FASCISMO E ASSICURAZIONI SOCIALI

La Relazione Insolera

    Il prof. Insolera ha pubblicato nella Riforma sociale del settembre-ottobre 1923, sotto il titolo "Linee di una nuova politica delle assicurazioni sociali", uno studio che, come avverte l'autore, "riproduce sostanzialmente concetti e proposte di una relazione dettata per i gruppi nazionali fascisti di competenza". Converrà esaminare ad una ad una le sue proposte più importanti.

L'obbligatorietà per i soli organizzati

    Anche l'Insolera accoglie il principio concordemente ammesso da quasi tutti gli Stati moderni, dell'intervento in materia di legislazione sociale dello Stato che, in omaggio ad esigenze etiche ed economiche, impone coattivamente l'onere di premii di assicurazione sui lavoratori e sui datori di lavoro e disciplina ed organizza il complesso congegno assicurativo. Egli aggiunge però che "il principio di obbligatorietà in tanto sia transitoriamente da accogliere in quanto valga a sancire anzitutto la necessità che siano i lavoratori stessi, per i primi, a riconoscere che hanno il dovere di provvedere in qualche modo a fronteggiare i rischi cui sono soggetti"; in omaggio a questo suo convincimento propone di abolire il vincolo della obbligatorietà personale ed in sua vece "di statuire la obbligatorietà solo in confronto delle organizzazioni di mestiere, delle corporazioni, dei sindacati".

    Ora mi si consenta opporre il seguente dilemma: o si ammette e si giustifica l'obbligatorietà dell'assicurazione in quanto la classe lavoratrice e per deficienze etiche e per instabilità economica non può esercitare la necessaria opera di previdenza - e tale verità é confermata dalle statistiche economiche delle classi popolari e del pauperismo - ed allora debbono accettarsene in toto le necessarie conseguenze; ovvero i lavoratori "riconoscono il dovere di provveder in qualche modo a fronteggiare i rischi cui sono soggetti", ed allora l'obbligatorietà, repugnante ad un atto essenzialmente spontaneo quale è la previdenza ove non intervengano imprescindibili esigenze, non ha ragione d'essere.





    Tertium non datur: la semi-obbligatorietà caldeggiata dall'Insolera, mentre non "evita di ricadere nel nullismo della vecchia assicurazione facoltativa", d'altra parte é assolutamente superflua, anzi dannosa per la ristretta élite operaia organizzata cui l'autore vorrebbe limitare l'obbligatorietà dell'assicurazione.

    Infatti é noto come l'organizzazione di mestiere in una nazione industrialmente arretrata come l'Italia sia ancora molto debole, eccezione fatta per il Settentrione. Imponendo quindi mediatamente l'obbligatorietà ai soli lavoratori organizzati in sindacati e corporazioni, la assicurazione verrebbe a perdere tutta la sua efficacia economica e sociale in quanto sarebbero esclusi dai suoi quadri i non organizzati e cioè quasi tutti i salariati dell'Italia centrale, meridionale ed insulare e l'ingente esercito dei lavoratori non qualificati (unskilled) del Settentrione.

    Forse l'autore nel suggerire tale innovazione si illude che i benefici dell'assicurazione, circoscritti alle sole organizzazioni di mestiere, possano costituire per i non organizzati un allettamento tale da invogliarli a federarsi in sindacati e corporazioni e da suscitare la generalizzazione e diffusione dell'organizzazione professionale.

    Senonché i benefizi dell'assicurazione sociale - ne é dolorosa conferma l'esperienza - esercitano una minima attrattiva per le classi lavoratrici, mentre gli oneri che ne derivano costituirebbero probabilmente un efficacissimo deterrente per molti operai "organizzabili" contro la formazione di organizzazioni di mestiere. Unica causa genetica delle organizzazioni professionali è la grande industria e, ove questa manchi, non vi é lusinga di assicurazione che valga.

    In effetti beneficierebbe quindi dell'assicurazione sociale obbligatoria soltanto quella eletta aristocrazia del lavoro che mercé la ferrea fruttuosa organizzazione e la preziosa capacità lavorativa ha raggiunto uno "standard of living" molto elevato, gode di alti salarii e può quindi benissimo volontariamente prelevare dal largo margine del salario la quota necessaria per l'esercizio della previdenza.





    Ed in realtà la storia economica ci insegna che in Inghilterra, molto prima dell'introduzione dell'assicurazione obbligatoria e cioè sin dal 1848, le Friendly Societies e le Trade-Unions (per citare una delle prime, la "Book Printer's Association") organizzarono con lusinghiero successo l'assicurazione volontaria contro gli infortunii, la malattia e l'invalidità e come su questa via siano state seguite dalle associazioni mutualistiche e dalle organizzazioni di mestiere di Germania, tanto da dover essere queste disciplinate da una legge del 1876 che le distinse in "registrate" e "libere" stabilendo per le prime speciali privilegi ed esenzioni.

