UOMINI E IDEE

Lo stile di Wilson

    "Woodroow Wilson è morto oggi, alle ore 11 e un quarto.

    L'ex presidente è morto nella sua casa, tra le braccia della moglie e della figlia, nella camera che egli prediligeva, al terzo piano, nella parte posteriore della casa, ove quasi non giungono i rumori della strada: le finestre danno sui giardini; e lontano si scorge la cupola del Campidoglio, ed il fiume che scende a Mount Vernon, ov'è la casa storica di Giorgio Washington. Benché la stanza sia così appartata, sin da sabato, per ordine delle autorità, il traffico dei veicoli era stato sospeso in tutte le vie intorno alla casa, per non turbare la tranquillità intorno al morente. Ma per tutta la notte una folla di gente sfilò silenziosa dinanzi alla dimora di lui, per leggere i bollettini della malattia. Stamane poi più d'un centinaio di uomini e donne si raccolsero sul marciapiedi dinanzi alla casa, e rimasero lungamente in ginocchio a pregare".

    (Dai giornali del lunedì).

    Questa umile pagina di cronaca può tenere il posto del più degno elogio di Wilson. C'è uno stile in questa morte silenziosa e raccolta che lo mette al di sopra di tutti gli scrittori che hanno preso pretesto dalla commemorazione per insultarlo.

    I commenti alla morte di Wilson sono un fatto meschino di cronaca ordinaria. Nessuno è riuscito a collocarsi in una atmosfera storica. Ha parlato l'ira degli italiani delusi e interessati. Come se Wilson fosse soltanto il teorico dei quattordici punti, o l'uomo di Versailles. Per rendersi conto della sua grandezza invece il giudizio deve riguardare la sua figura di americano, nella storia dell'America. Giù la sua elezione al seggio presidenziale è un fatto solenne: già nel 1914 egli si era rivelato un grande statista. Dopo la mediocrità di presidenti come Taft o Roosevelt, in Wilson si sente la tempra di un Lincoln.





    Non si può dimenticare che la politica e le tradizioni americane hanno un nome: Monroe. Wilson che per i commemoratori di oggi sarebbe un debole, un chiacchierone ebbe l'energia di resistere e di vincere questa politica secolare di chiuso nazionalismo e protezionismo, sgominò le insidie dei lestofanti della finanza americana, inaugurò per primo nel suo paese una politica mondiale. Le direttive che egli diede alla politica doganale e monetaria, la soluzione alla questione del Canale di Panama, la decisione d'intervento nella guerra europea, sono prove così grandiose del suo realismo e della sua mente aperta e geniale che lo riabilitano anche dal fallimento di Versailles. Occorre ricordare che si giudica un americano, non un europeo. Nella storia dell'America le sue direttive politiche sopravvivranno a lui, il suo nome è un programma che ha per sé l'avvenire. Del fallimento in Europa la sua colpa è condivisa dagli europei che lo lasciarono solo. Fu questa solitudine la grandezza delle sua tragedia. Solo in patria contro il particolarismo americano; solo in Europa contro i particolarismi nazionalisti. Sei anni di potere in condizioni così singolari lo consumarono: pochi politici avevano sofferto un simile travaglio ed egli fu in questo senso uno dei primi statisti moderni di stile mondiale. Per la singolarità del suo compito realismo e idealismo (nel senso di originalità e di virtù politiche creative) appaiono così confinanti e quasi l'uno in funzione dell'altro, che bastò un solo errore di rigidezza per rovesciare l'edificio. La rigidezza di Wilson si sarebbe inserita nella realtà se invece di un nazionalista coesiato come Sonnino o retore come Orlando si fosse trovato a Versailles accanto a lui un nazionalista lungimirante come Nitti. Ma in tutti i modi é ridicolo far pesare questo nostro rimorso in un giudizio storico su un uomo politico, complesso, internazionale.





