GRANDEZZA E DECADENZA
DEL PERFETTO ITALIANO

    La fortuna di Giuseppe Giulietti, solo transitoriamente oscurata, non la si può rinchiudere nelle peripezie di un movimento sindacale di categoria. Non si spiega con le consuete ragioni, del come stavano male marinai prima della sua azione di organizzatore, e simili. Non si può inquadrare Giulietti nel sistema riformista-cooperativista dell'Italia giolittiana, e risolvere, se sì è avversati il fenomeno della Federazione con le consuete ricette del "Cooperativismo rosso, piovra dello stato".

    Su tutta la schiera degli organizzatori italiani, Giulietti si profila, in modo non confondibile: si lascia indietro i "funzionari" e i "bonzi", per la sua violenta energia sovversiva, si lascia dietro i sindacalisti rivoluzionari diventati commendatori, perché è puro di ogni convinzione padronale e di ogni lucro privato. Tra lui e il tipo Colombino-Bruno da una parte, o il tipo Rossoni-Michelino Bianchi dall'altra, lo stacco è fortissimo. Costoro seguono il movimento delle più sublimi costellazioni, subiscono gli influssi dei pianeti: sono, in sostanza, "impiegati", comparse del regime giolittiano o del regime mussoliniano, cadono e trionfano secondoché sono di moda in Italia o il paternalismo del vecchio patrono, o le sagre del nuovo signore. Non hanno scienza di governo, non posseggono il segreto dei colpi di stato. Giulietti si. Giulietti, dell'aiuto dato a D'Annunzio in Fiume nel 1919, dimostrò di saper fare una politica per conto proprio, tale quale come Mussolini con la marcia su Roma.





Il confessore di una chiesa

    La Federazione non fu, con lui un sindacato operaio, ma una piccola Chiesa, alla quale si sarebbero potute applicare, punto per punto, tutte le critiche degli scrittori anticlericali alle corporazioni religiose. Giulietti, dopo anni di osservazione, mi pare più un confessore che un demagogo. Egli non ebbe solo l'incontrollata disposizione dei fondi: ma curò la direzione delle coscienze.

    La sua risposta a Preziosi, che gli chiedeva dove fossero i milioni della Gente di Mare, resta un capolavoro di grossolana, ma efficace suggestione mistica: "I milioni, dove sono i milioni? Sono sepolti in fondo al mare, e li custodiscono i marinai annegati per la patria". Egli, come tutti i grandi direttori spirituali, sa prendere l'uomo attraverso le blandizie della famiglia: non tralascia mai di parlare ai marinai delle loro donne che li aspettano a casa. Questo preteso rivoluzionario dice, nel suo ultimo messaggio sul Patto Marinaro: "a tutti i nostri Compagni che passeranno le tradizionali e tanto sentimentali feste di Natale, di Fine e Principio d'anno, lontani dalle loro famiglie, dai loro figli, vada il nostro saluto di Fede e di Solidarietà completa e fraterna". Sotto la sua apparente impetuosità di agitatore c'è il tocco sicuro infallibile del "Padre Santo", che un tempo, in tutti i conventi dell'Italia Marinara, era specializzato nel consolare le mogli dei naviganti senza notizie, o il mozzo che si imbarcava per la prima volta. E sotto il frasario rivoluzionario, tutto d'accatto, c'è una esperienza matura e completa dei bisogni spirituali non dico della Gente di Mare, ma di tutto il popolo italiano.





    Una esperienza sicura, di prelato della Chiesa romana: una esperienza non guadagnata nel vigore di una moderna lotta di classe, non desunta, né da lunghe navigazioni, né da lunghe fatiche tra i poveri, ma spontanea e consanguinea, come un lascito della razza che porta più incancellabile il segno del governo dei preti, e della terra che fu conosciuta bene solo dal Cardinale Rivarola.

LA CRISI DEI NAVIGANTI

    Nessuna gente di mare soffrì, come l'italiana, delle trasformazioni tecniche della industria dell'armamento navale. Il trapasso dal periodo velico, dal sistema delle carature e dal patriarcalismo armatoriale, alle navi in acciaio, alle società anonime di Navigazione legate alle banche, e alla fase del grande armamento, segnò, non solo una crisi di tonnellaggio e di posizione relativa nella marina mondiale, ma una crisi di spiriti.

Le aristocrazie di bassa prua

    L'uomo di mare italiano fu "a suo posto" a bordo del veliero. La vita della nave a vela, che costringe insieme lo stato maggiore di poppa e l'equipaggio, che impone la conferma del brevetto regio da parte dei compagni di bordo, che tempera le esigenze armatoriali con le tradizioni e le famigliarità della gente di bassa prua: tutto questo era "tagliato" apposta per la mentalità italiana.





    Il mondo, io temo, non vedrà mai più italiani così sani di spirito, così perfettamente equilibrati, così appassionati per il loro mestiere, come gli equipaggi velici di Camogli o di Méta di Sorrento, che ci diedero, senza accorgersene, la seconda marina del mondo, e che formarono il nucleo della nostra emigrazione transoceanica. Il ritmo domestico, casalingo, dell'armamento velico conferiva singolarmente a sviluppare le qualità solide della nostra razza, impreparata psicologicamente alla produzione capitalistica, al razionalismo economico, alla sconsolata aridità della grande industria. Col sistema delle carature si avevano delle navi che erano delle vere cooperative paesane, perché non soltanto l'armatore, ma il costruttore, il veliere, il tozzellaio, il nostromo, il dispensiere, quei che provvedeva i legni o fabbricava i cavi, vi avevano un interesse diretto. Nei primi statuti della Mutua Camogliese Ligure, tutti i capitani dei bastimenti assicurati dovevano essere di Camogli, o dei paesi circonvicini; si controllava così quanto spendeva la loro moglie, e tacitamente si sorvegliava la fedeltà delle donne rimaste a casa, mentre gli uomini navigavano. L'industria navale comportava molto bene quella, diciamo così, "imbottitura" sentimentale, quella intimità, senza di cui l'italiano stenta a ritrovarsi e ad agire. La solidarietà e l'orgoglio marino degli equipaggi velici trovarono la loro espressione classica nel detto camoglino: "Gli affari del bordo non devono sortire fuori del bordo". Io dubito che nessun Consiglio di fabbrica o nessuna pratica costante di intransigenza operaia riescano a darci qualche cosa che somigli allo spirito della aristocrazia di bassa prua: l'ultima, specialissima forma di aristocrazia manuale, artigianesca, in cui degli italiani abbiano trovato appagamento.





L'ambiente del transatlantico

    Tutto questo, l'industria dell'armamento moderno, lo mandò a catafascio. La comparsa del transatlantico rappresentò, per la gente di mare italiana, la ricomparsa della galea. E rispuntarono le ciurme.

    Il grande transatlantico è paragonabile alla grande fabbrica soltanto per il suo significato nella storia dello sviluppo economico, e per la sua organizzazione tecnica, che corrisponde alla fase della macchino-fattura. Ma manca completamente del contenuto etico della grande fabbrica: niente c'è, in esso che s'avvicini al significato sociale, poniamo, delle officine Fiat. Il transatlantico sopprime il marinaio, e non ci dà l'operaio dei traffico navale. La sua architettura, tutta di soprastrutture, ponti, casette, giardini d'inverno, passerelle, terrazzini, tradisce tutte le tradizioni della tecnica navale, e non raggiunge affatto la nuda bellezza della macchina. Quella potente suggestione ascetica che il recinto della grande fabbrica esercita sul lavoratore, è una, è vano cercarla sopra questa arca di Noè sopra questa imbellettata giunca chinese, sopra questa veramente rinnovata galea, attelata e impavesata a festa perennemente, per un pubblico di sfaccendati.

    Dei cinquecento uomini di equipaggio di un moderno transatlantico, soltanto un quindicesimo circa appartiene alla coperta, cioè, corrisponde, in senso approssimativo, alla denominazione di "marinaio". Tutto il resto, o è della cosidetta "famiglia bianca", camerieri, suonatori, garzoni, maestri di casa, che all'occorrenza fanno anche un po' da ruffiano: o alla cosidetta famiglia nera, fuochisti e carbonai, che lavorano ai forni della macchine, come potrebbero lavorare in una qualunque fonderia di terra.





