Il concetto di "Rivoluzione Liberale"

    Nel principio del 1922, quando sorse questa Rivista, il concetto di Rivoluzione Liberale, poteva sembrare oscuro e poco concreto. Lo Stato così detto liberale, creato dallo statuto albertino, consolidato da una lunga prassi pseudo-costituzionale e parlamentare, formidabilmente assiso sulle basi della dittatura burocratico-parlamentare giolittiana, era attaccato violentemente dalle nuove formazioni, erompenti dal paese, dirette a superarlo da destra e da sinistra, per creare una nuova forma di dittatura, plutocratica o classista, che apertamente dispregiava il mito parlamentare ed intendeva spezzare nelle mani delle vecchie classi dirigenti questo grande giocattolo, che la monarchia aveva largito al popolo per distrarlo da tutte le correnti rivoluzionarie, maturate nel Risorgimento, e presentatesi, dopo la unificazione, più ricche di vitalità, appunto perché insoddisfatte. Sembrava, quindi, assurdo prospettare in termini rivoluzionari il liberalismo quando storicamente il partito liberale italiano, che lo rappresentava nel paese, si era venuto a trovare in opposizione alle correnti rivoluzionarie maturatesi in conseguenza della guerra.

    La Rivoluzione Liberale doveva rimanere perciò - almeno in una fase iniziale - un organo di indifferenziata e complessiva cultura politica, in cui ogni problema venisse esaminato sotto molteplici aspetti da scrittori, la cui serenità di giudizio non fosse menomamente in discussione.

    Compito che si risolverebbe in una superfetazione in Inghilterra - ove la denominazione e la differenziazione dei vari interessi e delle correnti politiche, che li rappresentano, si svolge senza estranee interferenze, e senza che la sfera d'azione dei singoli partiti sia, volta per volta, usurpata da altri partiti; ma così non é in Italia. - dove regna da ottant'anni una dittatura particolarista, comprimente gli interessi della generalità, ed in cui ogni rivendicazione dal basso si pone, per conseguenza, in termini di violenza.





    Ecco la nostra prima intuizione liberale, che chiameremo di metodo, rivolta a rendere possibile quell'interpretazione scientifica della storia contemporanea, e quella analisi obiettiva e serena dei fenomeni nazionali che renderà sempre più rare le improvvisazioni demagogiche, e contribuirà alla formazione ed alla educazione di classi dirigenti, che, invece di sognare facili avventure dittatoriali, colorite da dottrine più o meno esotiche, si avvicenderanno ordinatamente nel governo del paese, cercando di procedere all'elaborazione continua dei nuovi ceti e di farli aderire, volta per volta, allo Stato, in maniera da allargarne sempre più la base.

    Basta, in verità, questo programma per giustificare non soltanto l'aggettivo (liberale), ma anche il sostantivo (Rivoluzione)i tanto ne risulterebbe innovato l'intimo connettivo della nostra vita pubblica, e distrutte e capovolte le basi su cui attualmente si regge.

    Né si dica che, operando nel campo puramente culturale, la parola "rivoluzione" é malamente adoperata, perché anzitutto le più grandi rivoluzioni si operano, prima ancora che nei fatti, nel campo delle idee, e prima ancora che nelle masse nel ristretto campo dei cenacoli intellettuali, ove germinano e si educano i nuovi condottieri, e poi perché il periodo insurrezionale, che porta alla luce della storia politica un'èlite, non é che l'atto conclusivo della preparazione di idee, cui il pensiero partecipa solo in parte e quasi per forza d'inerzia.

    Anzi sotto questo profilo la parola corrisponde pienamente alle intenzioni e si differenzia da tutti i tentativi sovvertitori registrati dalla storia italiana.





    Ma, sopratutto il nostro concetto liberale appare dal confronto tra l'elaborazione dottrinale e la realtà italiana; tra le aspirazioni liberali di tutte le élites elaborate dal paese ed il regime esistente ed imperante; tra il modo come avrebbe dovuto, secondo le élites rivoluzionarie, avvenire la formazione dello Stato italiano ed il modo come effettivamente avvenne.