    Ed in Italia la migliore organizzazione esistente, quella dei grafici, riesce agevolmente a prelevare dai suoi federati ben retribuiti, evoluti e previdenti, notevoli quote sociali per garantir loro sussidii elevati in caso di disoccupazione involontaria e di sciopero. Anche la Cassa professionale degli operai edili del Piemonte, sino a poco tempo fa, esigeva per volontaria determinazione degli iscritti un maggior contributo assicurativo e corrispondeva conseguentemente in caso di disoccupazione una notevole maggiorazione al sussidio corrisposto dall'assicurazione obbligatoria.

    In conclusione verrebbe riconosciuta la necessità dell'intervento statale proprio quando questo anziché necessario sarebbe dannoso in quanto soffocherebbe lo spirito della previdenza, il gioco fecondo della libera iniziativa.

La partecipazione dello Stato

    Per contro merita incondizionata approvazione l'asserto che "lo Stato non abbia, normalmente, ad intervenire altro che per disciplinare le modalità e la valutazione quantitativa" degli oneri assicurativi dei lavoratori e dei datori di lavoro senza parteciparvi finanziariamente.

    Ed il mio pieno consenso é giustificato non solo dalla considerazione pratica della minima utilità delle 100 lire annue di maggiorazione concesse dallo Stato Italiano per ogni pensione liquidata e dalla legittima ed encomiabile preoccupazione finanziaria di non gravare eccessivamente e con trascurabili risultati il bilancio dello Stato - come giustamente rileva l'Insolera - ma sopratutto deriva da ragioni etiche ed economiche di maggior portata.





    Il preteso finanziamento dello Stato infatti, come osserva il Loria, é sovente illusorio perché il contributo statale quasi sempre viene a gravare o direttamente sotto forma di imposte o indirettamente mediante dazii sui prodotti di consumo popolare sulle stesse classi lavoratrici apparentemente beneficate.

    Inoltre l'intervento finanziario dello Stato nuoce e contravviene ai principii che informano la previdenza e la mutualità in quanto da tale contribuzione statale non può disgiungersi quel carattere di graziosa elargizione, di carità legale, tanto deprimenti per la dignità del lavoro.

    Le assicurazioni sociali possono benissimo prosperare senza sovvenzioni statali, ne offrono ampia conferma le statistiche; lo Stato per conseguenza non deve intervenire finanziariamente nelle istituzioni previdenziali ma esclusivamente sancirne l'obbligatorietà, organizzarne ed invigilarne il retto funzionamento nell'interesse della collettività.

Assicurazione contro la disoccupazione

    Dell'assicurazione contro la disoccupazione l'Insolera propone la soppressione ritenendo il fenomeno della disoccupazione "avulso da un razionale trattamento tecnico" e non suscettibile quindi di una proficua organizzazione assicurativa.

    Riconosco che tale forma di assicurazione sociale presenta gravi difficoltà di ordine economico ed attuariale a causa delle profonde, instabili oscillazioni del rischio e della assoluta insufficienza e difformità delle statistiche raccolte in materia; ma mi sembra eccessivo inferirne una così draconiana determinazione.

    Non credo ad esempio sufficientemente probatoria la constatazione che l'assicurazione contro la disoccupazione si dimostri sistematicamente impotente a soccorrere la marea travolgente di disoccupati creata dalle periodiche depressioni economiche; in tali tragiche evenienze - si oppone - l'intervento finanziario dello stato è sempre reso necessario dalla insufficienza dei benefici assicurativi.





    Così ragionando, analoghe catastrofiche illazioni si potrebbero a mio avviso trarre dalla constatazione che nessun Istituto pubblico o privato d'assicurazione sulla vita o contro la malattia, l'infortunio e l'invalidità potrebbe adempiere le obbligazioni contratte verso i proprii assicurati nella eventualità di un terremoto o di una diffusa epidemia, ove venisse meno in questi casi il finanziamento dello Stato.

    Si potrebbe obbiettare che, mentre un terremoto od una epidemia sono contingenze del tutto eccezionali, le grandi crisi economiche hanno una ricorrenza ciclica che, secondo le statistiche, oscilla da sette a quindici anni.

    Tuttavia la minore eccezionalità dell'evento credo non possa eccessivamente pregiudicare ed eliminare l'utilità di una istituzione previdenziale che ha il compito precipuo di garantire il rischio "normale" di disoccupazione, derivante necessariamente dalle esigenze dell'organizzazione economica attuale.

    "Il sistema dell'industria moderna - afferma Carlo Booth - non può funzionare senza un margine di disoccupazione, senza una riserva di lavoro".

    Questo margine normale di senza-lavoro, tutt'altro che trascurabile, questa non esigua "armata di riserva richiesta dalle esigenze della economia capitalistica, l'assicurazione contro lo disoccupazione deve e può tutelare.

    Non é detto inoltre che l'istituto assicuratore non possa con saggia opera di previdenza accantonare ingenti riserve da utilizzare in caso di crisi, onde alleggerire notevolmente i gravissimi oneri finanziarii sinora addossati esclusivamente allo Stato in tali eccezionali frangenti.