    Quel quindicesimo del personale di coperta, poi, lustra gli ottoni, stende le tende, accudisce ai bagagli, fa un tantino l'aguzzino con gli emigranti, disimpegna tutti quei servigi che sono proprii e caratteristici del facchino dei grandi hôtels: e a questo, sostanzialmente, si riduce la sua arte marinara. Perfino i responsabili dell'unica prestazione d'opera specificamente nautica, la rotta, cioè gli ufficiali dello stato maggiore, devono essere, se vogliono disimpegnare bene il loro mestiere, delle figure sociali assai prossime al tipo dei maîtres d'hôtel: ed oggi, normalmente, nelle grandi compagnie di navigazione si constata il fatto, che gli ultimi ufficiali con reali qualità nautiche sono i meno adatti ad assumere il primo posto di figurante nel caravanserraglio.

La decadenza degli Stati Maggiori

    La Gente di Mare odierna, come le condizioni dell'armamento la esigono, è dunque ben poco marina. Si continua a fare molti discorsi sulle eroiche virtù navali dei nostri equipaggi, eredi di una tradizione millenaria, ecc. Ma in realtà, nessun industria di terra recluta tanta massa raccogliticcia, tanto rifiuto dei porti, tanti vagabondi, tanti spostati, come l'industria dell'armamento. Oggi, a bordo, non é difficile trovare ancora il discendente dell'antica aristocrazia velica, specialmente fra gli elementi meridionali degli equipaggi: ma sperduto in mezzo ad una magma di Gente di Mare alluvionale, il cui livello morale, il cui orgoglio di classe e la cui capacità di organizzazione autonoma è infinitamente al disotto di qualunque categoria di lavoratori terrestri.





    Negli Stati Maggiori, la decadenza è assoluta. Lo Stato Maggiore fu anzi il primo ad essere colpito. L'antico capitano velico, vero socio dell'armatore, aveva uno stipendio relativamente meschino, in confronto a quanto poteva guadagnare con le "cappe" che erano una percentuale sui noli, coi "diritti di ponte", e colle "paccottiglie": era l'uomo di fiducia munito di un potere discrezionale sugli armatori, caricatori, assicuratori. La "colonna", cioè una somma di denaro affidata all'armatore per comperare all'occorrenza il carico e rivenderlo altrove, era la base dell'individualità economica del capitano. "Capitano di mare" era una posizione sociale: e bisogna essere venuti su nel vecchio ambiente genovese di Banchi, per comprendere quale alone di rispettabilità, di prestigio, di autorità circondava questa qualifica, ancora lunghi anni dopo che essa era già stata svuotata di ogni sostantifica midolla. Il Signor Edilio Raggio, che fu l'ultimo grande mercante di Banchi, riassunse con causticità genovese la dissoluzione di tutta una aristocrazia navale, quando disse: "Dei capitani di mare? Dei capitani di Mare? Ma io alzo il sedile del mio watér-closet, e ce ne trovo subito una dozzina, di capitani di mare".





    Nell'ambiente della grande anonima, essi si ridussero ad essere capi carrettieri, che devono condurre il carico a quella meta e su quella rotta che l'ufficio di terra stabilisce: impiegati, e impiegati trattati sottogamba dall'elemento di terra, per la loro ignoranza e per la loro abbondanza. Tutte le ciarle del grande avvenire dell'Italia sul mare, ed altre simili "leganavalerie", fecero riversare, attraverso la porta sfondata degli istituti nautici, fior di spostati e di ciuchi, che popolarono gli atrii delle Compagnie di Navigazione, chiedendo per pietà un imbarco come Allievo-ufficiale: la carriera del mare fu per tanti giovani della Terza Italia, un surrogato o un anticipo delle avventure fiumane, fasciste, eroico-cortigiane: fu una impresa di oltremare destinata a cozzare miseramente contro la implacabilità dei ruoli organici, e, nel migliore dei casi, a esaurirsi nel cul de sac della routine hòtelliera e vivandiera e un tantino bordelliera del grande transatlantico.

    In questa categoria di piccoli borghesi delusi e inaspriti, i successi di Giulietti erano dunque preparati di lunga mano: e quando Giulietti si vantava di aver riunito tutto il personale navigante "Dal Comandante al mozzo", egli veniva semplicemente a trarre le conseguenze dell'aforisma del Signor Edilio Raggio.





L'esaltazione sistematica della gente di mare

    Lo stesso Giulietti esaltò poi sistematicamente la Gente di Mare, come fior di farina passato al crivello della grande guerra: e fu proprio durante la guerra che il reclutamento degli equipaggi mercantili subì il tracollo più rovinoso, e tutto il "rebù", tutto il rifiuto dei porti entrò, con piena cittadinanza, nella Federazione. Le esigenze sindacali indussero Giulietti a imporre agli armatori equipaggi pletorici, anche in tempo di guerra sottomarina. Ci furono dei mesi, che sulle nostre navi mercantili, fiorì la nuova industria del silurato. Le disposizioni dell'autorità militari navali, prescrivendo la rotta obbligata a cinque chilometri dalla costa, facilitavano del loro meglio l'attacco ai sottomarini e il salvamento agli equipaggi: pareva una cosa combinata fra Giulietti, il Ministero della Marina e Von Tirpiz. I grandi transatlantici furono invasi da una folla di scarti, che prendendo il posto dei giovani e validi elementi mobilitati, erano ingombro a bordo nel momento del pericolo, e speculavano sulla indennità di siluramento pagata dall'armatore. Gli episodii eroici, certo, non mancarono nonostante questa spazzatura, questo tritume umano gettato a bordo: come non mancarono gli episodii di viltà generale, difficilmente verificabili a bordo dei navigli velici di un tempo, e che udii criticare, con gli occhi fuor della testa, da vecchi marinai. In sostanza, la Gente di Mare italiana si comportò, dinanzi ai sottomarini, come quella di tutti gli altri paesi: e fuori poi di questa peripezia bellica, non è affatto quella accolta di argonauti sfidanti i flutti, che la prosa di Giulietti dipinge alle esagitate ed eroiche fantasie dei piccoli borghesi italiani. Anzi, a ragion veduta, si può dire che a bordo c'è una fortissima percentuale di poltroni e di scansafatiche, più alta che in qualunque industria di terra.





Il "mannequin" romantico creato da Giulietti

    Giulietti, di terra non marinara, di famiglia non marinara (i suoi fratelli furono fuochisti, cioè braccianti, a bordo di transatlantici diventò capitano di mare così, come avrebbe potuto diventare maestro di scuola: navigò pochissimo, non distinguendosi affatto, per virtù nautiche: egli è il vero rappresentante della gente di mare raccogliticcia, messa insieme con tutti i pendagli che a terra non riescono a trovare un mestiere. è il vero capitano di mare del transatlantico, l'ufficiale di bordo su cui il vecchio e vero marinaio lascia cadere le due parole "poco marino": giudizio inappellabile e definitivo.

    Ma appunto perché così "poco marino", egli ebbe vivissimo in testa il modello scenografico del marinaio: e lo pensò, come un qualunque piccolo borghese italiano, con la sua maglia azzurra, e il suo pompon sul berretto, e la sua fasciacca ai fianchi, salutare con un largo gesto eroico il litorale, ritto accanto all'asta della bandiera, non importa se rossa o tricolore. Il marinaio, nella testa di Giulietti, è il marinaio come figura nei calendari murali delle Compagnie di Navigazione.





    La sua prima, grande, abilità di maneggiatore della opinione pubblica italiana, fu appunto di presentarsi come organizzatore di questo marinaio fantastico, di questo mannequin marinaio. Egli si trovò dinanzi a una accozzaglia di salariati, messa insieme come, abbiamo veduto, e la presentò come l'erede di una aristocrazia navale irrimediabilmente scomparsa: lo stesso nome, che egli escogitò, di "Gente di Mare" ha un accento arcaico: e di più, un largo respiro marino, un odor di alga e di largo, proprio conforme ai gusti dei borghesi sedentarii e immaginifici, i quali ignorano che il vero odore che i naviganti di oggi respirano, anche in pieno oceano, è quello della risciacquatura di stoviglie. Le adulazioni sistematiche alle virtù eroiche e nautiche di una Gente di Mare rifatta sul modello di Marryat e di Jack la Bolina, Giulietti le usò sapientissimamente, per imporsi in nome della guerra e dell'avvenire d'Italia sul mare, precisamente ai ceti medii combattentistici, in perpetua crisi di orticaria nazionalista e patriottica. Nessuno, come Giulietti, seppe rinfrescare il vecchio clichè del lupo di mare, che sfida gli elementi scatenati, mena una rude vita, si ciba di mezza galletta con un pò d'aceto per non perdere l'abitudine di dominare i flutti, naviga per tradizione di famiglia, e muore di malinconia vedendo dalla sua casetta, passare le navi all'orizzonte. Nessuno seppe, come Giulietti, mettere a contribuzione tutti i fondi di magazzeno della letteratura navale uso Guido Milanesi, degli opuscoli di propaganda uso Lega Navale, tutti gli stantiì ricordi della tradizione marinara velica, adattata per il milanes in mar, e per giunta per il milanes in mar incalorito di Grande Italia.

