che il liberalismo sia meramente negativo, mero laisser-faire si spiega col fatto che in una prima sua fase di vita il liberalismo si esplicò distruggendo tutte le ineguaglianze irrazionali basate su mere differenze di censo, di classe, di religione, di razza e divenute ostacoli alla manifestazione delle benefiche ineguaglianze naturali. Ma é dottrina che, oltre all'essere in conflitto con lo spirito della Common Law ed oltre al non tener conto del presupposto religioso, non fu mai accettata e fu sempre combattuta dai più grandi profeti del liberalismo integrale, da Burke a Gladstone, ad Hobhouse. Lo Stato e la leggeDal principio che ognuno é responsabile verso i suoi simili e che la responsabilità verso i suoi simili é fondata sulla comune razionalità e sul concetto del bene comune che ne deriva, segue che nessuno potendo da sé crearsi le condizioni per l'esercizio delle sue attività integrali, il bisogno comune di crearsi tale condizioni si esplica nello sforzo comune per crearle, mantenerle e migliorarle, ossia nella creazione dello Stato. Lo Stato esiste per rendere possibile la libertà di tutti, non solo nel senso di egual sicurezza contro l'arbitrio e quindi di eguaglianza civile, religiosa e politica, ma ancora nel senso di libertà di fronte a ciò che é arbitrario, irrazionale nelle condizioni di vita: lo Stato esiste per creare le condizioni in cui lo spirito umano può più liberamente fiorire. E lo strumento che crea la libertà é la legge, la volontà comune in atto. E' per mezzo della legge che divien possibile la sicurezza personale e viene gradualmente eliminata la violenza interindividuale; é per mezzo della legge che sorge la possibilità per ciascuno di poter contare sul godimento del prodotto del suo lavoro; é per mezzo della legge che egli é protetto, a condizioni umilianti e deterioranti, in periodi di disoccupazione involontaria; o almeno si avvia ad esser sempre meglio protetto; é per mezzo della legge che non solo ad ognuno é garantita la sicurezza di ciò che possiede, ma ancora viene sempre più precisamente determinato ciò che é dovuto alla sua attività individuale e ciò che é dovuto alla tacita cooperazione di questa con la società, che la protegge, la nutre, la sostiene; ed é per mezzo della legge, cioè dell'espressione in atto d'una comune determinazione, che, ad ogni momento, a seconda delle cognizioni che si posseggono sulla natura e sull'uomo, si decidono le condizioni della educazione, della salute ecc. più socialmente propizie. La legge insomma lungi dall'essere nemica della libertà ne é la condizione, nella misura in cui é l'espressione comune in atto di una comune volontà liberamente costituitasi in regime di libera discussione. Una decisione comune di astenersi da date azioni o d'esigere date azioni gli uni dagli altri non é una restrizione per alcuno; é un'azione comune. In pratica spesso é un'azione dei più; ed é giustificabile solo nel senso che, in un regime di libera discussione, le minoranze hanno ogni possibilità di diventare, per persuasione, maggioranze e queste hanno con quelle più elementi in comune che elementi di divergenza. E similmente è solo per legge che si può arrivare, tra nazioni come tra individui, ad assicurarsi contro il pericolo di un collasso della vita civile. Fino ad oggi la civiltà fu garantita prima dalla Polis e dalla Urbs, poi dall'Impero Romano, poi dalla Repubblica Christiana permeante di sé il mondo medievale, poi dallo Stato nazionale; ma ora l'interdipendenza economica tra le varie parti del mondo é tale e tale é lo sviluppo dei mezzi di distruzione per terra, per aria e per acqua e l'indipendenza delle varie opinioni pubbliche dei vari paesi, che nessun Stato basta più da solo a garantir la permanenza della civiltà pur entro i suoi confini ed é perfettamente concepibile che guerre e rivoluzioni rendan la civiltà un mero ricordo storico su interi continenti; e così diviene a molti sempre più chiaro che anche la civiltà non può più essere garantita che dalla supremazia della legge pur nei rapporti tra Stati: occorre la libertà contro l'arbitrio pur nella vita internazionale. L'Inghilterra e gli Stati Uniti con la pratica dell'arbitrato hanno da un pezzo dato l'esempio pur di questa applicazione del liberalismo; Gladstone, Cobden, Bright, Asquith hanno i loro nomi immortalmente legati a questa causa. Self-MasterySe la sicurezza é la prima condizione della libertà, la seconda si é che ognuno abbia piena signoria sulle sue energie fisiche e spirituali (self-mastery); ed in una Società moderna nessuno può arrivare anche a un mediocre livello di tal signoria senza l'organizzazione dell'educazione fisica, morale e intellettuale e senza leggi sanitarie. Lo studio particolare delle condizioni é necessario per determinare in qual misura occorre affidarsi all'iniziativa individuale, alla cooperazione volontaria, all'azione statale o locale; ma non c'è dubbio che tutto quello che può essere fatto, senza deteriorazione ed anzi con vantaggio del carattere individuale, deve essere fatto ed é azione liberale. L'essenziale si é che l'azione statale sia concepita in termini tali da integrare e non da soppiantare le altre iniziative, da coordinare senza comprimere, da coordinare senza uniformare. Self-governmentDopo la sicurezza e la self-mastery, la terza condizione della libertà é il Self-government: l'uomo sicuro contro il caso e l'arbitrio e signore di sé, anima e corpo, deve sentire di non essere un mero ente passivo nella società di cui é membro, ma un coefficiente ed un contributore nella determinazione progressiva delle condizioni della vita comune. Ed il Self-government non dev'essere solo amministrativo o politico; dev'essere anche industriale. Il concetto del rispetto alla personalità implica che anche nella fabbrica tutto andrà meglio in ogni senso nella misura in cui ognuno non lavorerà solo per far profitto o guadagnarsi da vivere al minimo costo, ma anche e