GLI IDEOLOGHI
Verrà giorno - e non si direbbe sia molto lontano - che, contro quanti si sono astenuti dal batter le mani e dall'intonare gli inni e han tentato di seguitare anche negli anni dell'Era Nuova l'umile funzione del raziocinio, l'on. Mussolini o chi per lui, in forma magari solenne e ufficiale, rinnoverà una parola e una taccia che a suo tempo ha avuto una singolare fortuna; ci si può anche raffigurare il corredo degli argomenti che la rincalzeranno e la abbelliranno nel concetto delle turbe seguaci, il cui istinto, come al solito, dovrà essere lusingato. Si distinguono già, in assetto, e scottanti per alcuni pirotecnici tiri preparatorii, le batterie, giunte di volata, dei franchi sparatori che si ritrovano con alquanto stupore sotto il cenno del duce, non sapendo se doversi meravigliare perché i vecchi usi d'indisciplina gli si tramutano oggi in attestati di benemeriti dell'ordine e in titoli validi all'opera di restaurazione sociale. Si farà dunque, si sta facendo, é nel sangue di tutti e nell'aria che si respira, una campagna contro alle idee. Le daranno i sacramenti - perché no? -- i militanti idealisti; nell'oscuro delle menti filosofiche si fan tante uguaglianze di contrari, trapassi dialettici e "superamenti", che esse acquistano il diritto di onestare, e patrocinare ogni fantasia, che se é reale, creduta, fatta vivere dai molti, é dunque razionale. I più si lasceranno trascinare, con l'insperato gusto di sentirsi al centro di una corrente, di esprimere nel mondo una novità che li soddisfa e corrisponde alle loro incomprese aspirazioni: finalmente! Gli orizzonti si rischiarano, é giorno di piena festa; tutti i nuvoli che sembravano aver quasi sotterrato il sole, era il fumo dei cervelli, un'esalazione malsana, fatta di boria e d'acredine, la viltà dei solitari che per il dispetto di essersi messi da parte perdevano il tempo a alambiccare certe forme oscene delle loro superstizioni e paure e le ostentavano poi, ai vivi, come frutti del pensiero. Si parlava d'interessi, discorso chiaro che lo capiscono i sordi, e loro l'ingarbugliavano con astruse ricerche, paragoni da matti, spaventose previsioni; facevan nascere appetiti e scontentezze contro natura, che poi venivano a galla a rovinar tutti i calcoli e gli affari andavano alla malora. Si cercava di viver la vita, con un po' d'allegria e di voglia e loro, serii, come al giorno del giudizio, non s'abbandonavano a nulla, perché volevan sapere il "poi" o il "come", quel che succede dentro, gli stati d'animo che accompagnano le esperienze. Se invece, le donne, andavano, come si conviene, in chiesa e qualche volta ci tiravano a rimorchio fratelli e mariti, ecco che strillavano i professori di logica e dicevano che ci vuol coerenza, serietà e rettitudine, che non s'hanno a aver rispetti umani, che é meglio l'infedeltà piena e ragionata; e da un'altra banda i professori d'illogica, con le loro crisi di spirito, le fedi condotte all'assurdo, le misteriose combutte della grazia col peccato. Il sentimento, quello dei romanzi e delle passeggiate fuor di porta, dai soliti dottori era bandito; bisognava nei libri e anche nelle avventure cercar l'uomo e l'arte, o magari in tutti gli atteggiamenti consacrati metterci un briciolo d'ironia, che allora tutto é salvo; non bearsi del facile, dello spontaneo, del gradevole, esser ghiotti di tutti i sapori fuorché del dolce. Il bello non é di leccare il cucchiaino, ma di conoscere gl'ingredienti e d'aver visto la danza delle pentole. Tutte queste, e tante altre, la gente più sana e più comune le chiama "idee". Quando non l'urtano e solo le sente ripetere, ne ride, ma un pochino umiliata, perché, a ragione o a torto, crede che a "fabbricarle" da sé non ci sarebbe arrivata e vi sente come un tono di sprezzo per la fatica o l'indolenza sue; siccome ha da fare, e il suo lavoro non lo vuol perder di vista, che sarebbe un raddoppiarlo, é difficilissimo si abitui a criticarle, a sceverare dalle più stentate e facilmente oppugnabili, quelle genuine e meditate, che levano meno rumore perché durano qualche fatica a palesarsi