    Certo l'insufficienza e l'inorganicità del materiale statistico necessario per graduare le categorie professionali secondo i diversi coefficienti di rischio e per adeguarvi i premi di assicurazione, le gravi difficoltà di disciplinare l'indennizzo per disoccupazione stagionale, la disorganizzazione dei servizii del collocamento, cui spetta il compito di ridurre il rischio di disoccupazione, costituiscono ostacoli non lievi per la gestione dell'assicurazione contro la disoccupazione.





    Tuttavia una sapiente organizzazione del mercato del lavoro, quale ad esempio vanta l'Inghilterra, e la raccolta, il riordinamento e la elaborazione dei necessari dati statistici, se costituiscono una condizione essenziale per il vantaggioso esercizio dell'assicurazione contro la disoccupazione, da questa, per necessario, confermato riflesso, ricevono vigoroso impulso.

    Agli accennati inconvenienti si potrà quindi benissimo ovviare non procedendo ad una esecuzione sommaria, ma perfezionando ed emendando l'attuale organizzazione assicurativa.

Assicurazione contro la malattia

    Invece l'Insolera sarebbe favorevole all'introduzione dell'assicurazione contro la malattia. Il sussidio obbligatorio però, a suo parere, dovrebbe essere "minimo, così che, oltre a non raggiungere il salario, non abbia a superare in nessun caso l'equivalente giornaliero della pensione di invalidità".

    Per quanto mi sia lambiccato il cervello, non mi é stato possibile comprendere in base a quali motivi l'Insolera proponga che il sussidio di malattia "non abbia a superare in nessun caso l'equivalente giornaliero della pensione di invalidità"; al contrario mi sembra logica per evidenti considerazioni una conclusione opposta.

    Infatti il beneficiario della pensione di invalidità deve essere, secondo le norme sancite, permanentemente ed assolutamente invalido al lavoro e quindi, data la sua esistenza sedentaria ed inoperosa, può condurre un tenore di vita di molto inferiore a quello del lavoratore pienamente valido che, inabilitato al lavoro da una affezione morbosa transitoria, non solo deve provvedere alle spese mediche, ma ancora curare la sollecita, soddisfacente reintegrazione della sua energia produttrice onde rioccupare in prospere condizioni il suo posto di lavoro.

    A rigor di logica ne consegue che il lavoratore ammalato debba beneficiare di prestazioni superiori e non inferiori a quelle dell'invalido: é questo non solo un interesse individuale, immediato dell'assicurato, ma precipuamente un interesse collettivo mediato in quanto mira a tutelare le forze produttive della Nazione.





    Passando a discorrere dell'estensione della massa assicurabile, l'Insolea vorrebbe restringerne i confini, limitando la sfera d'azione delle assicurazioni sociali "stricto sensu" ai soli lavoratori manuali con precario contratto di lavoro ed escludendo invece gli impiegati ed i lavoratori intellettuali che "hanno, per abitudini, attitudini e lunga scadenza del contratto d'impiego, molti punti di comune con la categoria degli impiegati statali" e per i quali si propone l'adozione di speciali provvidenze analoghe a quelle dei dipendenti dello Stato, previa una razionale riforma del sistema di indennità e di pensioni attualmente vigente.

    Nei riguardi dei lavoratori manuali l'Insolera vorrebbe anzitutto semplificare il congegno finanziario dell'edificio assicurativo mediante la abolizione delle classi salariali di contributo e delle indennità variabili e la conseguente riduzione delle prestazioni ad una unica misura minima "limitatamente alle maggiori, più impellenti necessità della vita.

    Ora é lecito chiedersi: in base a quale criterio é possibile valutare una entità così vaga, oscillante, variabilissima, quale é il "minimo" necessario a soddisfare le maggiori, più impellenti necessità della vita?

    Lo "standard of living" della classe operaia varia notevolmente a seconda che si consideri l'operaio specializzato della grande industria o il manovale "unskilled" di una primitiva officina di provincia, il tipografo linotypista o il minatore delle zolfare siciliane.

    Quali di questi molteplici "standards of living" dovrà essere assunto a base per la determinazione del "minimo necessario" di indennità?

    La misura di pensione unica "normale", proposta a titolo di esemplificazione finanziaria dal relatore in L. 720 annue, cioè 30 lire alla quindicina, se per un salariato che guadagni quindicinalmente 70-80 lire potrà essere considerato a stento sufficiente a soddisfare le elementari necessità dell'alimentazione, per un operaio specializzato che goda di un salario quindicinale di 400-500 lire costituirà invece, dato il suo normale tenore di vita, la miseria più assoluta ed una antipatica irrisione.

    Per le suesposte considerazioni é ingiusta, oltreché inesplicabile, la misura unica minima di indennità; la variabilità delle pensioni e dei sussidi, proporzionati ai salarti medii guadagnati è una esigenza economica oltre a costituire un giusto provvedimento di equità distributiva.

STEFANO GIUA.