    Questa adulterazione finissima del vero navigante di oggi, ebbe il più grande successo presso Gabriele D'Annunzio: purché prima del sovventore, prima del soccorritore in Fiume, il poeta vide in Giulietti l'eroe della Gente di Mare, cioè della "schietta , gente di bordo, razza rude che sa di salsedine e di ostinatezza". L'ultima lettera di D'Annunzio è un documento, di cui un tratto bisogna riportarlo:





    "Saluta la Gente di Mare da parte di un marinaio che nella sua prima giovinezza servì a bordo dei trabaccoli, pescò con le paranze doppie, tirò la sciabica. Salutala da parte del capitano di piccolo cabotaggio a cui pel suo digiuno di tre giorni bastavano tre carrubbe e tre bicchieri di acqua della Pescara

    L'odore del catrame, l'odore del sevo e della pece, mi ritorna dalla più lontana infanzia e mi fanno ripalpitare il cuore e dilatare i polmoni smisuratamente.

    Non ho io anche un cuore di buon calafato? Non sono intento io a ristoppare, a impeciare, a spalmare, la barca sdrucita dei federati? E lo scalpello! E la malabestia! E il mazzuolo, chiodi e bullette!

    Posso io avere fede in voi? Aver fede in me voi potete, certo, compagni.

    La salvezza non é nel vento, ma nella buona e pronta manovra, nella disciplina sagace, nel coraggio vigilante.

    Issa gabbie! Borda velacci pronti a rande e fiocchi!

    Poi ci abbraccieremo.

    Il vostro: Gabriele D'Annunzio"

    20 gennaio l924.


    Tutto questo frasario corrisponde perfettamente alla inscenatura giuliettiana, e ai gusti della maggioranza assoluta degli italiani.

    Forse, il poeta non pensò mai alla reale composizione dell'equipaggio di un transatlantico. Forse, egli non pensò che sotto questo lucente coperchio, della Gente di Mare, c'erano delle molto prosaiche ripartizioni di camerieri e di dolcieri, di sommeliers e di camerotti, di elettricisti e di carbonai. Vero e grande italiano, se D'Annunzio avesse pensato a ciò, se ne sarebbe disgustato: Giulietti, che conosce gli italiani, presentò anche a lui il mannequin dei calendari murali. L'unico modo di interessare i piccoli borghesi italiani alle sorti dei lavoratori e alle lotte del lavoro, è quello di ricorrere agli espedienti della tricromia.





LE DEFICIENZE DEGLI ARMATORI

    Correlativo all'imbastardimento della gente di mare, fu quello della classe armatoriale, del personale dirigente delle grandi compagnie di navigazione.

    È ridicolo presentare i camerieri dei transatlantici come gli eredi dei Dodero e dei Cafiero, dell'aristocrazia di bassa prua della marina velica. È egualmente ridicolo presentare, o lasciare che si autopresentino, i direttori dei Lavarello e dei Rubattino, dei Florio e dei Pierce. Una sola grande Compagnia di Navigazione esiste oggi, che si riannodi veramente nelle persone dei suoi capi, ad una grande tradizione famigliare ed è il Lloyd Triestino, guidato dai Cosulich; e il comm. Oscar Cosulich è certamente la mente più solida e quadrata dell'armamento italiano.

    In nessuna industria, come in quella dell'armamento, lo stacco fra i rappresentanti del capitale (Consiglieri delegati, Amministratori, ecc.) e il personale tecnico, è così completo. Nella industria dell'armamento, tale stacco si aggrava di tutte le contraddizioni psicologiche fra l'uomo di terra e il marino, diventa un dramma cui il navigante apporta tutta la sua atavica avversione al rappresentante dell'autorità a terra. Di dieci Compagnie di Navigazione che hanno la loro sede in Genova, nove hanno Direttori o Amministratori delegati che non hanno navigato mai, che provengono dalla carriera bancaria, normalmente, e che sempre sono fiduciari di qualche raggruppamento finanziario. Agli altri capitani di industria si può - più o meno - attribuire qualche cominciamento di ascesi e di passione capitalistica: perfino i Perrone, che sono i rappresentanti più completi del capitalismo avventuriero, hanno certo una forte passione per la fortuna e per le tradizioni dell'azienda Ansaldo: sarebbe stoltezza il negarlo. I capi dell'armamento italiano ne sono completamente destituiti. Essi manovrano navi e equipaggi, vendono piroscafi e sciolgono o fondano Compagnie, barattano la "Veloce" contro il "Lloyd Sabaudo" o viceversa, stabiliscono nuove linee o le aboliscono, esclusivamente dal punto di vista dell'uomo di banca, dal punto di vista del capitale di speculazione.





    Nessuno, più di essi, è assolutamente insensibile a tutto quel mondo di sogni e di rimpianti, che è il mondo del marinaio. I dirigenti dell'armamento di una ventina di anni fa, come Raggio, il comm. Agostino Crespi, e qualchedun altro, per quanto anch'essi non marini, ne ebbero qualche sentore: ed essendo pur avidissimi, riuscirono tuttavia a far scorrere l'ingranamento fra i bordi e gli uffici di terra, con minore asprezza degli attuali. Si noti: io non imputo affatto a carico dei dirigenti dell'armamento tutte le resistenze opposte al miglioramenti economici: le concedo senz'altro per giustificate e legittime, dal punto di vista armatoriale. No: l'accusa vera concerne il loro "stile" di trattare gli affari dell'armamento, stile aridamente bancario, sprovvisto di tutta quella agilità e pastosità, direi, di ogni traccia di sentimentalità, che sono indispensabili per trattare coi naviganti. Così, essi offesero i pochi veri marinai che restavano ancora a bordo delle navi: e si dimostrarono degnissimi managers di quella turba di spostati, che diede l'arrembaggio ai piroscafi italiani.

    Forniti di prebende sicure e fortissime (i due direttori della Nav. Gen. It. liquidarono ciascuno a quanto risulta dal bilancio sociale dell'ultimo anno, L. 450.000 circa, non hanno nessunissima passione per l'industria degli armamenti, e ignorano spesso la storia di quelle compagnie, in cui essi sono stati insediati per ordini venuti dall'alto.

    Per comprendere tutta la bassezza di questi cosidetti industriali dell'armamento, basta porre a loro confronto, non diciamo i "vecchi" della marina italiana, ma qualche tipo di grande armatore estero: per esempio Alberto Ballin, il grande amburghese fondatore dell'Hapag. Il Ballin non fu né un uomo di mare, né un discendente di famiglia di armatori: fu anch'egli legatissimo al mondo bancario: ma quale impeto di produttore, quale larga concezione di una marina moderna, quale coscienza dell'unità della sua Hapag, quale distanza dai vermi solitarii della Marina Mercantile Italiana!





Disgregatori degli equipaggi

    È chiaro, che costoro non opposero, nei tempi difficili, nessuna valida resistenza al Giulietti. Sopratutto nelle questioni più "marinare", come quella della posizione degli Stati maggiori, e sopratutto dei Comandanti, essi furono di una larghezza inconcepibile per qualunque armatore inglese.

    Essi acconsentirono perfettamente che il Comandante facesse parte della Federazione, perché, per conto loro, essi lo avevano già da tempo retrocesso al rango di un nostromo, un pò più gallonato e un po' meglio pagato. Così, per molte altre esigenze federali. La regolamentazione del turno d'imbarchi e sbarchi, reclamato dal Giulietti per la Federazione, toglieva all'armatore ogni controllo sulla composizione degli equipaggi, ogni scelta di personale adatto alle varie linee e alle varie navi: rompeva quella relativa stabilità di imbarco, polverizzava quella ideale unità tra la nave e il naviganti, che sola può fare la grandezza di una marina: tra questo era ed è perfettamente indifferente ai Commendatori Brunelli, Biancardi o compagni, i quali hanno già da tempo polverizzata tutta la flotta della loro compagnia in azioni, e tutti gli equipaggi in gruppi di salariati, ch'essi passano da una Compagnia all'altra, in proporzione dei trapassi dei piroscafi, cioè delle azioni.

