LA VANDEA D'ITALIALe difficoltà elettorali del Fascismo nel Mezzogiorno d'Italia hanno richiamata l'attenzione degli scrittori di cose politiche sul perché le nostre contrade resistono così accanitamente alla permeazione delle varie correnti ideologiche che, nate nella Valle Padana - cioè in una regione ove il capitalismo ha già fatto i primi passi -pretendono allargarsi nel rimanente d'Italia ancora in una fase pre-capitalistica. Secondo il sen. O. Malagodi (La Tribuna, 7 corrente), i critici della questione meridionale mordono nella realtà quando attribuiscono la mancanza di penetrazione delle grandi correnti politiche contemporanee nella Vandea d'Italia - così come un appellativo socialista viene tutt'ora indicato il Mezzogiorno d'Italia -- al predominio del personalismo "sentimentale o interessato, e conseguente provincialismo o campanilismi". E maggiormente mordono nella realtà quando affermano che "questa polvere di eletti, non impegnati in un programma di idee e non inquadrati in un'organizzazione di partito, andava, fatalmente, a cadere a Montecitorio, sotto le mani sapienti dei diversi governi" per cui "ne provenivano dei capi autorevoli nel loro isolamento, e degli ascari per la semplice schermaglia parlamentare". Ma questi rilievi e queste critiche che "fondamentalmente corrispondono alla realtà", sarebbero spinti, secondo il Malagodi, ad una conseguenza assurda, perché erroneamente si asserirebbe da parte dei critici l'inferiorità del sistema politico personalistico rispetto al sistema di partito. Invece lo scrittore propone - appoggiandosi, così confessa, ad una preferenza istintiva - una revisione di tale dommatica affermazione considerando "la politica meridionale in blocco, pei suoi effetti generali sulla vita della nazione" che, secondo l'autore "nel loro assieme" sono stati" salutari ed in certi momenti anche provvidenziali". Infatti, aggiunge subito lo scrittore, il Mezzogiorno d'Italia ha rappresentato il baluardo del regime durante due elezioni generali post-belliche ed "ha imposto l'alto là alle farneticazioni ideologiche, ed agli egoismi interessati della vita, indubbiamente più fervida, del Settentrione. Per queste ragioni il tranquillo, il bonario conservatorismo meridionale, constellato di personalità riccamente intellettuali, ha esercitato nei nostri settanta e più anni di storia nazionale, una funzione di primaria importanza (?) come moderatore di ideologie troppo facilmente accettate, e contro gli interessi particolari (?) che nella passione dei loro contrasti obliavano quell'interesse generale in cui pure erano fatalmente inclusi. E rendendo possibili dittature legali necessarie, anzi indispensabili nelle nuove condizioni di sviluppo, ha riaffermato e consolidato traverso l'appoggio dato ai governi, il principio fondamentale della concezione e della pratica statale. E non c'è nessuna ragione che cotesta sua opera non continui nell'avvenire". Tralasciando, a partito preso, il fondamentale humus antifascista che circola nelle intime fibre della concezione malagodiana, e la sostanziale simpatia per l'ultima "dittatura legale", esistita in Italia (quella giolittiana) e restringendo il nostro esame alla corretta interpretazione del nuovo aspetto assunto dalla questione meridionale, non possiamo non rilevare l'arbitrarietà del quesito proposto dal Malagodi, e più ancora la arbitrarietà della soluzione adottata. Anzitutto non é possibile nemmeno in sede di romanzo discettare, del se fosse stato meglio che il Mezzogiorno, uscendo dalla fase precapitalistica - di cui il trasformismo politico è la massima espressione di cerebralità collettiva - avesse partecipato, se non alla elaborazione, per lo meno alla collaborazione con le altre regioni italiane nel campo dei grandi miti politici e delle forme istituzionali inerenti, oppure se fosse restato - come solo in parte é restato - immobile nel vecchio quadro delle dittature legali, perché non si può nemmeno per ischerzo istituire paragoni tra una riconosciuta realtà di immaturità politica ed una ipotetica forma di maturità collettiva. È poi evidente, che mentre il Malagoli, per ragioni di preferenza istintiva, é portato a tentare l'elaborazione di un fatto, quale é la staticità meridionale, sulla cui inferiorità la scienza politica, dopo le inchieste del Jacini e di Sonnino-Franchetti e dopo i libri del Fortunato, del Ciccotti e del Nitti, aveva formulato un giudizio certo e definitivo, con tale teoria non riesce a spiegare il perché del fallimento fascista nel Mezzogiorno, specialmente quando si pone mente che il fascismo ufficiale, attraverso gli ascari meridionali tenta oggi di sboccare in una di quelle dittature legali che richiamano la preferenza istintiva del Malagodi, e al cui sostenimento, secondo la teoria in esame, il Mezzogiorno é destinato a prestare opera anche per il futuro. Non si spiega, perciò, perché il Mezzogiorno contro la sua tradizione ed il suo genio si ostini oggi ad impedire la formazione della nuova dittatura legale fascista. La