sopratutto per esprimere se stesso, per vocazione e per servire i suoi simili, per senso di responsabilità verso di essi, sí: che il motivo economico sia sempre più dominato dall'etico e l'impresa divenga nel suo aspetto spirituale una coimpresa di libere iniziative organizzate secondo le loro capacità gerarchicamente in vista della resa d'un dato servizio. Security, self-mastery, self-government, sono le tre condizioni indispensabili della libertà e basta riflettere come esse, pur negli stati più evoluti, sono ancora solo infantilmente realizzate, specie le ultime due, per vedere come il liberalismo, lunge dall'aver fatto il suo tempo, é ancora solo nella sua infanzia nella stessa Inghilterra, ove pure fin dall'inizio del secolo XIV esso, per quanto applicato in termini prevalentemente negativi non fu mai concepito in termini esclusivamente negativi; come mostra l'adozione di leggi sulle fabbriche fin dal 1802. E queste tre condizioni nella misura in cui sono simultaneamente ed organicamente realizzate, approdano a quella spontanea combinazione del principio della libera carrière ouverte aux talents con quello della spontanea subordinazione dei meno ai più dotati di iniziativa creatrice che é la condizione del massimo di produttività di valori non solo economici ma d'ogni genere. Una società é tanto più ricca e anche moralmente sana, quanto più i suoi adatti hanno aperta la via ad emergere come duci naturali degli altri in ogni campo. E nel corso del XIX l'Inghilterra, specie mediante l'aumento di popolazione reso possibile dall'avvento del moderno industrialismo é diventato il paese nel mondo a cui più é necessario avere una élite politica ed economica capace di misurarsi vittoriosamente contro ogni altra. Il Partito LiberaleL'Inghilterra non può sperare di poter mantenere in crescente comfort le sue popolazioni che ancor crescono con tanto vigore, che se ha una élite di intraprenditori e di commercianti capaci di espandere i suoi mercati in tutto il mondo nonostante il sorgere sempre di nuovi e più formidabili concorrenti per terra e per mare. E chi é degno di appartenere a tale élite non lo può dire che il continuo esperimento, donde la necessità ad un tempo e la fecondità del libero scambio: esso é richiesto a un tempo a creare il massimo buon mercato e a rinnovare l'èlite dei creatori di ricchezza d'ogni genere. Nei secoli scorsi il liberalismo fu per essa una necessità prevalentemente politica e religiosa; essa lottava per la sua indipendenza contro autocrazie militari continentali; ora esso é anche una necessità economica, che a sua volta per altro feconda quella politica e culturale. E l'organo della coscienza di questa necessità é il partito liberale, il quale la difende ad un tempo contro i conservatori e contro i socialisti. Esso ha in comune coi conservatori il principio della suprema importanza della iniziativa individuale, ma ne differisce nell'essere avverso a tutte le forme di monopolio, che per l'appunto tale iniziativa inceppano e impediscono che essa si diffonda in tutti gli strati sociali. D'altra parte esso ha in comune coi socialisti l'insoddisfazione di fronte allo stato attuale di cose e a quanto sancisce esplicitamente od implicitamente, il privilegio di una o più classi sulle altre; ma ne differisce nel ritenere che l'organizzazione socialista, sia nella sua forma collettivista, sia nella sindacalista, nella municipale non meno che nella statale, aggrava invece di sanare i mali che pretende guarire in quanto comprime invece di nutrire e stimolare l'iniziativa individuale, che in nessun paese, per le ragioni già dette, é d'importanza tanto grande come in Inghilterra. Esso non é a priori avverso ad ogni controllo statale o municipale o a gestioni collettive di servizi pubblici o d'industrie, ma ritiene che in linea di massima é sempre possibile ed é preferibile elaborare forme di controllo statale che stimolano ed espandono invece di comprimere l'iniziativa privata e che é possibile correggere le innaturali e nocive ineguaglianze sociali e reclamare alla società e allo Stato, come socii taciti d'ogni impresa, la parte che loro spetta, mediante l'imposta; purché questa non passi i limiti oltre i quali sarebbe indebitamente scoraggiata l'accumulazione di nuovo capitale. E queste considerazioni di massima bastano a spiegare perché i liberali inglesi sono convinti che il loro partito non é come sul continente destinato a sparire schiacciato tra i conservatori e i socialisti. In Inghilterra il liberalismo è una forza reale, perché basato sull'esistenza di una gran parte della popolazione, che non può vivere che dell'esistenza d'un forte e crescente commercio d'esportazione e perché basato sull'esistenza di una classe media numerosa, indipendente dallo Stato e moralmente alimentantesi alle tradizioni severe del puritanismo, pur se non più legata ai dogmi teologici di questo. Il partito liberale é l'espressione politica della parte più numerosa e intraprendente delle classi medie e di molta parte delle operaie, che sarebbero vitalmente danneggiate da un ritorno al protezionismo, non importa se nazionale od imperiale, non meno che da una legislazione socialista che rendesse l'Inghilterra inetta alla concorrenza con le nazioni rivali. Siccome é impossibile il ritorno al protezionismo e siccome in Inghilterra anche più che altrove le resistenze al socialismo sono tenaci e non é possibile che questo riesca in Inghilterra visto che fallì in paesi economicamente e politicamente meno evoluti, la sopravvivenza del liberalismo si può dire certa, per eliminazione delle due altre alternative. Sia il protezionismo sia il socialismo presuppongono società capaci di bastare a sé stesse e quasi stazionarie; laddove l'Inghilterra né basta a sé stessa né è vicina ad essere demograficamente stazionaria; solo il liberismo economico, che é una speciale manifestazione del liberalismo integrale conviene ad una società eminentemente