"The Captain's cigar"

    Costretti a battersi con un avversario come Giulietti, lo imitarono dove fu loro possibile. Credettero di poter vincere d'astuzia l'uomo forse più scaltro d'Italia. Posero solennemente delle pregiudiziali ad persònam, e poi cercarono di venire a contatto con lui, uno all'insaputa dell'altro. Più facile di tutto, fu ad essi tenergli dietro nella esaltazione sistematica del marinaio italiano, della gente di mare: si gareggió tra Giulietti e gli armatori a dire il più gran bene del mondo di questo miracolo, di questo fenomeno di questo gloriosissimo eroe, che è il navigante.





    L'eloquenza conviviale del senatore Rolandi Ricci, per esempio, non conosce freni quando si tratta di adulare dinanzi allo sciocco pubblico, i marinai d'Italia, tutti eroi. Le tradizioni della marina mercantile italiana di cui il sen. Rolandi Ricci e gli altri uomini dell'armamento non sanno assolutamente niente, fioriscono sempre nei loro programmi, nei memoriali a Ciano, nelle proteste a D'Annunzio.

    L'ultima, e la più bella, è questa. L'invasione armata della Casa dalla Gente di Mare - nelle mente di parecchi armatori - avrebbe dovuto preludere al disgregamento dell'organizzazione. Ciò non toglie che pochi giorni dopo, l'on. Luigi Luiggi, legato precisamente agli armatori che hanno tirato il colpo barbino, chieda affannosamente al Ministro Corbino se la Stella al merito del lavoro può essere conferita anche a lavoratori del mare, e tiri un sospiro di sollievo quando Corbino gli risponde: sí può essere conferita! Dio sia lodato! Giulietti ottenne, per interi equipaggi, in massa, la croce al merito di guerra: gli armatori otterranno dozzine di croci al merito del lavoro! La gente di mare è più eroica che mai, anche se gli armatori fan sciogliere le sue assemblee a suon di legnate!

    Queste croci offerte all'eroismo dei naviganti fanno ricordare i Captain's cigar rimasti famosi nella marina britannica. Ogni raccomandatario di vapori dei porti indiani teneva un tempo sulla scrivania, una scatola piena di sigari grossolani e puzzoni, riservati espressamente per i capitani di mare in visita: Captain's cigar, i sigari buoni per le gole di cartone dei marinai.

    L'armamento italiano non ha saputo finora offrire altro alla gente di mare, che una grossolana e puzzona adulazione, le ciarle sulle gloriose tradizioni marinare, San Giorgio e San Marco, l'avvenire dell'Italia sul mare - tutti sigari raschiagola che gli armatori non fumano, ma che tengono in serbo, sulla loro scrivania.





LE "CARATTERISTICHE" DI GIULIETTI

    Alla infelicità dei naviganti italiani, sperduti in mezzo alla industria moderna dell'armamento, decaduti dall'antica dignità dell'equipaggio velico al nuovo avvilimento di ciurma del transatlantico, sovvenne dunque Giulietti. Per molti antichi marinai, per esempio, il patriarcalismo famigliare con cui egli li trattava, le locuzioni marinaresche - "sono in disarmo", "vado a riva" - con cui adombrava tutte le complicatissime peripezie sindacali, ebbero il profumo del vecchio buon tempo antico: e salutammo la fondazione della Cooperativa "Garibaldi" come un ritorno ai sistemi tanto rimpianti della "paccottiglia", e mal sostituiti, a bordo dei transatlantici, con l'imbarco dei clandestini e il contrabbando dei liquori.

Il più grande e onesto dei sensali d'imbarco

    I naviganti sono sempre ingenui: sottoposti a bordo ad una specie di disciplina militaresca, cercano a terra la baldoria, e sono molto larghi con le categorie di persone che, per lunga tradizione di tutti i porti del mondo, li sfruttano. Sensali d'imbarco; e tenutarii di case di alloggio furono i veri consolatori della gente che naviga, per intiere generazioni: "consolatori" nel significato più completo, perché trattavano il povero gabbiere sbarcato come un signore, e lo circondavano di tutti quegli agi terrieri, che per un marino resteranno sempre un mistero: e lo salvavano dalle ronde, e gli davan di mano nel contrabbando, e gli curavano il bucato, e gli trovavan l'imbarco. Ebbene: la Federazione Giuliettiana fu una grande casa d'alloggio, una grande bottega da sensale di imbarchi: sì inquadrò bene nella tradizione dei porti mediterranei, fu disordinata e sudicia, ma accogliente: fu piena di risse, ma i carabinieri non vi mettevano piede: taglieggiava gli stipendi con le ritenute, ma procurava imbarchi buoni. Bisogna aver frequentato, non la nuova sede di Corso Oddone, ma l'antica di San Marcellino a Genova, per capire come la Federazione discendesse in linea retta dalle gargotte dei bassi porti, e come Giulietti sia l'ultimo glorioso consolatore della gente di mare. I suoi aiutanti, che aspettavano l'arrivo dei "bordi" per raccogliere ritenute, firme e reclami, rappresentavano un genere di intermediari affine ai sensali, al tenutarii, ai fornitori di tutti gli oggetti inutili che il marinaio compra nei porti: e al disopra di essi, v'era il loro principale, Giulietti, il più bravo di tutti, che faceva la senseria per amor della povera gente e non per lucro, il terriero che sapeva come va trattata la gente che naviga: confessore di infinite miserie, adulatore di una classe di spostati, confidente di vergogne nascoste, un tantino ricettatore: il più grande di tutti i sensali.





    Ed egli come sensale, non li tradì mai. I suoi clienti ebbero sempre da lui più di quando chiesero. Fu il più sottile di tutti causidici, fu un abilissimo banchiere, fu avvocato principe: i suoi commenti al Contratto di lavoro strappato alla Commissione paritetica presieduta dall'on. Bonomi nel 1920 restano, a mio avviso, esempio memorabile di sottigliezza curiale. Neppure le ribotte romagnole riuscivano a sospendere la sua formidabile lucidità in materia d'affari.

Il precursore delle sagre

    Poi, dopo settimane di discussioni a Santagostino o nelle Commissioni paritetiche che sorgevano come funghi, arrivava anche per lui la sua giornata di sole, di follia, di imbonimento. Mardocheo e i suoi trionfi, Ludro e la sua gran giornata, Giulietti e il suo comizio col megafono. Fu lui, credo, a introdurre il megafono nelle costumanze mitingaie italiane. Egli ha un guëule fortissima, resistente: e amava convocare "sui bordi" la gente di mare, e dal ponte di comando mettere in movimento la sua guëule, e quanto più sole, più folla, più bandiere, più urlanti sirene, più fanfare erano attorno a lui, tanto più si esaltava in lui la generosa anima di Romagna.

    Non credo che questo marinaio della Terza Italia abbia mai provato l'intima soddisfazione dei pivetti che scendono a riva dopo aver bene chiuso il loro primo velaccio: egli non s'intende di raccogliere nelle sue vele il vento degli oceani, ma era grande l'arte di raccogliere nelle ali del mulino a vento della sua eloquenza tutti i rutti e le flatulenze, tutte le grida e i sospiri di una ciurma liberata dal remo, e appena sottratta all'aguzzino. Il ponte di comando della nave, per lui, era essenzialmente questo: il posto più acconcio per urlare col megafono. Tutte le altre destinazioni marine, o le dimenticava, o più semplicemente le ignorava.

    Dall'alto del ponte, egli ebbe i suoi colloqui con le ciurme, prima, oh, assai prima che D'Annunzio a Fiume inventasse le parlate alla ringhiera, e Mussolini rifacesse la tattica oratoria dannunziana, come un maestro di scuola può rifarla ad uso di una folla di mangiapagnotte. Anche nella eloquenza, egli fu un precursore dell'Italia novissima.





    Dopo aver lasciato che il sole maturasse ben bene il cranio ai suoi federati, egli chiedeva con la voce rauca dei gargarismi sagraioli o postribolari: "Federati, confermate voi la vostra fiducia al Segretario federale?", "Siii!", Riconoscete per ben fatto quello che ha fatto?" "Siii!". "Approvate ch'egli impieghi i vostri fondi come gli pare più opportuno?" "Siii!.." "E se lo credessi opportuno, potrei seppellirli in fondo al mare?..." "Siii!.. ". "E se la reazione armatoriale ci insidiasse, sareste pronti a riprendere la lotta fino allo schiacciamento delle luride canaglie di palazzo Raggio?". "Siii!" "Applausi frenetici che durano per più minuti", come dice la Stefani riferendo di identici "colloqui" tenuti dal Capo del governo nazionale al popolo di Firenze o alle Camicie Nere di Milano, dalla ringhiera di Palazzo Vecchio o dal balcone di Piazza Belgioioso. Applausi frenetici. Giulietti infatti, sulle calate, sui bordi, nella sua casa di corso Oddone, ebbe sempre il consenso del popolo, fu sempre vicina al cuore della nazione, per usare il frasario dei giornali ufficiosi che parlano dell'on. Mussolini. La sagra, rivoluzionario-patriottica, ariosa ed imbonitrice, è Giulietti che la inventò, quando ancora gli altri languivano nei comizi a base di bandiere rosse, tetri e sbaccellati come una vignetta di Scalarini...