volgarmente: tutto resta confuso negli artifici della procacciante retorica; per la stessa ragione non riesce a distinguere, in sé, il motivo che le legittima, il bisogno a cui rispondono, e se le imagina gratuite; una continua offesa fatta, senza tornaconto apprezzabile, da gente che non é istigata né dall'ambizione né dall'interesse, ma da un puro gusto; gente d'un'altra razza, postasi su un'altura ignota dove non la raggiungono gli strali e per ciò, tanto per rivalersi in qualche modo, da odiare senza scampo. Se la ricchezza é il termine della comune invidia, la facoltà di pensare, supposta o attuale, é la causa della più impazientemente sofferta mortificazione. Si pensi ora qual consenso otterrà la parola autorevole che si metta a dar addosso alle idee. A loro si potranno rinfacciare tutte le colpe, addirittura i delitti, che la gente sarà felice e convinta, e di sapere dove finalmente é la causa dei mali, e di riconoscerla in quell'immaginato potere quasi diabolico che ha fatto passare tante ore brutte. La cosa, come si è visto é già incominciata; ma non bisogna fermarsi a mezzo, é il tempo di parlar forte e di armarsi senza scrupoli del risentimento di tutti. Tra letterati, uomini di governo, organizzatori c'è gente che ha meritato bene per questa campagna, c'è proprio un fiore di privilegiati che é sbocciato avanti tempo. Son loro a segnare l'originalità del nostro secolo, andati a scuola, quasi tutti, da Sorel e da Marinetti che spesso, per far presto, hanno in sé confusi e equiparati, incapaci di imparare, sotto gli scatti nervosi e letterari del primo che vengon malamente fissati in una incomposta dottrina, quella straordinaria mobilità e finezza, estrema dote dello spirito, di cui anche in Francia si danno rari esempi per ogni generazione. A loro tocca il comando, e di scatenar la tempesta. ***
Noi poveri settari delle idee, la risposta sarà molto semplice. Li dovremo, poiché non c'è un linguaggio di soli pugni, sentir parlare; e se parlano, vuol dire che, loro malgrado, hanno delle idee. Che cosa credono? Non ci sono i mostri in natura; siamo tutti, per quanto spesso incomprensibili, compagni; e, chi meglio chi peggio, sappiamo far le stesse cose. Hanno dunque le loro idee come noi le nostre; storte, sconnesse; così labili, le loro, che una accanto all'altra non ci sanno stare, che provarsi a fissarle, a scriverle, é un disastro; piene di sottintesi e d'imbrogli, senz'ombra di discrezione; irriconoscibili da un giorno all'altro, incapaci di ordinarsi, in perpetua lotta intestina; e quando l'intima disarmonia é troppo stridula, ricorrono a un surrogato d'urli e di botte. Pensano anche loro, e non solo quando fanno i loro ragionamenti, ma quando si arrabbiano: anzi allora pensano di più. Ma non sono quasi mai capaci di sapere che pensano, non sanno il loro pensiero, non se ne rendono conto; e si arrabbiano proprio per questo; quando non si riesce a capire s'irride o si odia o si insulta. Il male, i guai son la colpa delle idee? Delle vostre idee é colpa quell'odio, che vi par quasi un bene; come par di sicuro un bene, agli altri, lo sforzo che fanno per capire. Non capite perché si pensa? Ma si pensa come voi pensate, così, senz'accorgersene, perché é dovere, perché é un atto di tutti e necessario. Del resto i vostri stessi guai provengono da voi, cioè da un vostro pensare monco e insuffìciente, che non ci sarebbe il contrasto fra le idee per voi assurde e inafferrabili e la vostra pratica, se le idee che voi ogni giorno ne ricavate fossero persuasive e addomesticanti per tutti. Che il contrasto stesso sia un benefico segno di forza, da doverlo quasi far scaturire ad arte volta per volta se non fosse insito, quanto le idee che lo esprimono, nell'azione, vi parrà l'affermazione più pazza; siamo addirittura nell'empireo, pronti mani e piedi a farci legare per vituperio contro il buon senso comune; ma ecco dunque che la nostra superiorità appresta una consolazione di cui chiunque si potrebbe servire. E' vero che fa coscienza non é un balsamo, e lo é invece, o quasi, la voluta ingiustizia e la