dinamica come l'inglese. L'avvento dei Laburisti al potereL'avvento al potere dei laburisti dopo le ultime elezioni non smentisce ma conferma questa tesi. Strettamente parlando i laburisti - che del resto sono ben lungi dal rappresentare un gruppo omogeneo d'interessi e un credo dogmaticamente socialista - non sono al potere perché non hanno maggioranza indipendente propria; ma solo in ufficio, con l'appoggio dei liberali. I conservatori restano pur ora il partito più forte (258 voti) e bastano da soli a sconfiggere i laburisti (192 voti) se i liberali si astengano dal votare (157). I laburisti non possono governare che nella misura in cui attuano riforme che sono nel programma sia dei liberali che dei laburisti; il momento in cui tentassero serie riforme socialiste sarebbero battuti in Parlamento sia nel paese da liberali e conservatori riuniti. Sono al potere individui professanti idee socialiste, ma le idee socialiste non sono al potere; anzi non ne furono mai tanto lontane. E non é punto certo che anche gli individui vi rimarranno a lungo. In caso di una serie di scioperi in industrie fondamentali, il Governo laburista, che è l'espressione di un partito che dipende finanziariamente dalle Trade Unions, non potrà mantenersi neutrale ed imparziale e difendere eventualmente l'interesse sociale contro quello di una o più categorie di lavoratori che sconfessando queste; e non potrà mostrarsi parziale verso di queste che provocando la coalizione dei voti liberali e conservatori in Parlamento e una eventuale vigorosa reazione a destra del paese nelle future elezioni generali. E ad ogni modo esso non potrà rimanere al potere e compiere una funzione degna dei meri liberali, senza scontentare più presto di quel che si creda l'ala estrema. In un caso come nell'altro una scissione dell'elemento moderato dall'estremo é probabilissimo a non lontana scadenza, col risultato che si fonderà con l'ala sinistra dei liberali, nel mentre l'ala moderata di questi andrà a fecondare il partito conservatore e a rafforzarvi i liberisti contro i protezionisti. I due estremi -l'estrema destra dei duri da morire e l'estrema sinistra rimarrebbero così praticamente neutralizzati e di fatto si ritornerebbe al dualismo tradizionale dei partiti. Questa pare a molti l'ipotesi più probabile. Vi sono però molti altri dell'opinione che almeno per un pezzo occorre rassegnarsi ai tre partiti e che la cosa non é senza i suoi molti vantaggi. Due o tre partiti?Il sistema dei due partiti ha certo il pregio inestimabile di non lasciar libertà di scelta a una Corona che non sapesse essere imparziale; di preparare nello Stato Maggiore dell'opposizione di oggi il Gabinetto di domani, di rendere chiare pel corpo elettorale le differenze di punti di vista tra Ministeriali ed opposizione; di render chiare le responsabilità; di obbligare l'opposizione alla moderazione e alla critica costruttiva col metterle di fronte il rischio d'esser chiamata alla prova; e di educare gli elettori a capire la questione su cui sono eventualmente chiamati a fare da arbitri. Ma questo sistema é, più o meno, la dittatura d'una maggioranza, mantenuta da quella del Gabinetto, spesso a sua volta risolventesi in quella del Primo Ministro, che ha spesso in tasca la minaccia d'un decreto di scioglimento; é un sistema in cui la necessità della disciplina di partito va a scapito dell'indipendenza di carattere e di vedute. Col sistema dei tre partiti, specie se appoggiato alla proporzionale, dovrebbe esser possibile ovviare a questi inconvenienti che sono tollerabili solo come alternative a un governo personale. Non v'è nulla di assurdo nel pensare che sia possibile avere un Governo omogeneo, anche se non di maggioranza, capace di guidare un Parlamento pure non potendo più dominarlo come un padrone. Si supponga ad esempio, un governo laburista che proponga la nazionalizzazione delle miniere di carbone. I liberali possono votare la presa in considerazione del progetto ad hoc, perché condividono coi laburisti la dissoddisfazione con lo stato attuale. Ma poi in terza lettura possono unirsi ai conservatori nel mettere il Governo laburista nel dilemma di rinunciare ad ogni miglioramento se insiste sul suo progetto, che sarebbe bocciato, ovvero d'accettare l'alternativa liberale - ad esempio quella di un acquisto statale delle miniere da affittarsi poi a date condizioni a varie compagnie private - che anche i conservatori sarebbero costretti a preferire alla socialistica. In caso accetti l'alternativa liberale si avrebbe un passo innanzi ottenuto con la cooperazione di tutti. In genere é ovvio che col sistema dei tre partiti la disciplina rimarrebbe necessaria per le questioni di massima, ma in questioni di dettaglio sarebbevi assai più occasione per manifestazioni utili d'iniziativa individuale. L'essenziale sarebbe che da un lato il Gabinetto non si dimettesse per ogni voto ostile ed anzi che esso accettasse in questioni non di principio, i consigli e le iniziative parlamentari; e d'altro lato che l'opposizione non ponesse questioni di fiducia pel gusto di andar al potere invece di altri, sibbene solo quando le proposte o gli atti del Governo sono o paiono vitalmente pericolosi o quando si é certi di poter far meglio. Il sistema dei partiti potrebbe così senza che sia necessario rinunciare al principio dei Gabinetti omogenei, portare a una più effettiva sovranità del Parlamento senza punto portarne a maggiore instabilità. Ogni partito al potere senza maggioranza indipendente sarebbe messo nella necessità di cercar la propria forza e gloria in un programma capace di attirargli i voti or di questo or di quell'altro partito d'opposizione. E le responsabilità e i punti di vista resterebbero per gli elettori, egualmente distinti: il corpo elettorale rimarrebbe l'ultimo arbitro. Ognuno vede come, se esiste, nelle relazioni tra i tre partiti, un codice d'onore in virtù del quale, senza bisogno d'intrighi