Elegia per il CaliffoDopo il Sultano, il Califfo: la nuova "Turchia laica" di Kemal e di Ismet non lascia tregua ai suoi vecchi Osmanli, né alle loro lustre secolari: e li espelle senza pietà, dopo una ironica petizione di grazia del vincitore del Sangarios. La Grande Assemblea di Angora dichiara abolito, addirittura, il Califfato: Costantinopoli decade dalla sua pretesa e contesa dignità di centro religioso dell'Islam. Grande soddisfazione generale: il giornalismo europeo si dedica a scoprire ritratti inverosimili dell'ultimo Califfo e a celebrare la laicizzazione della Turchia. Anche della Turchia, pensate! Segno evidente, indiscutibile, che "il mondo va a sinistra". E gli orientalisti trovano modo, una volta tanto, di farsi intervistare. Probabilmente, se Mustafà Kemal si curasse tanto così delle chiacchiere occidentali, concederebbe subito una intervista anche lui per mettere un po' a posto, a modo suo, queste deduzioni inconsulte. Perché, passando i poteri religiosi nelle mani della Grande Assemblea diventerà Kemal il Califfo di fatto, e domani forse anche di nome e di diritto. La folla di Stambul e i guerrieri d'Anatolia non si rassegnano a diventare laici, checché ne pensi il Journal des Débats. Squarciato questo velame di illusioni ottiche, la cacciata di Abdul Megid rivela una sostanza seria, e in due modi: come problema politico, e come problema, anziché laico, religioso. La sua ragione immediata é infatti nel sospetto, e provato sospetto, che il Califfo mirasse a ripristinare nella propria persona, il principato sultanico: o almeno si lasciasse toccare da un venticello d'intrigo londinese. Tanto é vero che la Inghilterra, sfuggitole di mano questo nuovo uncino con cui cercava di manovrare le cose turche, ha subito fatto riunire i suoi vari Emiri a mezzo stipendio per combinare la proclamazione a Califfo del bene amato re dell'Hegiaz, sceicco della Mecca. E tra Francia e Inghilterra nasce intanto una nobil contesa a chi ospiterà gli Osmanli banditi. La Grande Assemblea ha voluto, evidentemente, lasciare con un palmo di naso i diplomatici di Saint James e del Quay d'Orsay, che hanno sempre avuto troppa fame di pseudo-pontefici al loro servizio. Se c'è un punto debole nella politica mussulmana della Corte di San Giacomo é proprio questo: l'aver creduto, e il credere ostinatamente, di dominare l'Islam tenendo in pugno il suo capo religioso, o almeno un capo religioso; e il pensare, anche, sul serio alla legittimità e all'efficacia spirituale di un capo siffatto. In realtà, i veri puntelli della domination britannica in Asia Minore sono i suoi generali di scuola indiana: tipo Allenby, tipo Townsend; sono le truppe, gli aereoplani, le navi, il denaro; é, sopratutto, il suo elemento coloniale, tipo Pengiab. Se i vari Emiri e Califfi sembrano aiutarla a tenere a posto le zone grigie dell'Islam, l'aiuto é più apparente che reale. L'Islam si libera di un Califfo molto facilmente: e ne tiene il conto che crede. Ma il Califfo non é affatto un capo spirituale: la cacciata o la sostituzione di un Califfo non significano un'affermazione di supremazia laica sul potere religioso: tanto meno l'elettività politica o l'abolizione del Califfato significano laicità. È vero che Califfo vuol dire "successore" - e precisamente successore di Maometto; -ma in tutt'altro senso del nostro "successore di Pietro". Il Califfo é un capo politico e rudemente (non "squisitamente") politico: é colui che agita al vento la bandiera del Profeta nel giorno della guerra santa, colui che impugna la spada per estendere il nome del Dio dei credenti sulla terra. La "squisitezza" bisogna cercarla nell'accorto giuoco degli Osmanli che da mezzo secolo, - essi son discendenti della tribù del Profeta, essi non riconosciuti quindi Califfi legittimi, essi infine ben lontani, anche se Califfi, dal guidare il cammino della fede, - si son lasciati credere da noi qualche cosa di simile al Papa, sfruttando il valore religioso di cui si cingeva la loro potenza il movimento panislamico degli ultimi tempi. E noi abbiamo abboccato all'amo. Dunque, il Califfo non é pontefice: é semplicemente, o dovrebbe essere, il rappresentante pratico e secolare della fede e della dottrina che parlano per bocca degli sceicchi e degli ulema. Né la pluralità dei Califfi ha mai coinciso con le divisioni religiose: il nazionalismo persiano poteva, anche recentemente, riconoscere il Califfato di Stambul, sunnita, senza per questo rinunciare alla propria scismaticità, sciita. Perché la concezione semitica della religione non ammette pontefici, ma solo supremi sacerdoti: la vera autorità risiede per essa nella legge, talmudica o goranica, e nei suoi interpreti, mistici o razionalisti. Secondo i loro detti crede e opera l'Islam: agisce secondo il comando del Califfo. Ma questo agire non é, necessariamente, legato a una autorità sola; né riconoscere il Califfo è una condizione d'ortodossia. I Califfi possono moltiplicarsi, cadere risorgere: la loro fortuna islamica dipende dalla loro coincidenza con la volontà dei credenti, con i decreti del Signore, di cui essi sono soltanto