ribellione. Ma, lo sappiano quelli che per oscura necessità di dileggio ci dicono superiori: nessuno, se pensa, soffre di un momento d'infatuazione. Pensare vuol dire, secondo un altro senso, accettare; e accettare quello che non tocca, quanto é possibile le cose lontane: la vita e il destino degli altri. È un tendere all'uguaglianza assoluta, una continua ricerca d'identificazione e di quei tramutamenti che si sentono i più ostici e staccati. C'è un punto in cui, passando da fratello a fratello, da vicinanza a vicinanza, cercando d'assimilare tutto il prossimo, si riesce a presentire un possibile amore per il nemico, per quello che c'è veramente contrapposto; pur che si abbia fede in qualche forma che ci trascenda. E forse solo a questo limite nel pieno di un assurdo logico, alle strette col problema fondamentale, si finisce con capire che il pensiero tanto adoperato di cui viviamo non c'è, che la prima sua condizione e l'esigenza massima per noi non si può dare. Noi stessi, dal nostro pensiero, non siamo mai trascesi; con questa gran macchia dell'io vi pesiamo dentro, e di noi in noi non ci scordiamo, non ci scorderemo mai. Quanto più nella velleità del pensiero ci esaltiamo, tanto più l'io si gonfia; e da supremo disinteresse ci si maschera l'interesse più accanito, come quello che più che carne della carne é anima dell'anima. Pietà dunque per le povere nostre idee! in cui a un esame più commosso non rinveniamo più altro che l'occasione di farci nulli. Chi ce le va strombazzando a carico, si rallegri. Il più che ne sapremo fare, sarà di erigergli un monumento. Per riferirci a tempi lontani e coi quali non sussiste se non una pura somiglianza di schema, si può pensare un momento a Napoleone; a un Napoleone riflessivo, come sapeva essere, o costretto alla riflessione, al margine del suo gran sogno, quando il salvabile della sua potenza si sarebbe salvato con altri mezzi che non di battaglia. Il ritorno dall'Elba era stato, fino a Parigi, un'apoteosi: tutti i traditori avevano ritradito. Una mossa appena fortunata, un tentativo di interpretare e di soddisfare i bisogni a lui opposti gli avrebbe garantito forse l'impero. Ma la renitenza del suo genio a venir a patti coi soli nemici veri, con quelli che non intrigavano, ma pensavano contro di lui, era invincibile; certe libertà, già concesse da Luigi XVIII, sentiva di doverle garantire, a fine politico; e pure si ribellava a accondiscendere. "Que me parle-t-on de bonté, de justice abstraite, de lois naturelles? (così avevan nome le "idee" di quell'epoca). La premiére loi, c'est la nécessité; la premiére justice, c'est le salut public". Agli ideologhi non si sentiva di dar ragione, perché la sua ideologia, che ai semplici e umili combattenti, siccome era implicita nello spirito della guerra, non sembrava tale, non la voleva abbandonare; ma anche essa, e la sua gloria, era nutrita dagli attacchi e dalle opposizioni. In fin de' conti, Chateaubriand, la signora di Staël, non son nomi che impallidiscono. Nessun danno dall'opera loro é venuto all'Impero, ma uno spicco e una vita speciale, un'eco e una traduzione imprevedibili. Se, ipotesi assurda, la società francese, in que' tempi, si fosse chiusa nei panegirici impaludati, nella futile maldicenza, e nel girellismo propizio ai varii marescialli e duchi, che avvenire le sarebbe toccato? Ma prima ancora che le aquile avessero volato su tutta l'Europa, si levano le voci dell'inquieta stanchezza e della fede che faranno di poi vivo il romanticismo. Quei secchi ideologhi inducevano un nuovo fremito nelle anime a perturbarne il supino consenso e facevano ribalenare al secolo nuovo lontane visioni che lo splendore dei trionfi sembrava dovere per sempre oscurare. In tal modo si fa la storia, e non con l'acquiescenza e l'ammirazione al successo: perseverare nella propria parte contro ogni mediocre consiglio di transigenza, accettare le sconfitte e non adattarsi a salvataggi: e le sintesi le faranno i nipoti. Ma certo non assurgeremo alla dignità d'ideologhi, se non saremo perseguitati dall'Impero. UMBERTO MORRA DI LAVRIANO.
|