verità, invece, é più complessa e non può essere nota se non a coloro che nel Mezzogiorno vivono, ed all'infuori delle semplicistiche generalizzazioni, conoscono la varia realtà meridionale o le sue sfumature. Del processo trasformistico infatti il Malagoli ha del tutto trascurate le complicazioni verificatesi in conseguenza dell'azione fascista. Io ho descritto ampiamente in due studi pubblicati su questa Rivista (N. 32-34) l'infantile tentativo di emancipazione esplicato nel Mezzogiorno dai combattenti prima, e dai fascisti padovaniani poi, ed i modi e forme attraverso cui la realtà trasformistica, preesistente ed aderente a quella tale dittatura legale di cui parla il Malagoli, é riuscita volta a volta a frustrare od impadronirsi del movimento, e perciò non credo utile ripetermi. Dirò, soltanto, perché sia possibile una rapida e completa comprensione del fenomeno, che il fascismo, da un anno a questa parte non ha fatto altro che tentare di duplicare la rappresentanza trasformistica del Mezzogiorno. Credendo di creare una nuova classe dirigente unitaria, cioè - come sogliono dire gli scrittori del nord - di settentrionali del Mezzogiorno, non é riuscito ad altro che a creare una nuova classe trasformistica, la di cui forza é tuttora riposta nell'opera di mediazione tra il Governo centrale e le masse inerti. Ne é derivato, quindi, un gioco assai interessante, perché mentre la vecchia classe dirigente rimaneva legata alla dittatura legale passata, la nuova classe dirigente si veniva a prospettare come longa manus della dittatura legale in formazione. Quindi non si tratta, come pretende il Malagodi, della lotta tra due principii opposti, di cui uno, e cioè il fascismo, ideologicamente intemperante ed avverso alla possibilità di instaurazione di una dittatura legale, e l'altro, cioè il trasformismo, ideologicamente temperante ed aderente alla dittatura stessa, ma si tratta invece della lotta di due sistemi identici e forse, perciò, più fieramente avversi tra loro. In conseguenza di ciò si determinava questa strana posizione ideologica, che due correnti politiche perfettamente identiche come origine e come funzioni da assolvere, si presentavano al Governo Centrale ed alle masse come rivali nell'opera di mediazione tra i favori governativi ed i voti delle popolazioni, ed offrivano contemporaneamente i loro servigi ai due poli della catena politica. Senonchè il giuoco si presentava fin dal primo momento più favorevole ai vecchi che ai nuovi trasformisti, sia perché i primi uscivano da una libera selezione ed erano i più adatti all'ambiente, sia perché il Governo Centrale non poteva indefinitamente attendere la formazione per decreto ministeriale di una classe dirigente meridionale, (specialmente quando le vere élites del Mezzogiorno si mantenevano ostinatamente estranee a tale specie di contesa politica). Costretti infatti i vecchi trasformisti a bandire come arma di difesa la posizione della coerenza politica, ogni offesa loro recata sembrava diretta alla stessa volontà popolare che, per effetto di una pura illusione ottica, appariva aver sempre costituito l'unica base dei deputati uscenti. D'altra parte poi il giuoco d'imposizione delle rappresentanze locali amiche del nuovo Governo, svolgendosi non per via politica, ma per via militare, scopriva troppo apertamente l'essenza della questione meridionale e trasmutava improvvisamente i facili entusiasmi della prima ora per il Governo in aperte deplorazioni. Attraverso tale giuoco, quindi non é riuscito difficile alle vecchie classi trasformistiche meridionali di rivendicare il loro diritto a legarsi alla nuova dittatura legale, cui dopo la dittatura militare, il fascismo ufficiale sta per pervenire. Tenendo presenti questi rilievi ed ampliandoli con quelle osservazioni che la realtà del momento suggerisce non é difficile intuire la precarietà di ogni soluzione che i politici governanti sapranno dare alla questione. Certo, come avviene sempre in casi consimili, si tenterà di fondere in sintesi eclettica gli interessi più rumorosi e le aspirazioni più audaci ma non si potrà più sanare l'errore-base, derivante per nostra fortuna dall'incomprensione fascista delle cose meridionali, in cui si é aggirato il Governo Centrate fino ad oggi: cioè di non aver rinsaldata subito la nuova dittatura con le rappresentanze meridionali ed avere scoperto il regime anche nel Mezzogiorno. Questo errore politico che forse renderà impossibile il ritorno di una nuova dittatura legale tipo giolittiano, non avrà reso completamente vano l'esperimento fascista nelle nostre regioni. Ma, da tutto ciò alla semplicistica teorizzazione dell'ascarismo giolittiano ci corre assai. GUIDO DORSO.
Anche noi, in omaggio alla chiarezza politica, ci augureremmo le conclusioni dell'amico Dorso. Invece è quasi certo che avremo De Nava in camicia nera: ossia il trasformismo legale complice della violenza. E Michelino sarà l'erede di Colosimo, come compare di battesimi, pronubo di nozze, delizia e consolazione dei suoi più grandi elettori. |