    Sotto quest'ultimo profilo, anzi; il titolo appare più plasticamente aderente alle idee e rivelatore di un dissidio ideale che sempre più appassiona la gioventù italiana, e di cui lo stesso fascismo, pur attraverso profonde deviazioni, mostra di essere sintomo preclaro.

    Non é qui il caso di rifare e tratteggiare il processo di formazione dello Stato unitario, la differente elaborazione delle correnti ideologiche che vi parteciparono, e la sconfitta, - attraverso la grave immaturità del popolo, l'indifferenziazione degli interessi e la tattica tradizionale della monarchia - di quelle correnti che, all'infuori dell'unità, intendevano realizzare nel nuovo stato anche la libertà; ma é opportuno ricordare che, mentre per il passato ogni studio su tale processo di formazione non attirò che l'attenzione di rari veggenti, e l'insegnamento ufficiale della storia del nostro Risorgimento tuttora si condensa in un panorama eroico, oggi le nuove élites si ripiegano su se stesse per comprendere il perché degli incalzanti insuccessi delle comuni aspirazioni e delle loro opere.

    Ed in tale ripiegamento, invece di rifarsi a dottrine elaborate da altri popoli ed aventi valore d'indagine per paesi già usciti dal periodo precapitalistico, si rifanno al processo di formazione dello stato unitario per comprendere, prima di ogni altra cosa, perché l'Italia si appropriò così scarsamente le idee liberali, che pure erano nate in quella Inghilterra da cui pretendemmo mutuare l'organizzazione politico-costituzionale, ed avevano fatto assai miglior prova che tra noi in quella Francia da cui rilevammo in massima parte lo schema dello stato burocratico-accentratore.





    Ora tale ripiegamento su se stessi, e tale peculiare indagine, mentre costituisce il minimo comune denominatore per ogni ideologia da sviluppare, perché mira a saggiare sul terreno della storia, cioè sul terreno della vita, la potenzialità nazionale dei vari sistemi politici, costituisce altresì il primo e più serio atto rivoluzionario che la gioventù italiana possa oggi compiere, in quanto la pone in posizione di antitesi con quel minimo comune denominatore, cui ogni fenomeno politico italiano si riconduce.

    Tale posizione di antitesi, poi, si risolve in un sempre maggiore potenziamento del liberalismo in quanto che, anzitutto le nuove étlites sono fatalmente, se anche inconsciamente, portate a lottare per introdurre nel nostro sistema politico quel clima storico liberale che da due secoli costituisce nel mondo il substrato di ogni ulteriore sviluppo; e successivamente perché ogni concessione che il regime - così come risulta costituito dalle forze storiche, che, per libera elezione e per transazione, vi hanno collaborato - é costretto a fare a forze provenienti dal basso e liberamente elaboratesi nel paese, costituisce indubbiamente un fatto intimamente liberale.

    Tenendo presenti questi rilievi non sarà difficile accorgersi che il compito della Rivoluzione Liberale - in un'epoca in cui le vecchie classi dirigenti hanno perduto il controllo delle imponenti formazioni popolari maturatesi attraverso la guerra, e non riescono più ad inquadrare entro l'angusta cornice dello stato urocratico - accentratore - sarà appunto diretto ad elaborare ed esprimere la nuova classe dirigente, che, sul cadavere del passato, dovrà riannodare, con perfetta cognizione di causa, il rinforzato organismo italiano alla grande tradizione liberale europea.

    E tale compito appare tanto più sicuro quando più emerge scosso dalla furia del torrente fascista l'equilibrio tradizionale, e quanto più si profila impossibile sistemare la vita pubblica italiana entro il soffocante schema dello stato paterno.

    Qui appunto é l'esigenza d'un organo di elaborazione delle ideologie che dovranno ricondurre entro l'alveo liberale il grande fatto democratico italiano del dopo guerra.

GUIDO DORSO.