il veicolo guerriero. Ma Kemal giustifica l'illusione laicistica parlando e legiferando di democrazia, di progresso, di spirito moderno: presentando agli occhi attoniti dell'Occidente come un fatto "occidentale" il passaggio nelle sue mani della direzione di affari del Califfato, o, che fa lo stesso, della dignità di Califfo. Egli soddisfa così ad un tempo gli "Aufklärer" dell'Assemblea, che vogliono laicizzare, e il popolo che ha bisogno di un successore del Profeta. Tanto più che é altrettanto illegittimo il califfato di Kemal quanto quello di Abdul Megid, e quindi, politicamente, dello stesso peso. Perché mai questa illegittimità sia stata e possa essere così poco sentita, si capisce subito pensando che i Turchi sono nell'Islam: adventicii: la loro diversità di razza impedisce loro di sentire il sapore nascosto delle generazioni di Abramo, di percepire il valore autentico delle toledoth Israel e della contrapposta discendenza ismaelitica da cui uscì il Profeta e a cui dovrebbero riattaccarsi i veri Califfi. Hanno sentito, i Turchi, come già i Tartari, lo spirito eroico dell'Islam, non la sua aristocrazia religiosa; sono fanatici, e non tradizionalisti; non sono semiti. S'intende così il dualismo di Kemal che s'abbassa tosto a un debole politicismo, data la "moderna" coscienza dello stratega: da una parte egli, e con lui la sua accolta di deputati e di generali, dà inconsapevolmente corso allo spirito anticoranico della sua razza disprezzando e disconoscendo la sostanza intima della tradizione; e dall'altra incarna in sé una volta di più il "Vittorioso", il "Signore eccelso" di cui sempre é vissuta la monarcomane ed eroicomane coscienza turca. Fin qui, Kemal non sarebbe che, in un senso e nell'altro, se non il nuovo dinaste che invece di far sgozzare i vecchi principi infraciditi, si é limitato (e avrebbe, nell'ipotesi, fatto male) a cacciarli. Il guaio si è che, per un rispetto, si sostituisce all'illegittimismo l'illuminismo; per l'altro, Kemal non accetta decorosamente la situazione che si é creata, e vuol essere, a un tempo, il Ghazi e il Vizir, cioè il Sultano senza serraglio, o peggio il Sultano custode del Serraglio: magra e insufficiente figura. I kemalisti, del resto, si avviluppano sempre più in una rete di insipienza. Finché erano nazionalisti, col vantaggio sui Giovani Turchi di una guerra fortunata, potevamo sorridere di indulgenza; ma da quando si sono proclamati democratici, dubitiamo forte della loro serietà. Non ricordano più che la costituzione del 1909 trovò la Turchia, non impreparata più di altri popoli neo-costituzionali, ma ostile; che non si trovavano allora nemmeno candidati al parlamento, né poi, eletto il parlamento, deputati di opposizione. Non s'accorgono che l'Islam é sordo ai loro programmi, e plaude ai loro trionfi solo perché spera di tornar a tenere i Turchi come otto secoli fa, qual truppa di avanguardia; perché l'Islam non é ad Angora ma nell'Indo, tra gli Afgani, nei deserti arabici e libici, dall'Aga-Khan al Senusso. Non sentono che finiranno per straniarsi dalla lor gente medesima, o dovranno dare un calcio agli Statuti e alle libertà occidentali per identificarsi, se saranno in tempo, con le fortune dell'orda di Sebaste, il cui capo vide nascere dal suo cuore un albero eterno. Visto che non é possibile, né degno d'augurio, che dalla Turchia venga fuori una specie di secondo Giappone; visto che anche in Giappone la democrazia non alligna. Avrete del resto l'intuizione di quello che sarà tutto il kemalismo politico se pensate un momento solo alla fisionomia di Ismet e alla sua diplomazia di Losanna. Ismet sottile e impassibile sotto la veste del gentleman europeo, di fronte all'altezzosità di Lord Curzon: tutte le carte dell'occidentalismo, della World-policy, dei trattati e delle garanzie, giocate con sapienza orientale e con tenacia turanica contro il dogmatismo e l'imperialismo europeo. La Turchia di Kemal é la macchina d'approccio dell'Islam: le sue carte democratiche sono la torre coperta di pelli che si accosta alle mura nemiche. O Kemal sa questo, ed é pronto a dar fuoco alla torre una volta arrivato sotto: o Kemal prende le sue pelli per loriche di buon acciaio, e allora cadrà lui prima della sua stessa torre. La Turchia é in questo momento, alle spalle di Kemal, come un Ismet dai centomila cuori: ha trovato passabili le vecchie storie dell'Unione e Progresso, e le giuoca come una buona carta; l'Islam alle spalle della Turchia, giuoca a sua volta la Turchia come una carta utile e conveniente. Ma lasciate che dalla brace scottante si alzino le fiamme, e sarà fatta piazza pulita degli estremisti democratici, delle donne infermiere e propagandiste, della modern fashion che fa andare in solluchero i molti militi dell'esercito della Salute europea propinata all'Oriente. Allah lascia vivere i nazionalisti, i laicisti, i modernisti, perché infinite sono le strade della sua sapienza: ma un giorno sarà, che il Califfo figlio di Qoreisc' levi ancora la spada contro di noi. E allora tenteremo invano di ravvisare la bene amata "Turchia laica". SANTINO CARAMELLA.
|