La sua risata

    L'esercizio della guëule, continuato per parecchie ore, sotto il sole, gli centuplicava forza e astuzia: i colori crudi e marcati delle vernici e dei pavesi, il frastuono della ciurma, e l'odor speciale dei bordi composto di sudore, di catrame, di rigovernatura di stoviglie e di vernice lo rinvigorivano. Alla sera delle sue grandi giornate, egli si sentiva tanto forte da essere completamente sincero. Accaldato come un guappo reduce dalla zuffa, egli raccontava i suoi successi con un riso gorgogliante, e gli occhi sbarrati, applicando per abitudine all'unico ascoltatore le seduzione usate poche ore prima con la folla.





    Il giorno 22 Febbraio 1922, egli aveva spedito in Russia una nave della "Garibaldi", l'Amilcare Cipriani, con un carico di soccorso per le vittime della carestia: aveva presieduto una grande sagra marinara, annunciando lui stesso, a colpi di grammofono, le comparse e i numeri dello spettacolo. Alla sera egli mi tenne questo discorso, che io notai immediatamente come esempio non superabile di delirium tremens demagogico: "Hai veduto oggi eh? Che pasticcio, che confusione, che baracca!..". Egli agitava la braccia, come per rimestare qualche enorme matassa, come per dimenare il bastone dentro la zangola, come per sciorinare al sole i mannelli di fieno. "Ho fatto parlar tutti: Rizzo l'affondatore, Serrati neutralista, una anarchica, un combattente, tutti una baracca, tutti una confusione, via, via, Fedemarina, fedemarina!". La risata era gargantuesca, la risata del gran cacciatore, la risata dello sbrodolone, la risata del ciccialardone: quella che, in Italia, si é convenuto di chiamare "la risata romagnola". Poi fissò gli occhi nel vuoto, e diceva: "Ah, come siete stupidi! Con un giornale come questo, quante cose da fare! Imporsi! Lanciarlo! Grande tiratura! Centomila copie! Duecentomila copie! Per i federati sparsi in tutto il mondo! Per la Fedemarina!". Era stanco, un minuto, e si ricacciava sulla fronte il ciuffo, con quel gesto "rivoluzionario" che piaceva tanto ai sovversivi dell'entourage dannunziano, a Fiume. Poi ripigliò ancora, con infinito disprezzo, spampanato ingenuamente in tutte le parole: "Voialtri non capite niente. Non vedete tutta l'opera feconda che c'è da fare. Genova, un centro così! Le Riviere, tutte industrie! Ma è roba da cambiare la faccia a Genova! Avanti! Aprire strade! Ricostruire! Realizzare! Sfondare i monti!". Gestiva per segnare grandi strade rettilinee - autostrade! - Aperte verso mete a lui solo visibili. La voce si trascinava rauca sulle vocali: straade, moonti: era l'invasato, l'apostolo della palingenesi sociale: Simon Mago, predicante "Aprire straaade, sfondaaare i mooonti, si ti dico, si!". E mi afferrò per il braccio, convulso, sbavandomi vicino all'orecchio tutto il suo amore per l'umanità. Un minuto di silenzio: poi, rapida, felina, cinica, la battuta finale: "Qualcheduno pagherà". Una alzata di spalle, e una sghignazzata: lo sberleffo dì Simone Mago precipitato, o se più vi piace, la disinvoltura del ministro dinamico per il deficit che si aprirà come un baratro, quando la féerie sarà finita, sotto i piedi del successore.





I suoi gusti culinarii

    Ma i Simoni maghi italiani, dopo la caduta non muoiono: si mettono a tavola. Corsi faceva Giulietti. Nei periodi di esilio o di "disarmo", rispunta in lui un uomo nuovo, ancora "un altro" Giulietti, diverso dai conosciuti: un'altra incarnazione dello spirito santo della Romagna: un Giulietti ghiottone.

    Di tutte le accuse di dilapidazione rivoltegli, non ne credo una: egli è troppo grande finanziere per fare il colpo sulle cento o sulle duecentomila lire dei federati: non è un "organizzatore" dei soliti. E quando si ravvolgeva nella matassa delle sue insidie e delle sue manovre, non so quando mangiasse, e non so in qual letto mai avesse tempo a dormire; altro che bagordi! Ma poi, ogni tanto, capitava la necessità della fuga. Ci fu un lungo periodo, nel 21-22, che il mandato di cattura incombeva su di lui per una complicata faccenda di pirateria compiuta nel porto di Genova sopra una nave russa. Ogni volta che l'arresto pareva indeprecabile, Giulietti era avvertito da qualche provvida telefonata. Il tempo di tirare la saracinesca sulla sua scrivania all'americana, di intascare le chiavi: l'automobile lo aspettava. - sempre! - dinanzi alla porta: ed egli filava per Circonvallazione a Mare e la Riviera di Ponente, verso San Marino. Fece questo, più volte, tempo massimo, cinque minuti: e chi l'ha veduto in questi frangenti capisce subito l'immensa parte che avrà l'automobile nei manuali di storia dell'avvenire, nelle cadute dei regni e delle dittature: ah, Cola di Rienzo non si lascierà mai più cogliere a caval di un ciuco!





    E a San Marino, tavola imbandita. Non era, no, la stolta dissipazione nei grandi hotels, come la fanno, di solito, gli organizzatori diventati commendatori. Giulietti tesoreggiava il suo fondo dì guerra anche nei periodi sanmarinesi. Erano invece sostanziose e casalinghe pappatoie romagnole; da Rimini i suoi parenti gli mandavano il meglio pesce, e l'ostessa gli preparava i cappelletti e il pasticcio di maccheroni all'uso del paese. La lunga consuetudine ai cibi grevi si risvegliava, e il disprezzo sovrano della gente di quella terra per i legumi cotti, buoni a farsene un empiastro sul sedere: e Giulietti trasformava San Marino, da rocca d'esilio, in "un gran castellazzo, dove siffanno i continue magnazze". Spogliatosi di tutte le appiccicature della vita di una grande industria moderna, mondatosi delle esigenze delle città lontane, levatasi dì mezzo agli equipaggi dei transatlantici, egli ridiventava il suddito papalino esemplare, preoccupato sopratutto di far funzionare il matterello sulla sfoglia di pasta all'uovo e niente poesia. D'Annunzio, a Gardone, intonava i salmi di guerra come un monaco abruzzese, ma Giulietti a San Marino li finiva tutti in gloria come un perfetto e tradizionale parroco romagnolo.

Il suo generoso sovversivismo

    Simpatico a tutti gli italiani. Di italiani che avessero per lui una repulsione viscerale, irragionata ma assoluta, il disdegno del signore che stacca da sé con uno sguardo il metèco, non incontrai che pochissimi numerabili sulle dita di una mano. Menotti Serrati fu uno di questi: settario, noioso, ma non farinella. Tutti gli altri soggiacquero a questo perfetto rappresentante del sovversivismo da paese di preti. Il mio amaro divertimento fu, per degli anni, rintracciare in deputati "liberali", in organizzatori del Combattentismo, in professori di Università, in giornalisti pagati dagli armatori, negli armatori stessi infine, l'affiorante indulgenza per il "generoso romagnolo".





    Giulietti piace agli Italiani. Piace perché è romagnolo, perché è un "ardito marinaio", perché si fa venire il ciuffo sulla fronte, perché quando parla bestemmia e squassa la criniera, perché è furbo, perché vince, perché è una schienaccia, perché - come dicono - è un "ribelle"; ultima definitiva assoluzione per un popolo di spostati.