di corridoio, un partito può contare sui voti d'un altro in virtù dei punti convergenti nei loro programmi e può esser certo che l'altro non gli darà lo sgambetto pel mero gusto di sostituirglisi, - il sistema dei tre partiti può inaugurare una fase più evoluta di regime parlamentale. Alla dittatura delle maggioranze, per quanto liberamente elette, diverrebbe possibile costituire, come base di governo, il consenso libero, attenuatesi alla luce del sole, tra partiti i cui ideali, per quanto divergenti, non escludono punti pratici di convergenza. L'esperimento laburista é importante perché ci dirà se la moralità politica inglese é alta al punto da permettere di superare il sistema dei due partiti senza cadere nel coalizionismo, cioè nei Gabinetti misti e negli intrighi tra gruppi per dividere le spoglie del potere. L'imperialismo della libertàIn ogni caso England - e con questo simbolo indichiamo non solo l'Inghilterra nel senso più ristretto della parola, ma, seguendo l'autorità del Seeley, tutta la mole britannica che dall'impulso organizzatore inglese trasse le sue origini - si erge oggi nel mondo come la più grande espressione storica dello spirito di libertà e come una espressione che dice che questo spirito é più vivo che mai. Dopo avere nel corso di quattro secoli contribuito ad abbattere direttamente o indirettamente tutte le autocrazie militari europee; dopo avere disseminato il mondo di nazioni libere e di libere istituzioni ed aver protetto con la sua talassocrazia l'emergere ad indipendenza pur di tante nazioni rimaste fuor del mondo di lingua inglese, pur oggi essa guida, pur oggi nel mentre accede al Governo dell'Impero il partito che in particolare modo esprime le aspirazioni della classe operaia e che per mezzo di questo accesso lo Stato va diventando anche più che già non fosse quando Burke in parole immortali lo definì "una compartecipazione in ogni arte, scienza e forma di saviezza". Più che mai essa e il mondo nato dal suo seno splendono in fulgido contrasto con un continente devastato da guerre e da rivoluzioni, abitato, tranne che in poche oasi, da popolazioni stanche od imbelli deliziate da dittature di avventurieri più che mai essa splende - dopo Roma che diede al mondo l'unità e l'ordine nella pace imposta dall'alto - come colei che dà al mondo unità ed ordine sulla base della libertà e della responsabilità. La guerra mondiale e la vittoria mondiale sono state più che mai il trionfo dei germi d'ideali da essa disseminati di qua e di là della Manica, di qua e di là dagli Oceani nel corso di molti secoli: sono state il trionfo del principio liberale sull'autocratico e sull'oligarchico, del principio civile sul militare, del servizio che é perfetta libertà sulla mera volontà di potenza ed efficienza, non importa se d'individui, classi o nazioni. Gli stessi nazionalismi ed imperialismi che spiran fuoco e fiamme contro questi principii e, inconsci d'essere la bancarotta della capacità politica dei popoli che li tollerano, se ne proclamano il superamento, sono come minuscoli insetti parassitici formicolanti sulla cresta delle onde di una immensa marea liberale che dura da quattro secoli; che ha testé toccato il suo più alto livello fin qui e nondimento già suscita visioni di nuove altitudini che é necessità attingere o perire! Non istanchiamoci di proclamarla questa grande verità storica recentissima che la guerra fu il fallimento dei principi e dei metodi più cari alla spuria scienza politica del nazionalfascismo e il trionfo dei principii che essi bestemmiano perché sono indegni e incapaci di capirli! Non istanchiamoci di proclamarla perché dall'irritante mal tollerato contrasto rinasca la vergogna e la vergogna renda inutile all'Italia la Nemesi che colpisce coloro cui la vergogna non basta a convertire. Se, per dirla con Schiller, la storia é il giudizio di Dio, essa ha già proclamato che il solo imperialismo che essa e Dio che la dirige consentono é, direttamente o indirettamente, in misura che cresce col ritmo delle valanghe, l'imperialismo della libertà. ANGELO CRESPI.
Bibliografia. Ramsay Muir - A Short History of the British Commonwealth. - Liberalism and industry. - The New Liberalism. Hobhouse - Liberalism. Hearnshand - National self government. Pollard - Parliament: V.IL MOVIMENTO OPERAIOI SindacatiIl movimento operaio più vecchio e potente del mondo sta attraversando una crisi che solo parzialmente é da porsi in relazione colla depressione economica che colpisce l'Inghilterra. Da quattro anni un quinto della classe lavoratrice é disoccupata o occupata con orari ridotti; i quadri delle Unioni sono discesi da più di otto a poco più di cinque milioni; le casse sono esauste dopo i troppo prolungati sussidi. Si aggiunga la lotta che ancora permane tra il vecchio unionismo corporativista specie degli operai specializzati e il nuovo unionismo dei non specializzati; gli attriti e le dispute continue per la "demarcazione", particolarmente gravi in un periodo di trasformazione delle organizzazioni di "mestiere" in organizzazioni di "industria"; le difficoltà per la fusione (amalgamation) di Trade-Unions similari che si impone anche per fronteggiare l'analogo processo che si svolge nel campo padronale. Questi però sono tutti fattori transeunti. Fate che la pressione della crisi si allenti e la molla riscatterà col vigore antico. Invece la più intima crisi che rode il colosso sindacale britannico, e che dai più non é avvertita, é la crisi d'una enorme forza in potenza cui mancano gli strumenti d realizzazione, l'innesto per una azione durevole ed efficace specie sul terreno economico. Sta nei limiti ferrei che il movimento di resistenza incontra in regime capitalistico. Superati i quali, sia pur poco, intervengono quasi automaticamente forze naturali (evasione di capitali, emigrazione d'industrie, introduzione di macchine, disoccupazione, concorrenza...) e artificiali (cioè non propriamente economiche - il fascismo in parte ne costituisce un esempio) a ristabilire il turbato equilibrio. La possibilità di miglioramenti nelle condizioni materiali della classe salariata organizzata che in un primo periodo si dimostrano veramente imponenti dietro lo stimolo della lega, vanno gradatamente riducendosi col perfezionarsi del meccanismo unionistico. La lega conserva, sí, la importantissima funzione di perpetuamente adeguare i salari agli aumentati profitti e costo della vita e sopratutto all'aumentato dividendo nazionale; ma appare invece quasi del tutto impotente a mutare stabilmente la quota relativa a remunerazione del lavoro nei confronti della quota relativa a remunerazione dei possessori di capitale. In una parola: il movimento sindacale difficilmente può incidere in maniera permanente il profitto capitalistico. La lega appare più uno strumento negativo che colle sue stesse mani pone il problema del suo superamento; é una forza sempre più immane cui sembra mancare rebus sic stantibus, l'alimento per una vita rigogliosa. È una sorta di circolo chiuso quello nel quale va cacciandosi in tutti i paesi il moto sindacale, anche perché, coll'estendersi del movimento di organizzazione, i miglioramenti ottenuti vengono talora in buona parte sopportati dalla stessa classe salariata per il noto fenomeno della traslazione. Se il moto sindacale non trova una via d'uscita, non elimina o non supera l'ostacolo che si erge sul suo cammino, finirà per farsi assorbire e sopraffare da quello stesso ordinamento capitalistico contro il quale scese in lotta aperta. A questo punto sorge manifestamente il problema politico. Il movimento di resistenza si allea così coi partiti o crea esso stesso (in Inghilterra col Labour Party) il suo organo politico mentre nel campo economico cerca di sfociare verso lidi vasti, sia attraverso statizzazioni e municipalizzazioni, sia particolarmente attraverso la cooperazione nelle sue varie forme. In Inghilterra assistiamo attualmente al tentativo di innestare il moto sindacale sul cooperativo. Le cooperative di consumoIn Inghilterra la cooperazione di consumo si è andata sviluppando in modo prodigioso, accompagnata da un tale somma di esperienze in ogni campo - giuridico compreso - da meritare ampissimo studio. Notevolissimo quello dei coniugi Webb(1), la notissima coppia intellettuale che metodicamente venne illustrando in più che trent'anni di lavoro la storia, i postulati, le tendenze del mondo del lavoro britannico. I Webb, socialisti fabiani, evoluzionisti spenceriani, ferreamente legati alla realtà passata ed attuale e quindi ribelli ad ogni schema avveniristico che di questa realtà e delle sue lezioni non tenga tutto il conto dovuto ritengono che il socialismo si avrà solo e necessariamente coll'estendersi al massimo della cooperazione di consumo, in uno collo svilupparsi dell'azione dello Statuto e delle Municipalità. Il ragionamento dei Webb é presto riassunto: L'unica, la vera, l'autentica democrazia é la democrazia dei consumatori. Col movimento cooperativo di consumo si provvede un metodo per il quale la produzione, a differenza che in regime capitalistico, non si svolge coll'incentivo del profitto. La eliminazione del profitto o la sua redistribuzione avviene secondo un criterio schiettamente democratico perché si proporziona non alla quota di capitale posseduto, ma all'ammontare delle compere. La Cooperativa di consumo non ha quindi interesse ad aumentare i profitti al di là dello stretto necessario per fronteggiare le contingenze del mercato; per ragioni fisiologiche ha da essere aperta a tutti, tendere anzi perpetuamente ad espandersi lottando contro i trusts capitalistici; é interessata grandemente a che i metodi di produzione, i processi tecnici si perfezionino continuamente. Quel che veramente caratterizza la democrazia dei consumatori é la sua forma volontaria. Il socialismo dei Webb vuol essere di marca liberista. Le Cooperative entrano in concorrenza colle imprese private, colle municipalità, talora anche tra di loro. E in genere nella lotta vincono e ancor più vinceranno perché non avendo alcuna inferiorità in sede economica sono immensamente superiori in sede politica e morale. Ciascuna Cooperativa o gruppo di cooperative organizzerà anche le sue fonti di rifornimento, avrà i suoi centri di produzione attraverso un fenomeno di integrazione non sconosciuto in economia. Si partirebbe dal consumo, tesi cara al Gide, per giungere alla produzione capovolgendo l'attuale processo economico. E già oggi non poche cooperative posseggono aziende agrarie, latterie, manifatture, e quelle all'ingrosso esercitano molti rami di produzione e lo stesso commercio internazionale. Non vi é nulla di utopistico, secondo i Webb, nel prevedere il graduale cooperativizzarsi del mondo, almeno britannico. In nessun ramo si é palesata una reale inferiorità. Questione di tempo e di uomini. Qualche dato: 1879 società (1920) con 4.504.852 soci (9 per cento della popolazione, in genere capifamiglia) con una rendita di circa 25 miliardi di lire italiane con 5600 lire italiane di rendita per membro. Sembra che circa tre settimi delle famiglie inglesi siano socie di cooperative. Grosso modo il movimento fornisce a questi tre settimi la metà delle merci alimentari e un decimo degli altri prodotti. Siamo di fronte cioè a una rete di imprese superiore a tutte le altre esistenti. Quel che appare veramente originale e grandioso é la organizzazione federale facendo capo alle due grandi Cooperative all'ingrosso (Wholesale Society) inglese e scozzese. La loro attività va dal campo della produzione a quello del credito e della distribuzione. Mirabile l'organizzazione dei servizi bancari: il 95 per cento del credito alle cooperative é fornito dalle Cooperative all'ingrosso. Col servizio di assicurazione sulla vita si sono gratuitamente assicurati col dividendo sulle compere quasi tutti i soci delle Cooperative. La Cooperativa all'ingrosso