    Nella sua morte c'è un sapore di intimità, una una solennità di affetti che ci confermano, per un aspetto di cordialità umana, la sua grandezza. Niente americanismo, niente retorica. Wilson non è un eroe dinamico. Io mi penso la morte di un vero eroe dinamico e moderno. Ci vuole una camera dell'Excelsior e una poetessa di versi liberisti a dire le nenie o a suggerirle all'attrice del giorno, espressamente chiamata, per ricordo di antichi favori. L'eroe dinamico non deve morire tranquillo, ma disperato per la sua sete, per la sua aridità invano nascosta dal diuturno melodramma.

    Wilson statista di una grande politica mondiale ha la sua casa, la camera prediletta, al terzo piano, nella parte posteriore della casa, ove quasi non giungono i rumori della strada, le finestre danno sui giardini...

    Nello stile di Wilson c'è posto per il silenzio: e leggendo della sua morte si capisce come egli dovesse trovarsi fuor di posto a Parigi, tra i nuovi costumi dei reduci esasperati dalla guerra!

La Dulcinea di Giovannini

    "Quel povero Giovannini che va in giro come un don Chisciotte in ritardo alla ricerca della Dulcinea introvabile dell'idea liberale, qualche volta mi suscita un sentimento di sincera pietà (ilarità) perché la sua opera dimostra come sia vera l'affermazione che fra liberalismo e orgunizzazione esiste un fatto personale assolutamente insormontabile". (Dal discorso di Mussolini).

    La Dulcinea del professor Giovannini fu, quindici anni or sono, l'idea repubblicana. Poi La libertà economica gli fece dimenticare la prima fiamma e lo accreditò preso gli uomini di scienza che candidamente lo accettarono come avevano accettato Borelli, quale apostolo, e cavaliere dell'ideale.

    Dell'apostolo Giovannini aveva appunto la massiccia tenacia bolognese, implacabilmente affezionata alla tavola come alla popolarità. Mussolini accetta la leggenda di un Giovannini macerato, tormentato e asceta. Altro che Don Chisciotte!





    Frati Godenti fummo...

    In questo senso Giovannini è un tipo, e riuscì a creare insieme il mito della sua intelligenza e del suo disinteresse. Per un uomo affezionato alla politica in ragione inversa della sua attitudine a capirci, l'essere battuto successivamente in tutte le elezioni poté sembrare una prova di nobiltà. L'inettitudine gli diede un'aureola di martirio. E Giovannini non fu compromesso neanche dai suoi isterismi di deputato mancato. Durante la campagna elettorale La libertà economica (esce tre volte al mese diretta dal prof. Giovannini) confinava in terza pagina gli articoli di Borgatta e le recensioni. Per un mese ogni legislatura, l'asceta faceva del suo cilicio un'arma di offesa e di difesa. Tiratura doppia: il discorso del professor Giovannini; come giudicano il professor Giovannini gli scienziati italiani.

    In prima pagina ritratto monumentale del candidato poiché egli s'illudesse almeno per un giorno di essere uno dei 508. Gli elettori non abboccavano: La libertà economica tornava a diminuire la tiratura; Borgatta ripassava alla prima pagina, ma il professor Giovannini nel rimettere il cilicio sentiva di aver bene meritato della stima pubblica per il suo sacrificio.

    La colpa non era delle idee; era dell'organizzazione. La religione c'era, c'erano gli apostoli, mancava l'inquadramento dei seguaci. Con questa bella trovata gli italiani furono divertiti durante tutto il dopo-guerra e per risolvere il problema del suo collegio elettorale, Giovannini fece parlare la filosofia del diritto. Giovannini si era accorto di aver sbagliato mestiere, che le idee non erano per lui, che la libertà economica bisognava metterla in soffitta perché non serviva neppure a guadagnare un collegio, e si mise a vendere specifici e a cercare pubblicità per il suo giornale.

    Dulcinea è diventata una donnina equivoca, servizievole e compiacente anche nelle cure più segrete e nei maneggi più gelosi. Succedono i fatti più inenarrabili e le pratiche più proibite perché il pericolante pudore di un intellettuale bolognese se appena dimentichi un istante di sorvegliarsi non trova più limiti alla propria immodestia.