    Ma c'è dell'altro. Le generazioni di chierici, di paglietta, di mimi e di lazzari, che stanno dietro ad ogni italiano vivente, e parlano spesso ed agiscono per bocca e per mani sue: i secoli di servitù non cancellati dai nomi nuovi, si riconoscono in Giulietti, amano Giulietti, suscitano attorno a lui un alone di propensione occulta talvolta, ma immancabile. Ad un uomo del conio di Giulietti, gli italiani non possono resistere. Egli li seduce, perché ostenta al sole ciò che tutti portano nascosto, coperto da una vernice di rispettabilità. Giulietti li affascina, perché espone le tendenze morali di una razza, e se ne vanta, e proclama che in quella tendenza è l'avvenire. Tutti gli italiani sono un po' Giulietti, portano in sé stessi una ennesima razione di giuliettismo: al momento buono, questo giuliettismo si fa sentire che c'è. Prima o poi, tutti gli italiani si scompisciano di compiacenza dinanzi al nuovo Prometeo, al Prometeo "à rebours", che rivendica per loro dagli dei il diritto di essere "sovversivi", di quel vago sovversivismo scolpito dalla frase dell'anarchico pisano: "E io, alla buona educazione ci vo in..."





Il suo "buon senso"

    Quei pochi che non riusciva a tirarsi dietro con la foga di "ribelle", cedevano, in altre ore, dinanzi alle sue arti di uomo ragionevole e equilibrato. La speranza che Giulietti "si moderasse", "si liberasse dalle sue anime dannate", era cronica in taluni ambienti che avevan da fare con lui. Si scambiavano le sue occhiate tra cocottesche e abbaziali per sintomi consolanti da rinsavimento: si tirava un sospirone: "Ah, ma però, ha un fondo di buon senso, solido, quadrato, romagnolo!". Egli operava, con l'ostentazione del suo "buon senso", conversioni a vista. Aveva in riserva un "buon senso", graduato particolarmente per gli inviati dei grandi giornali, un altro "buon senso" graduato in modo speciale per Domizio Torrigiani e per i mannequins del Grande Oriente, un altro "buon senso", "tipo extra" per gli stranieri in visita alla casa della Gente di Mare, un altro "buon senso" extra dry per i rappresentanti del governo: e ognuno di questi stolti che credevano di trovare in lui un orco sovversivo, se ne partiva tutto orgoglioso di aver "convertito" Giulietti, di avergli dato dei consigli, che quell'altro aveva ascoltato a testa bassa, pio come un ragazzino della Prima Comunione: in una parola, se ne partiva giuliettiano, lieto di servire gratis sulla stampa o nei Ministeri un generoso ribelle che aveva lusingato il suo amor proprio con dei gesti da prete, un po' d'olio e di untuosità sulla lingua e sulla pelle, e con la bocca atteggiata a croupion di oca di Natale.





Le sue seduzioni

    Questo, per gli italiani disinteressati. Che poi c'erano gli altri. Nessuna delle lancie spezzate del giornalismo armatoriale sentì mai una opposizione di principio o di temperamento contro di lui: lo insultarono, perché erano pagate da altre botteghe, ma avevano per lui la malcelata ammirazione che Pietro Nenni ha per Mussolini.

    Tutti quelli che ora strillano contro di lui, e che lui, parsimonioso amministratore, fece "marcher" per poche centinaia di lire. Fu uno sparagnino della corruzione giornalistica e ministeriale. Aveva il gusto delle "combinazioni". Nell'estate del '20, proprio nel bello del Patto Marino, il suo centralino telefonico funzionava alla redazione del Popolo d'Italia. Il nuovo regime fu per lui l'ambiente di operazione ideale. Con nessun gabinetto ministeriale dell'Italia putrida egli fu in relazioni così intime, come col gabinetto dell'on. Ciano, ministro dell'Italia rigenerata. Per quanto alte si mettano le sue sovvenzioni alla stampa, egli non spese neppure la decima parte delle cifre che furono scritte, allo stesso scopo, nel libretto di chèques del comm. Trucco, il fiduciario delle Compagnie transatlantiche: e fu servito sempre meglio.

D'Annunzio e il bel pirata

    L'arte, che Giulietti possiede nel sedurre gli italiani, culmina nei suoi rapporti con D'Annunzio. Nego che D'Annunzio lo abbia appoggiato per così lungo tempo, per sole ragioni di stipendio. Giulietti è parsimoniosissimo amministratore: non spese mai molto per sé, pagò malissimo sempre i suoi aiutanti e tirapiedi, e pagò male anche D'Annunzio. Se dicessi qui le cifre che mi furono riferite, molti meraviglierebbero che "la divina poesia" navighi in acque così basse. No: Giulietti ebbe la suprema abilità di presentarsi in Fiume come un salvatore, come un rude marinaio che predava il mare per conto della Testa di Ferro, e portava le grascie alla Città Olocausta, alla Città di Luce.





    E nella fantasia del Divo restò circonfuso di questa aureola fiumana. Egli fu il "bel pirata", come lo si chiamò a Gardone: e "bel pirata", più ancora di lui, fu il Poggi che nel '19 fu l'esecutore degli atti di pirateria, non so se bella, ma certo vera, in Adriatico. Il bel pirata pubblicò numeri unici in carta patinata con la testa del Poeta, stampò libri clamorosamente invenduti come Per l'Italia degli Italiani, si vestì da terziario francescano quando l'altro glie lo comandava, osservò i riti arcani dei giorni fasti e nefasti, fu insomma un suddito esemplare a Gardone: seppe perfettamente adattarsi, lui ignorante, a tutte le peregrine trovate letterarie, discusse nell'Arengo, abitò nella Maona, e scrisse delle epistole sermoneggianti datandole dalla Maona del Vittoriale. Diede quattrini non molti, ma blandizie e adulazioni come giunta alla derrata e ottenne.

I fuochi artificiali a Gardone

    Qualche volta la grossolanità delle sue manovre attorno alla persona del Divo ebbe forme puerili: leggete un po' questo comunicato ch'egli diramò al giornali nell'agosto scorso, nell'anniversario del volo su Vienna:

    I marinai e i segretari della Federazione Marinara, i quali, per volere del Comandante, sono suoi ospiti, si unirono al saluto commosso e fraterno di una squadriglia di aereoplani volanti a bassa quota sul Vittoriale.

    Contemporaneamente i dirigenti della Federazione Marinara espressero al Comandante l'ammirazione e l'omaggio degli equipaggi della marina italiana.

    Nella serata i marinai hanno festeggiato il Comandante con una manifestazione caratterizzata da spari e luminarie. Ad essa il Comandante ha risposto con entusiasmo fraterno.

    Il Comandante è sicuro che il "Patto Marinaro" sarà applicato.

    Ebbene: io so di certa scienza che questo comunicato, pubblicato su giornali di provincia, piacque molto a D'Annunzio: come molto gli erano piaciuti i mortaretti e i razzi sparati dagli antichi parrucchieri di bordo che Giulietti teneva a Gardone, alla Maona, come rappresentante la devozione della Gente di Mare.





    E onore a Giulietti! In quell'ambiente di Gardone, imitazione male appiccicata di una Commenda di Templarii che hanno gelosia e paura di Filippo il Bello e dei suoi arcieri, Giulietti forse, nell'anniversario dei volo su Vienna, riuscì a portare la prima serata di ingenua gioia. E tutta quella povera gente sperduta nel labirinto artificiale dell'Arengo, della Ringhiera e del Ponticello, e il Divo stesso furono liberati dall'incubo letterario, e ritrovarono tutta la loro provincialità grazie a lui. Il geniale romagnolo ridiede loro le sane e semplici emozioni dei cafoni abruzzesi, amantissimi, come tutti sanno, dei giochi pirotecnici: ridiede loro i razzi e le girandole e le candele romane, turbinanti dinanzi ai portali normanni o alle torri romaniche, in tutti i paesi tra la Maiella e il mare, la sera del santo patrono.

Gli armatori sono giuliettiani

    Gli armatori posero contro Giulietti delle "pregiudiziali" dandosi l'aria di sollevare la questione morale: sarebbero stati rispettabili se avessero tenuto fede alla esclusione ad personam, ma si resero ridicoli andando in pellegrinaggio a Gardone, ammansiti dalle parole del Poeta, e cercando di esser più furbi di Giulietti.