inglese da un capitale di 2.455 sterline nel 1864 con 18.337 soci é salita nel 1922 a un capitale di 45.461.000 sterline e 3.494.400 soci. Possiede manifatture, aziende agrarie, depositi, anche fuori d'Europa ed ha 44.000 persone alle sue dipendenze. Il salariato però non scomparirebbe in un regime a cooperazione universalizzata. Così il problema grave delle relazioni tra consumatori e produttori. Esso si risolverebbe, dicono i Webb, non risolvendosi. Tutti gli appartenenti alla classe salariata (dal direttore all'ultimo avventizio) sono o dovrebbero essere simultaneamente membri delle Società Cooperative come consumatori e delle loro Trade - Unions come produttori. I contrasti certo non si eliminerebbero; già oggi tra le organizzazioni degli impiegati in aziende cooperative e i dirigenti si hanno lotte clamorose, scioperi replicati; le relazioni tra unionisti e cooperatori, malgrado gli organi cuscinetto, non sono delle più facili. Ma, osservano i Webb, è anche vero che le cooperative fanno ai loro impiegati (200.000) le migliori condizioni di impiego del mercato garantendo in molti casi un minimum di salario. Col miglioramento delle condizioni generali molte quistioni spinose si risolveranno automaticamente. Per quasi un secolo, incalzano i nostri Autori rivolgendosi ai loro asprissimi critici, i gildisti, il nostro movimento é stato combattuto, sabotato, quando non del tutto ignorato perché violerebbe i principi fondamentali in una organizzazione socialistica e cioè controllo operaio e in genere autogoverno nell'industria. Ma, per quanto magnifici siano cotesti postulati, novanta anni di esperienze e letteralmente migliaia di tentativi in una mezza dozzina di paesi, in quasi tutte le industrie, hanno dimostrato in modo inequivocabile, qualunque sia la ragione, che la conduzione di una impresa da parte dei produttori comunque organizzati, é una forma impraticabile di organizzazione industriale. Voi chiedete che siano gli stessi dipendenti ad eleggere i loro superiori, parlare di auto-governo, di auto-disciplina. Ma in nessun caso, neppure nelle Unioni e nelle Cooperative, questo sistema ha fatto buona prova. E' una questione di psicologia. Non si sceglie colui al quale si dovrà obbedire. Nella cooperativa di produzione si lavora per il profitto, per il massimo profitto; é un egoismo a basi più larghe dell'attuale che si organizza. La cooperativa di produzione é misoneistica, avversa ai mutamenti, ai perfezionamenti tecnici. In essa si riaffermano lo sfruttamento e la oppressione dei deboli da parte dei lavoratori più abili e specializzati. Tende a chiudersi, ad assumere salariati, a peggiorare le condizioni di lavoro, a non rispettare il minimum di esistenza. L'esperienza ha dimostrato il fiasco della cooperazione di produzione come mezzo di realizzare di un massimo di utilità, e di giustizia sociale. E la spiegazione é ancora una volta semplice e d'indole psicologica: nessuno é buon giudice nel suo caso particolare. Il piccolo gruppo produttore finisce inevitabilmente per vedere l'interesse generale attraverso il suo proprio e particolare. Si accusa il movimento della cooperazione di consumo di non realizzare i postulati democratici. Ma che cosa é più rispondente al principio democratico? Che a guidarlo siano, in concreto, i quattro milioni e più di cooperatori o i duecentomila impiegati? Non esaltiamo poi troppo, dicono i Webb, la figura e l'opera del "produttore". La produzione dei beni e dei servigi, ben lungi dal costituire la base fondamentale della vita sociale, viene e verrà assumendo una importanza ognora decrescente. La democrazia nel campo della produzione é mezzo, non fine. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Si deve tendere ad assicurare ad ogni cittadino non tanto la libertà nella produzione, quanto la più larga libertà e possibilità nella sua vita che per tre quarti si svolge fuori della fabbrica. Abbiamo troppo disprezzato la funzione sociale del consumo. Anch'essa ha un aspetto creativo e positivo. Tutta la organizzazione della comunità dovrebbe essere indirizzata non tanto a produrre i beni quanto a goderli e a farli godere nel modo migliore e più giusto. Con questo roseo epicureismo il sogno cooperativo é compiuto. Lo sforzo di emancipazione operaia é spacciato. La servitù nel mondo economico non scompare, ma si trasforma; servi dell'umanità, non più del privato sfruttatore. E la questione sociale é risolta, la pace assicurata, il socialismo realizzato... Il gildismoIl dissidio tra cooperatori di consumo e di produzione che sembrava ormai risolto col fallimento del cooperativismo di produzione, si è riacceso in questi ultimi anni fortissimo in sede pratica e teorica per opera di un gruppo di giovani, specie intellettuali. (Penty, Orage, Hobson, Cole, ecc.) La scuola gildista, sorta per opera del Penty nel 1907 e contrassegnata da tendenze socialiste utopistiche e piccoli borghesi, s'è venuta profondamente modificando specie per l'influsso del socialismo continentale e del mondo operaio. Concorrono in esse svariate e contradditorie influenze dall'Owen al Ruskin e al Morris, dal Marx al Sorel, diversamente combinate nei singoli scrittori. Ad un estremo ad es.: il Penty, col suo disprezzo pel macchinismo, per la divisione del lavoro, per l'odierna economia a prezzi fluttuanti e a produzione su grande scala, e in sintesi per l'attuale civiltà quantitativa. Vecchi motivi utopistici, vecchi spunti ruskiniani che si volatizzano al contatto colla realtà. In altri scrittori prevalgono invece motivi morali e religiosi. Cervello realista, spirito freddo, equilibrato, dalla educazione marxistica veramente eccezionale in terra inglese, é G. D. H. Cole, di gran lunga il più originale fra i gildisti. La sua critica contro il collettivismo accentratore e la rosea ed anonima democrazia dei consumatori é spietata. Egli ha sentito come pochi altri, potentemente influenzato dal sindacalismo