    Giovannini è l'uomo della generazione che cominciò alla garibaldina, sindacalista o seguace dell'azione diretta, e si attribuì un compito di illuminazione perché aveva letto Spencer e Comte. Cultura di segretario di sezione o di mandarino sindacale. Giovannini invece è diventato un "leader" e, mezzana Dulcinea, sarà deputato dopo la decennale astinenza. Mussolini lo umilia ma lo metterà nel listone, in omaggio alla nobiltà della schiatta e della terra.

    Anche Don Chisciotte dopo la marcia su Roma impara a realizzare e offre i vezzi della sua ultima Dulcinea liberale per lusingare il vincitore.





Il torto di Facchinetti

    L'Alba Repubblicana ha commentato aspramente il fatto che Cipriano Facchinetti abbia accettato di recarsi a Roma, a palazzo Chigi, chiamatovi a colloquio da Mussolini. Oppone Facchinetti: "Persiste nel ritenere immeritevole di una qualsiasi risposta chi ha potuto anche solo supporre che, in una situazione tragica quale è quella in cui si trova il nostro paese, non si possa varcare la soglia di Palazzo Chigi se non per far mercato della propria coscienza".

    Noi non conosciamo Cipriano Facchinetti se non attraverso le lodi che ce ne hanno fatto i nostri più cari amici, ma queste parole ci sembrano di colore oscuro. Il torto di Facchinetti é lo stesso dell'opposizione costituzionale. Egli continua a non capire che non si tratta di salvare il paese ma la propria anima. Non si può varcare la soglia di Palazzo Chigi senza compromettersi. La lotta contro il fascismo deve essere anche lotta ad hominem; il repubblicano Cipriano Facchinetti che in una situazione tragica quale è quella in cui si trova il nostro paese ritiene utile conferire col presidente, forse perché il presidente gli è stato amico personale, è antifascista come l'on. Corgini e politico come l'on. Morgari che mi confidava, nel dicembre 1922: - Spero che Mussolini non si dimentichi di essere stato nostro compagno.

    E tutto il tono del colloquio Mussolini-Facchinetti fu, per quel che ci riuscì di saperne, il non plus ultra del mussolinismo.

    A Facchinetti che gli rimproverava la crisi della legalità e le violenze Mussolini rispondeva candidamente facendo anche lui l'antifascista e rimproverando agli amici dell'ordine che nessuno l'aiutasse nel suo duro travaglio.

    - Ma non hai un programma.

    - Verissimo. Ma forse l'ha l'opposizione? Io sarei prontissimo a farlo mio, se l'avesse! Ma non mi si oppongono che questioni e critiche di dettaglio.

    - E la milizia nazionale?

    - Non la scioglierò. Per ragioni evidenti e per altre meno evidenti, ma che tu, proprio tu non potresti rimproverarmi se le sapessi.





    Con queste lusinghe, il repubblicano Facchinetti restò a bocca aperta. Chi conosce Facchinetti, e la debolezza che è sotto la sua bontà, immagina facilmente il suo imbarazzo davanti al dittatore che non mostrava la faccia feroce, ma anzi una indulgenza disarmata, compiacente e mefistofelico come un ex-repubblicano tendenziale.

    Perché Facchinetti si è recato a Palazzo Chigi? Per la legalità, per la situazione tragica del paese? Ed ecco Mussolini mansueto, legalitario. Ecco Facchinetti disarmato, smentito, vinto.

    Facchinetti tornò a Milano confuso, scosso, nella sua fede di presunto condottiero del blocco antifascista della libertà. E non nascondeva agli amici il suo disappunto perché accanto a Mussolini, galantuomo romagnolo che si era commosso a parlare col vecchio amico, cuore leale, capace di battersi il petto per le colpe passate, dovessero trovarsi, inamovibili, le anime nere di Cesarino Rossi e di Michelino Bianchi!

    Facchinetti si accorse di essere stato giuocato solo dopo il discorso alle grandi assisi fasciste. Nel quale Mussolini fu così insidioso da minacciare il piombo ai partiti socialisti, ma non ai repubblicani! Egli doveva credere di averli già addomesticati addomesticando Facchinetti.