    Qualunque armatore inglese o americano, cioè qualunque vero industriale dell'armamento, e non trivellatore, ha il diritto di mettersi a ridere sulla faccia dei commendatori Brunelli, Biancardi e C., che, per decadere una controversia sindacale in una grande industria andarono anch'essi al Vittoriale per fare le riverenze dinanzi agli altarini edificati da D'Annunzio: "il vecchio calamaio di pietra veronese, e, presso la spiga, la penna umile con cui fu scritto ma non sottoscritto il patto", oppure "il patto sul leggio, a piè della colonna romanica", oppure "la coppa dei rami d'ulivo, e il serpentello nella base: Ad me redeo, hinc horreo"; e osservarono anch'essi, per essere ricevuti, i riti prescritti, e baciarono anch'essi divotamente il simulacro fallico eretto in mezzo alle aiole. In realtà, anche essi sono giuliettiani, e ammirano il loro avversario, e non sentono nessunissimo disgusto per i suoi espedienti: tant'è vero che, quando possono, li attuano, come la sera del gennaio, facendo funzionare contro Giulietti la sedizione dei pretoriani.





    È da notarsi questo: che degli armatori italiani, uno solo, il comm. Cosulich di Trieste, parlò alto e forte a D'Annunzio, anche in mezzo agli altarini del Vittoriale: e gli fece comprendere quale enorme diversità ci sia tra una intrapresa industriale e una sagra permanente. Cosulich solo andò a Gardone, sentendo disgusto, il disgusto dell'industriale moderno, dell'uomo d'affari, del capitalista - verso il leggio, e la colonna romanica e il serpentello D'Annunzio-giuliettiano.

    Ma il comm. Cosulich, italiano pure soli, è austriaco di educazione: e ciò spiega la sua resistenza. Gli armatori suoi colleghi sono così intimamente giuliettiani, che per vincere nella lotta di furbizia con Giuliotti, sarebbero disposti, non dico a baciare il Phallus di Gardone, ma a sedervicisi sopra. Anche gli armatori sono, rispetto a Giulietti, fratelli d'Italia.

Le diffidenze degli stranieri

    Invece, profonde, istintive erano le diffidenze che Giulietti suscitava presso gli stranieri. Mi ricordo il probo, prudente De Winne perfetto signore fiammingo, direttore del Peuple di Bruxelles, in visita alla casa della Gente di Mare. Dopo che Giulietti, con la consueta stereotipata ostentazione di termini marinareschi, gli aveva fatto ammirare tutto, dal grande salone adorno di tutti i testoni di celebri libertarii, alla scheda di federato di Gabriele D'Annunzio Winne mi avvicinò e mi disse: "Pardon, monsieur, est-ce que Vous croyez qu' il y ait quelque chose de socialiste, ici?". Gli era bastata una occhiata per capire quello che molti italiani non hanno capito mai.

    Nelle adunanze sindacali internazionali, Giulietti produceva un effetto assolutamente simile a quello che un altro grande italiano produsse, nel l922, a Losanna ed a Parigi. L'inscenatura era identica. Presentazione en beauté, grande successo di curiosità: poi, ostentata strafottenza, gaffes, le convenzioni della pratica diplomatica o semplicemente della buona società rigettate come un impaccio, l'incazzatura a freddo, la scenata: la scenata infine, cioè l'apoteosi dell'italianità romagnola.

    Nella Conferenza Internazionale dei Marinai, tenuta sotto gli auspici della Lega delle Nazioni a Palazzo San Giorgio, nel Giugno 1920, tutta la "squisita originalità" di Giulietti mi saltò più volte agli occhi. Giulietti, rappresentante operaio per l'Italia, si comportò in quella occasione "imperialmente", "futuristicamente": si valorizzò, diede il modello del perfetto diplomatico dell'Italia rinnovata e dinamica.





    L'ambiente era grigio, pieno di seriissimi e tetri rappresentanti padronali e operai, di cui non si sapeva se questi fossero più protocollari e "correct" di quelli. Il generoso romagnolo, anche in questo, fu un precursore di sistemi che altri perfezionò a Parigi e a Losanna. Volle far paura. Pronunciò, subito, uno sguaiato discorso di saluto, in cui ammoniva gli armatori a star buoni, perché altrimenti i marinai si sarebbero presi tutte le navi. Naturalmente tutti rimasero scandalizzati, e più di tutti risero i rapresentanti operai esteri. L'inglese Mr. J. Havelock Wilson, President of the National Sailor's and Firentan's Union, un fortissimo capo sindacale, lo guardava sbalordito. M. Rivelli, segretario della Federazione Nazionale dei sindacati marittimi francese, che pur gode fama di violentissimo, espresse così il suo istantaneo giudizio sul collega: "Je vous plains: Vous avez à faire avec un fou". Questi stranieri volevano subito staccarsi da ogni colleganza sindacale con uno sbardellato italiano.

Precursore anche in politica estera

    Lontanissimi dal provare paura erano invece seccati della sua presenza: e glie lo facevan capire: oh, se glie lo facevano capire! Giulietti - precursore, vi dico, sempre - intuiva perfettamente che la sua politica estera non attaccava: e si rifaceva dicendo che tutti osteggiavano e isolavano la Federazione Marinara italiana, gelosi dei suoi trionfi, e invidiandole un capo come lui: la formula solita, che abbiamo udito ripetere, da altri, nel l923. Ma mette conto di riprodurre, testualmente, un tratto del resoconto stenografico del Bureau Int. du Travail. Le indicazioni sono secche e schematiche, ma bastano a ricostruire l'episodio, svoltosi dinanzi a rappresentanti di tutti i paesi. è la tipica scenataccia giuliettiana; ma si potrebbe anche intitolare: "La figura dell'italiano che crede di imporsi".





    Presiedeva Mayor de Planchés, barone, ma italiano, e quindi succube alla maleducazione dinamica. Assisteva, come segretario generale, Albert Thomas: non barone, ma parigino, e quindi non succube: il quale, a un certo punto, intervenne direttamente.

    Giulietti, che già cominciava a sdegnare la Conferenza, aveva delegato la propria rappresentanza a un certo avvocato Giglio. Viceversa, a un certo punto della discussione, parendogli che il Giglio se la cavasse male, volle scavalcarlo. Delegazione o no, rappresentanza o no, regolamento o no, lui, il generoso romagnolo, se ne fregava: lui, voleva parlare. Si è mai impedito a un romagnolo di parlare?

    Il presidente - Signor Giulietti, devo dirvi che siccome avete conferito i vostri poteri al Signor Giglio, questi ha preso la parola in vostro nome.

    Giulietti - Vi domando scusa, signor presidente...

    Il Presidente - Signor Giulietti, voi non avete la parola.

    Giulietti (a gran voce) - Io protesto (Esclamazioni) Io desidero parlare per una mozione d'ordine.

    Il Presidente. - Voi avete delegato i vostri poteri. Oggi voi siete assente dalla Conferenza. È il signor Giglio che vi rappresenta (numerosi segni di approvazione).

    Giulietti (a gran voce) - Dov'è scritto dunque che non si può parlare due volte sullo stesso argomento? (Proteste su un gran numero di banchi).

    Alberto Thomas, segretario generale - Sta scritto sui nostri regolamenti.

    La vostra Conferenza, amico Giulietti, è una conferenza diplomatica. Bisogna fare una distinzione fra un congresso operaio e una Conferenza diplomatica, che ha le sue regole, i suoi diritti, e che impegna i governi.

    Voi siete presente qui, ma, avendo delegato i vostri poteri al signor Giglio, voi avrete bello urlare il più forte possibile ("Vous aurez beau crier le plus fort possible"), voi resterete assente. (Vivissimi applausi).

    Giulietti (urlando).Viva la libertà!

    Un delegato belga - Vive la liberté de tout le monde! (Vivissimi applausi)".





    E così, Giulietti non parlò. E se ne andò, squassando romagnolescamente la chioma, bestemmiando, gridando - si capisce, sempre a freddo, com'egli suole. Ma, di quelli stranieri, nessuno era impressionato. Non assistetti mai ad una "messa a posto" inflitta così di marca, maggiore. Dopo di allora, Giulietti non fece più politica internazionale. Giulietti è uno specifico tutto per uso interno.

Il virtuoso della scenata

    "Viva la libertà!". Con questo stesso grido, egli uscì, la sera del l3 Giugno 1920, dalla Rispettabile Loggia Trionfo Ligure-Secolo Nuovo, all'Oriente di Genova: si strappò il grembiulino massonico, ne fece un rotolino, e pàffete, sulla faccia del Venerabile: e poi se ne uscì, sbattendo gli usci e gli usciolini, pim, pum, passa Giulietti, viva la libertà.

    I poveri fratelli, che avevan creduto fino allora di dominare nientemeno che la Federazione Marinara, e coccolavano Giulietti come il più bell'ornamento della Rispettabile Loggia, rimasero come statue di sale.