rivoluzionario, che il succo della rivoluzione socialista non sta tanto in un mutamento delle condizioni e dei metodi di distribuzione, quanto nel mutamento dei metodi di produzione e conduzione delle imprese. Attraverso una propaganda decennale é riuscito ad imporre al movimento sindacale, dando una forma concreta alle vaghe per quanto sempre più incalzanti esigenze e aspirazioni delle masse, i due motivi fondamentali di lotta: controllo operaio e autogoverno nell'industria. L'operaio cosa, numero, materia grigia estranea alla vita della fabbrica moderna deve riacquistare in seno alla fabbrica, e non fuori come vogliono i Webb, tutta la sua personalità. Il problema operaio é problema di coscienza di dignità, di libertà. Gli operai stessi non si accontentano più del semplice "miglioramento" economico; il fine che intendono raggiungere colla Trade-Union si allarga, si sposta; vogliono divenire attivi compartecipi della vita della azienda. La simpatia per le gilde medioevali non vuol significare il desiderio di copiare la struttura del mondo corporativo. Ma lo spirito animatore delle gilde medievali dove l'ente e i lavoratori associati in uno coll'opera da compiere erano una cosa sola viva e vibrante dove il principio dell'autogoverno era normalmente praticato, dove non si disprezzavano le esigenze artistiche e qualitative, ecco ciò che il mondo moderno può, deve imparare volgendo lo sguardo al passato. La democrazia dei consumatori é una bubbola, una truffa volgare. Nessuna vera democrazia può basarsi su un elemento indifferenziato e negativo quale é il consumo. Si potrebbero ripetere le caustiche parole del Pareto: Se un legame solidale può instaurarsi tra gli uomini perché consumano, allora un eguale legame solidale può instaurarsi tra gli uomini perché portano vesti, camminano, respirano... La solidarietà, questo mistero psicologico, che di fatto necessita per affermarsi d'essere diretta contro qualcuno o qualche cosa, é tanto più forte quanto più ristretto, anche numericamente, é l'ambito nel quale si palesa e più vivaci, possenti, positivi sono gli interessi dai quali scaturisce. Non sappiamo che farcene, dicono i gildisti riprendendo e realizzando il concetto soreliano di produttore, di una pseudo democrazia basata sulla massa grigia ed assenteista dei consumatori dove, per il solo fatto del consumo, l'Imperatore di tutte le Indie può teoricamente esser socio nella medesima cooperativa coll'ultimo disgraziato di East End. Non sappiano che farcene di un mutamento sociale che elimini il padrone singolo, l'imprenditore privato, per regalarci il padrone collettivo, sia esso Stato, Comune, Cooperativa. La guerra colla onnipotenza della burocrazia statale ce lo ha dimostrato a sufficienza. Il problema delle ineguaglianze nella distribuzione é certo importantissimo; ma se per risolvere quello occorre riaffermare in eterno la schiavitù del produttore, é preferibile, almeno in un primo tempo, un sistema per cui la direzione e il controllo dell'industria vengano esercitate cumulativamente da operai e imprenditori. Potere e responsabilità nel campo della produzione hanno da essere dei produttori. La forma attuale di democrazia poggiata sul suffragio universale, pur avendo una indubbia funzione, non provvede agli affari della comunità in base al positivo volere dei suoi membri. Il suffragio universale, come diceva tra noi il Salvemini, é più una forza negativa. Il potere economico, precede il politico. Finché nella organizzazione economica domina l'autocrazia, la casta, la divisione in classi, non si può parlare di vera democrazia. Lo Stato (altro motivo sindacalista-marxista) va distrutto o grandemente mutilato. Esso é oggi il comitato di affari della classe dominante. Col cadere del privilegio economico e col libero riorganizzarsi della produzione per opera di gruppi autonomi federali di produttori, avremo non più uno, ma due, ma più Stati. Ogni associazione sostanzialmente é Stato. La trasformazione dovrà poggiare sul sindacato. Oggi il moto sindacale é estraneo alla conduzione delle industrie, può imporre solo proibizioni. Dovrebbe interessarsi del lato positivo, reclamare il diritto di regolare l'assunzione e il licenziamento della mano d'opera, partecipare almeno in parte alla direzione e al controllo delle imprese, imporre il diritto di elezione o comunque di scelta dei sorveglianti da parte degli interessati. Per ogni funzione che richiede una cooperazione di volontà come tipicamente segue nel mondo industriale moderno, occorre che il dirigente immediato sia imposto dal basso. Certo l'evoluzione in questo campo sarà lentissima, perché gli operai furono purtroppo abituati a considerare coloro che detengono l'autorità nella industria capitalistica come i loro naturali nemici, e non possono, di un tratto, mutare i loro costumi... I gildisti si rendono perfettamente conto della lentezza del processo di realizzazione specie per quanto ha riguardo al lato morale. Mentre il socialismo di stato, come ben dice il Bauer, é sempre possibile a qualunque grado di sviluppo sia arrivata la massa dei lavoratori, un socialismo invece che debba avere per base il "self governing workshop", cioè l'autodirezione delle aziende, é possibile solo quando la classe lavoratrice, con la progressiva estensione dei suoi controlli sull'industria, abbia già acquistata la capacità intellettuale e morale, che é premessa necessaria alla direzione industriale indipendente. Sarebbe quindi erroneo voler affrettatamente concludere sulla base delle recenti esperienze, per ora non troppo felici. L'unità economica elementare é la gilda. È si, una cooperativa di produzione, ma a base nazionale federata con tutte le altre gilde ed emanazione della rispettiva organizzazione sindacale. Non deve tendere al conseguimento dei profitti, ma produrre sulla base del costo avendo speciale riguardo alla qualità dei prodotti: realizzando la più stretta intimità fra lavoratori manuali