TURATI ALLO "SCRIBE"
Filippo Turati si avanza alla ribalta, tozzo, pesante, imbarazzato, con la sua maschera rude di mongolo, stringendo un taccuino. Lo investe il clamore degli applausi che lo salutano, ed egli s'inchina. Parla, e dalle sue grosse labbra, schiacciate sotto il peso della fronte e del naso e semisepolte nella barba grigia, vien fuori una voce stridente e insinuante, con delle mollezze improvvise, delle interruzioni ansimanti, tutta a scatti e a sorprese, lenta, impacciata e tronca talvolta, miracolosamente fluida e facile allorquando disegna un quadro retorico, rozza e ingrata durante l'esposizione dei principi dottrinali, limpida e lieve nella facezia, che scivola via. Singolare eloquenza la sua, fatta di letterarie rievocazioni, di nobili e vecchie frasi alla De Amicis, di spunti taglienti e di grossolani motteggi: c'è nella sua oratoria un'ansia e un tormento palesi, una sincerità evidentissima, eppure non si può non rilevarne la meccanicità fredda, la costruzione. È la fiorita dissertazione di uno scettico, alternata alla brusca e subitanea asserzione dell'uomo di fede. Si sente che quest'uomo che fa la ruota dinanzi a voi - appoggiandosi sull'imparaticcio degli appunti con scrupolo eccessivo - ha due, tre principi fondamentali che gli sono cari e da cui non si staccherà a nessun patto: evoluzionismo, libertà, socialismo evangelicamente scientifico ed ottimista. Eppure comprendete ch'egli non passerà mai all'azione (o lo farà in ritardo, dopo che il suo intervento sarà stato svalutato dagli avvenimenti) e che la sua fede é terribilmente generica, vaga, imprecisa. Temperamento amletico, se vi piace scomodare Shakespeare. Certo i problemi concreti, le esigerne pratiche, l'organizzazione materiale lo debbono preoccupare assai poco. Filippo Turati, dopo tanti anni di esperienze crudeli, é rimasto un semplice, un puro, ingenuo galantuomo con delle fisime riformatrici. Prenderlo come base, poggiare su di lui l'edificio di domani, sarebbe follia. Quale propagandista morale egli è tutt'ora utile: può servire - grazie all'esemplare costanza e all'onestà profonda che lo sorreggono - a mantenere la folla su di una determinata via, a riscuoterla da un traviamento superficiale e temporaneo. A smuoverla, a convertirla, a riconquistarla, no. Perché questo conferenziere sottile ed arguto é un aristocratico, un borghese, un letterato. La frequentazione del popolo non lo ha distolto dai libri, e si trova assai bene in un partito di uomini di cultura (sia pur sommaria, incompleta, parziale) e di sentimento, brava gente in fondo, e che tratta le mosche alla guisa di Tobia. I socialisti unitari non sono davvero anime eroiche: lo diventerebbero al caso, per generosità, coerenza, spirito di sacrificio. La figura rigida, il volto scuro, di una durezza direi quasi legnosa continuano a spiccicar parole, nel silenzio della sala. E' una cascatella interminabile di frasi, un groviglio di periodi che si cacciano l'uno dentro l'altro (per isolarsi e dividersi magistralmente dopo qualche minuto): a tratti un accenno divertente, una comparazione sottile, sempre del colore. Battute capitali gettate là con noncuranza, concetti comuni accarezzati e lisciati. Pochi gesti impacciati, lineari: le braccia e la testa si muovono come guidati dal filo invisibile e dai bruschi strappi di un burattinaio irritato. Il conferenziere è ingegnoso, talora estremamente abile, ma freddo; non giunge ad animare la scala, a commuovere l'uditorio di signore in pelliccia e di "compagni" eleganti che affolla la dorata conca dello Scribe. Filippo Turati parla, e i suoi patetici appelli sembrano di un uomo che non speri più, di un sopravvissuto (ed egli é entusiasta e angosciato come al tempo di Pelloux...), di un individuo avulso dalla lotta politica. Impassibile, corretto, piccante, Filippo Turati parla... Torino, domenica 20 gennaio. acj.
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