    Giova sperare che non tutti i repubblicani siano ingenui come il romagnolo, che qualcuno abbia capito che la lotta deve essere condotta contro Mussolini prima che contro il fascismo, contro il nuovo Giolitti che stronca e deride ogni coerenza, avvelena i caratteri, corrode tutte le resistenze. Avvicinarlo vuol dire essere vinti. Bisogna affermare la nostra opposizione di razza, la nostra repugnanza, il nostro disgusto. Non vogliamo realizzare, vogliamo distaccarci, far rispettare le distanze. Chi non sente questo disprezza, chi non prova una ribellione al pensiero del duce addomesticato e sorridente, non merita la nostra stima, non ha dignità.

    Se Mussolini avesse offerto a Facchinetti, insieme al volto benigno, un posto nel listone, con quale diritto egli avrebbe ricusato, vista (la situazione tragica in cui si trova il nostro paese?) Così Mussolini sa addormentare gli uomini e rovinare le coscienze.

Una classe dirigente

    "Si ha ufficialmente da Mosca che è stato eletto il Presidente dei Commissari del Popolo. Il successore di Lenin è Ricov, il quale ha già funzionato quale supplente alla presidenza del Commissariato del Popolo" (5 febbraio).

    Durante l'incertezza del successore i giornali borghesi ci dilettarono con le più allegre scemenze. Una delle più belle trovate del nostro provincialismo fu la storiella delle disgrazie di Trozchi. Non si è ancora capito che la Russia ha una classe dirigente, che i bolscevichi ritengono nella loro superiorità il loro diritto di governare.





    Non è lecito parlare di Trozchi o di Ricov o di Cicerin come se si parlasse di Giunta o di Massimo Rocca. È ridicolo andar a scovare dissensi personali (che in quanto esistono hanno una natura specifica e necessaria) insospettata nelle deformazioni parigine e romane mentre la storia russa grandiosa di questi sei anni insegna la necessità della coesistenza dei protagonisti e attribuisce a ognuno il suo compito riconoscendone l'originalità.

    Trotzchi fu il tattico dell'offensiva politica e della difesa militare. Egli ha realizzato la rivoluzione in novembre con la temerarietà disperata del genio. Si deve alle sue qualità personali di stratega improvvisato se, approfittando di una sommossa di marinai, i bolscevichi conquistarono Pietrogrado. Negli anni successivi la sua opera di creatore dell'esercito rosso che sgominò su tutti i fronti la reazione ha del prodigioso. Fu la prima volta che un esercito all'inizio esclusivamente operaio mostrò uno spirito guerriero.

    Lenin è stato il profeta. La sua vita di esule aspetta un Plutarco. Venuto al potere, questo uomo di biblioteca e di teorie, di cospirazioni e di piani sociali, si ritrova a cinquant'anni un'anima realistica e spezza il suo mito per difendere il suo popolo da ogni pericolo di ritorno reazionario.

     Zinoviev e Bucarin sono il tribuno e il divulgatore dell'opera rivoluzionaria. Ci può essere medriocrità in essi, ma c'è spirito di fedeltà.

    Cicerin, nel quadro della rivoluzione, presenta un volto ironico e beffardo. E' l'uomo del vecchio regime, il raffinato dell'intrigo e della sottigliezza, il machiavellico minuzioso e dissolvente, messo a servizio del nuovo ordine. Pare creato apposta per resistere e difendersi contro la diffidenza di cui gli occidentali circondano la Russia rivoluzionaria.

    Ricov fu l'ombra di Lenin fino al 1919, il discepolo, il luogotenente. Divenne l'uomo del giorno, apparve di colpo in primo piano quando si trattò di provvedere alle esigenze pratiche della nuova politica economica. Da allora Ricov é uno dei principali ispiratori della politica russa. Doveva essere lui il successore di Lenin; perché è stato l'uomo dei problemi post-rivoluzionari più incalzanti.

    La scelta di Ricov prova che lo spirito della Rivoluzione Russa non si è spento. Altro che manovre e ambizioni personali! Si può commemorare Lenin. La sua opera continua. I protagonisti del periodo epico sanno fare l'ordinaria amministrazione. Come i profeti seppero diventare statisti. E questa è la grandezza più singolare della classe dirigente bolscevica.

p. g.