e tecnici ed organizzandosi nel modo più democratico. Il salario ha da essere commisurato ai bisogni dell'esistenza, s'intende entro certi limiti, e sopratutto avere carattere di continuità. La Gilda deve garantire sempre, in ogni eventualità (malattia, disoccupazione) i mezzi di sussistenza. Nell'amministrazione interna la Gilda sarebbe libera dalla ingerenza di altri organi, Stato compreso. Ma allorquando entra in rapporti con alti enti, allorquando si tratta di indirizzare la produzione e di stabilire i prezzi delle merci, la decisione spetterebbe ad un Comitato misto dove, oltre ai rappresentanti della Gilda, siederebbero i rappresentanti degli interessi generali (Stato, municipalità, cooperativa di Consumo). lo Stato, in un regime gildista., sarebbe solo nominalmente il proprietario di tutti i beni delle Gilde. Grandi differenze quindi dalle nostre cooperative di produzione non appaiano, salvo per quanto ha riguardo alla maggiore vastità dell'organismo, e come vedremo, alla struttura interna della Gilda. Le prime esperienze che si sono avute in Inghilterra tra il 21' e il 23' non furono sempre fortunate, e seguirono in uno degli ambienti più conservatori dell'unionismo inglese ed economicamente arretrato, cioè nella industria edilizia dove le necessità di capitale sono minori e più facile era ottenere lavoro specie dagli enti pubblici e cooperativi per la crisi degli alloggi Ciascuna gilda é retta da un comitato di gilda composto dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali degli operai e tecnici della industria edile della regione. E' una sorta di consiglio di amministrazione cui spettano la nomina dei dirigenti e la direzione dell'impresa. Può suddividersi in sottocomitati per le varie questioni ed in questi una metà dei posti é riservata ai delegati dei lavoratori impiegati nella gilda. Abbiamo inoltre il comitato di fabbrica o consiglio di azienda eletto dagli operai di ogni gilda con funzioni tecnico-disciplinari e al quale spetta la nomina dei sorveglianti. In pratica nei primi tempi questo dualismo nella direzione fu assai dannoso e si palesò fonte di discussioni e di crisi. Si volle assurdamente rinunciare dapprima ad ogni capitale di esercizio ritenendo che fosse sufficiente ottenere anticipi settimanali dai clienti. Col risultato di far sorgere le gilde come funghi, senza conveniente preparazione. Solo più tardi, nel '22, fu sottoscritto dal Sindacato degli Edili un prestito di 150 mila sterline. Nel frattempo si costituirono organismi federali. La National Bilding Guild cui facevano capo circa 140 gilde edilizie e un Consiglio Nazionale. La depressione economica fu la causa più che altro occasionale della crisi che nel dicembre 1922 condusse al fallimento molte gilde, compresa la National Bilding Guild. Mancò in molti casi una sufficiente preparazione morale, difettarono per errore teorico i capitali, ci si volle tenere troppo aderenti allo schema ideale. Talora anche dal lato disciplinare e direzione tecnica i risultati non furono brillanti. Il dualismo tra il Comitato di Gilda ed il Comitato di fabbrica fu assai dannoso; il secondo voleva intervenire in ogni questione anche tecnica. Salvo casi rarissimi sul mercato libero fu impossibile sostenere la concorrenza. Non é detto davvero che il semi-fiasco sia definitivo. Molti errori si eviteranno per l'avvenire. Le Gilde ancora in piedi hanno mutato i sistemi di conduzione. Intanto i postulati gildisti e sopratutto lo spirito con cui i gildisti guardano al problema operaio hanno profondamente permeato il mondo unionistico britannico. Ad esempio la Federazione Minatori che prima della guerra chiedeva la nazionalizzazione e l'amministrazione statale dopo le esperienze belliche, presentò nel'19 alla Coal Industry Commission uno schema di nazionalizzazione schiettamente gildista. L'idea del controllo e della condirezione nella industria che specie nel periodo bellico si diffuse grandemente indubbiamente tornerà sulle scene appena superata la crisi attuale. Altra proposta gildista che ha avuto sinora parziali applicazioni é la stipulazione di contratti collettivi tra Trade-Unions e imprenditore per la fornitura della mano d'opera necessaria già inquadrata, sorveglianti compresi; così che l'imprenditore remunererebbe non più il singolo operaio ma il sindacato che penserebbe poi alla redistribuzione. Queste due opposte concezioni del divenire socialistico che si sono venute drammaticamente scontrando in Inghilterra meritano più ampio studio e col presente ho inteso quasi esclusivamente limitarmi alla parte informativa. L'esperienza inglese non ha favorito per ora i primi accenni ad un movimento di cooperazione nel campo della produzione che, partendo dal sindacato professionale, evitasse gli errori e gli egoismi di molte cooperative di produzione. In Germania, i risultati delle gilde edili sono assai più confortanti. Sta poi di fatto che il movimento cooperativo di consumo, anche universalizzandosi come predicono i Webb, non può risolvere quello che si avvia ad essere nei paesi più evoluti il problema fondamentale, il problema della emancipazione operaia. La cooperazione di consumo non elimina il salariato, né gli scioperi, né gli urti di categoria. In questo contrasto tra una aspirazione di libertà e di autogoverno rispondente alle esigenze di masse sempre più vaste di lavoratori e una realtà che non ne permette almeno per ora in Inghilterra una rapida concretazione, sta la vera crisi del mondo del lavoro britannico e la sorgente delle lotte future. Il circolo vizioso non si spezza colla cooperazione di consumo, né sembra per ora superabile coi metodi gildisti. Né si supera con una spallata rivoluzionaria che non può mutare l'ambiente economico. Solo l'esperienza, liberamente attuata, coi suoi risultati magari dapprima dolorosi e negativi, potrà indicarci la via nuova negli anni a venire. C. R.
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