    Mi duole di non avere a mia disposizione il verbale della Loggia massonica. Sono certo che messo a confronto col resoconto del Bureau International, ne risulterebbe la completa identità di procedimento. Giulietti, che per il volgo è un impetuoso, un impulsivo, un sangue caldo; è invece un sistematico della scenataccia, un virtuoso della cagnara. Lo osservai più e più volte. Quando vuole fare la scenata, tratta il suo uditorio come il canaro tratta la muta dei cani. Da lo spunto, piglia l'aire, alza il tono: ama le proteste e gli urli, e serio come un direttore d'orchestra sul podio, assorbe in sé questa armonia discordante, la dirige, la rinforza: sicuro di dominarla, al momento voluto, colla sua guëule, che è la più forte, la più latrante di tutte: "Viva la libertà!". Poi non si riconosce più, si diletta, applaude, si torce: ma mentre gli altri uomini sono ancora pervasi del furore canino da lui suscitato egli è già uomo: sottile, causidico, calcolatore freddissimo del profitto che egli può trarre dall'oscena mischia. La scenata è per lui il pezzo forte, come la cavatina per i tenori: e tutte le sue arti parlamentari e diplomatiche culminano in queste eruzioni premeditate di un vulcano sì, ma artificiale.





    Di tutte le scenate giuliettiane, l'unica che vidi fallire, abbiosciarsi completamente nel gelido vuoto creato attorno attorno al canaro dalla buona educazione, fu quella della Conferenza internazionale dei marinai. Era per gli stranieri. Tutte le altre, ch'egli fece e rifece nelle Commissioni Paritetiche, nelle adunanze sindacali, alla Camera, alla Maona del Vittoriale, nelle Loggie Massoniche, dovunque, gli riuscirono sempre. Erano per gli italiani.

    Si potrebbe fare un trattato del "Diverso effetto della incazzatura a freddo sugli italiani e sugli stranieri".

La difesa dell'organizzatore

    Sul terreno del movimento sindacale, il fenomeno Giulietti documenta insieme: 1° lo spaventoso infantilismo delle masse operaie, 2° lo spirito da avventurieri, e non da moderni capitani di industria degli armatori.

    La condanna della categoria marinara come accolta di spostati e di lumpenproletaria impreparati alla grande industria moderna esurge dal fatto che solo un cagliostro come Giulietti ha potuto organizzarla e guidarla, e che la sua provvisoria scomparsa segna il tracollo della Federazione.

    La condanna degli armatori è segnata dalla nessuna seria resistenza opposta da essi nei tempi prosperi, quando pure Giulietti comprometteva l'industria dell'armamento nei suoi progressi tecnici, che dovrebbero stare sopratutto a cuore ad industriali moderni: e dei metodi di lotta assolutamente giuliettiani ch'essi impiegarono contro la Federazione, facendo i buffoni a Gardone, i mandanti di aggressioni a Genova. La serietà delle lotte del lavoro consiste in questo: che la severa e corretta resistenza del capitalista educa la massa arretrata dei lavoratori alla autonomia. Ora, la resistenza degli armatori, nei tempi dei trivellamenti intensivi (sovvenzioni e requisizioni di guerra) non fu mai severa: ed oggi non è corretta, perché oscilla tra le corruzioni di personaggi influenti e le spedizioni di guappi.





    Giulietti è il meritato castigo di Dio per una categoria di imprenditori, che è certo la più bassa di tutta la industria italiana come spirito ed educazione capitalistica: incapace di sviluppare l'armamento mercantile senza attingere alle casse dello Stato, o senza far bastonare i naviganti: ondeggiante fra la routine di qualche armatore libero che ha ereditato tutta l'avarizia e l'ignoranza degli armatori di Camogli, e il cinico bluffismo degli Amministratori-delegati delle Anonime, sovvenzionatori della Marcia su Roma, e di tutte le marcie successive.

    Altri tenti dunque la difesa e la riabilitazione di Giulietti, di fronte a questi avventurieri, non industriali dell'armamento. Potrà farlo con successo, sopratutto in base alla cronaca di questi ultimi mesi, ai retroscena della sedizione del 2 gennaio, ed a tutto quanto vien fuori a comprovare quale razza di venezuelani siano gli armatori d'Italia.

La difese del perfetto italiano

    Io non mi curo di questo.

    Io rivendico invece il nome di Giulietti, come quello del perfetto cittadino d'Italia, sotto il regime attuale.

    Nessuno, meglio di lui, può apprezzare al loro giusto valore le arti di governo oggi trionfanti: le sagre plebiscitarie, il culto dell'unanimità, l'abdicazione estorta a tutto un popolo esaltato e sofferente, nelle mani di un unico confidente e confessore. Se i sistemi di amministrazione incontrollata oggi vigenti sono giustificati, perché quelli, assolutamente analoghi, con cui Giulietti amministrò la Federazione sono condannabili? Se la burocrazia inaugurata per gli impiegati statali è provvida, perché si rimprovera a Giulietti la espulsione violenta dalle assemblee di pochi critici? Anche Giulietti ebbe vivo il sentimento di autorità, come l'on. Mussolini. Forseché gli applausi frenetici che lo salutarono tante volte nelle adunanze dei Federati hanno un minor valore degli applausi sagraioli da altri cercati su tutte le piazze d'Italia? E se le inscenature della faccia feroce sono ammirevoli nel Capo del Governo, perché dovremmo rinfacciare a Giulietti di essere un teppista? E la sua adulazione sistematica di una classe scadente di lavoratori, val forse meno degli elogi stereotipati alla "divina Italia"? Le deficenze e i dolori della gente di mare non sono quelli stessi che ritroviamo diffusi in tutta la vita italiana? Le fortune dei due capi non sono sorte dallo stesso lombricaio di piccoli borghesi delusi e di proletari infelici?





    Il modo con cui cadde, questa volta, può far pensare ad altre possibili congiure di palazzo, ad altre rivolte di pretoriani, dirette contro chi conquistò il potere con arti uguali alle sue, e lo tiene con gli stessi espedienti. C'è certo in Italia un uomo, che fece questo confronto. Non è possibile che un capo riesca a fanatizzare i suoi fiduciari, come Giulietti aveva fanatizzato i suoi: e pur lo tradirono. Non è possibile che una folla sia devota, come la folla dei naviganti convenuta all'assemblea di gennaio: e pur bastò un gruppetto di sparatori per disperderla. La razza é la stessa, nella Federazione Marinara, e in quell'altra baracca. La Romagna è una. E gli italiani sono dappertutto uguali.

COMMIATO

    Mi è capitato tra le mani questa telegramma: "Marittimi Capodorlando confermano solidarietà capitano Giulietti. Marittimi".

    è arrivato in ritardo, è arrivato isolato. La gente di Capodorlando non sa quanto succede a Genova: è una sezione sperduta, Capodorlando. Ma Giulietti l'ha ammaestrata ai plebisciti di solidarietà, e la povera sezione ha mandato il suo piccolo povero telegramma, che è qui sul mio tavolo, tristi come un rottame di nafragio.

    Capodorlando... Vagamente, mi sembra che sia in Sicilia. Io ho veduto centinaia di questi telegrammi, ho scorso migliaia di queste frasi ridicole. So cosa sono i plebisciti giuliettiani, e non solo quelli giuliettiani. Ma questa carta giallina è caduta sul mio tavolo, portata da qual vento? Dal vento della fedeltà plebiscitaria - o dal vento della fedeltà siciliana? Sono giuliettiani male informati e pronti a tradire, o sono poveri cafoni riconoscenti a chi li fece imbarcare e navigare? Sono cittadini della Terza Italia, paese da cui mi son bandito in esilio: o sono miei compagni di esilio, ignoranti e inconsci della loro fatica?

    Ah, come nel dubbio mi pesano le parole amare di questo scritto! Cos'è Giulietti, cosa sono i suoi trionfi e le sue cadute, e quelli del Giulietti più vero e maggiore? Non lo so: il mio pensiero si perde, il mio orgoglio si piega: io sono stanco di esaurire tutte le mie spiegazioni col disprezzo, e di finir sempre con l'ironia. Fisso lo sguardo su quel telegramma, e gli aridi e secchi caratteri della linguetta gommata mi sembrano indecifrabili e misteriosi, come caratteri runici. Di quelli che inducevano alla venerazione gli antichi germani: i quali, appoggiati all'asta delle battaglie, si arrestavano dinanzi alle pietre runiche, ermetici monumenti della loro stirpe, a meditare; e a sognare.

    Lasciate che mi arresti anch'io, dinanzi a questa telegramma di povera gente, a meditare e a sognare.

GIOVANNI ANSALDO.