ACQUEFORTI
Il generico della guerra
Assurse al Comando Supremo dell'Esercito in un'ora di tristezza immensa, quando la disfatta ci mordeva 1'anima. Ai più era ignoto, e chi lo conosceva lo aveva in conto di generale diligentissimo che, pure appartenendo agli uomini nuovi sorti con la guerra, teneva onestamente il suo posto, svolgendo con precisione tutti i piani che gli venissero comunicati dal generalissimo d'allora, buoni o cattivi che fossero, senza riassumere di fronte al Comando supremo un atteggiamento di critica intelligente; napoletano nell'anima obbediva ciecamente, e bene, come in preda ad un fatalismo mussulmano che lo facesse rifuggire dall'assumere responsabilità gravi mettendo in gioco le spalline. Fu questa la sua fortuna. Luigi Cadorna aveva avuto all'inizio della campagna poteri assoluti per quanto avesse attinenza alla condotta delle azioni militari. Quella stessa democrazia che aveva stramazzato ad Adua per avere affidato la direzione della guerra a due generali gelosi l'uno dell'altro, persistendo nel sistema che aveva provocato la disfatta di Custoza, aveva ceduto in tal modo al giusto bisogno di avere un solo capo, con poteri di vita o di morte su tutto l'esercito. Con poteri di vita o di morte, e la guerra bisognava farla secondo gli ordini di un ufficiale solo, superiore ad ogni controllo e ad ogni critica, autoritario ed accentratore, insofferente di ogni obbiezione, come nel caso Doubet; facile a riversare sui suoi subalterni la colpa di disastri che essi avevano previsti e che egli invece, non aveva creduto possibili, come nel caso Brusati. Luigi Cadorna era il demiurgo dell'azione militare italiana, un demiurgo molto fragile che aveva assunto nell'opinione pubblica la fama di insostituibile. Egli era il Dio, e sul suo altare erano immolati i generale della pace con una continuità che un merito però aveva, di portare ai comandi superiori i cosiddetti generali della guerra, i quali avevano affinato le loro qualità militari nei primi anni del conflitto, quando comandavano i battaglioni o i reggimenti, e che avevano inteso la necessità di dominare il morale del soldato per cavarne qualche cosa che fosse paragonabile al leggendario legionario di Roma, abbandonando totalmente la concezione, cadorniana del soldato-macchina, che una polizia feroce doveva incatenare alla trincea, di cui i retori lontani sempre dalle prime linee gli magnificavano l'ebbrezza. Accanto al Cadorna si vennero formando così dei capi più giovani e più fini, che il vecchio lasciava nell'ombra. Tenace, testardo nello svolgimento di un unico piano di battaglia di cui ogni persona mediocremente colta (non solo i generali nemici) poteva intuire la genesi e lo svolgimento quando un'azione si scatenava dallo Stelvio al mare, egli fallì nel suo compito. Egli non parlava mai ai soldati, li decimava senza pietà "per dare l'esempio" e li buttava pazzescamente contro le linee nemiche; aveva scontentato tutti i generali ai quali aveva imposto tacitamente di obbedire in silenzio; non aveva saputo modificare il suo disegno di azione neanche quando le basi della contesa erano cambiate, e queste ed altre circostanze avevano provocato la torturante ritirata sul Piave. Sorse così imperioso il bisogno di mettere in disparte il generale Cadorna e di sostituirlo. Con chi, non si sapeva, perché dallo svolgimento unitario delle operazioni nessun generale era eccelso nettamente sugli altri, nemmeno il duca d'Aosta che il pubblico aveva sentito lodare più per ossequio alla famiglia da cui era uscito che per essere, in possesso di qualità peculiari, che alla prova dei fatti non gli si riscontrarono. Nessun uomo in Italia avrebbe potuto essere il vessillifero della nuova guerra come del resto un anno prima dagli stalli di Montecitorio nessun uomo si era imposto nettamente sugli altri in modo da potere avanzare la sua candidatura per la presidenza del consiglio dopo il crollo di Salandra. Perciò, come si fece un anno prima quando al Salandra si sostituì un "generico" della politica cui si commise l'onore di presiedere un presunto governo di forti, nell'ottobre del 1917 al generale sconfitto successe un "generico" della guerra, al fianco del quale potessero agire generali valentissimi; successe insomma Armando Diaz, probo, buono, vano, al quale si diede come compagno immediato il generale Badoglio, e ai cui ordini si posero qualcuno dei vecchi generali (Pecori-Giraldi per es., il migliore di loro), e gli uomini nuovi che erano entrati in campagna giovanissimi e che avevano occupati in seguito i ranghi maggiori: Caviglia, Giardino, Albricci per esempio. Nacque così un comando di nuovo stile; stile francese, non senza alcuni caratteri estrinseci alla tedesca. Come in Germania, dove la direzione della guerra era affidata ad una coppia di Dioscuri (Hindenburg e Ludendorff) e lo svolgimento delle azioni era commesso a generali di alta classe (il principe Rupprecht, Falkenhayn, Mackensen, il Kronprinz) che gli ordini supremi interpretavano secondo le condizioni della loro zona, sorse in Italia un comando di capi tra i quali Diaz teneva il collegamento. Badoglio, generale geniale e centrale, capo effettivo dell'Esercito di cui fissava i piani delle azioni; Caviglia, uomo totale, manovratore di anime come deve essere il comandante moderno, abile nel "governo" delle truppe; Giardino, il più appariscente, ma il meno vigoroso dei nuovi capi, il vero "parlamentare" del comando; Albricci, uno dei generali più souples, preposto al corpo italiano in Francia, siccome quegli che ad una seria competenza militare sapeva unire eleganti doti di diplomatico; Pecori-Giraldi, il più austero e il più forte dei vecchi comandanti, e tutti gli altri formarono un comando dall'anima di guerra, in cui Diaz subiva Badoglio e lo rappresentava, e i guidatori delle armate assunsero una personalità propria. Si affermò cosi inderogabilmente la giustezza del provvedimento che aveva portato Diaz alla carica di generalissimo italiano: egli impersonava un comando di forti ai quali difficilmente amava sostituirsi, ma, rimase purtroppo sempre il "generico" della guerra, capace di agire più sotto l'impulso di una forza esterna che per volontà propria, come avvenne nell'ottobre 1918, quando l'on. Orlando gli impose l'offensiva di Vittorio Veneto che egli non voleva. Si ebbe così l'urto finale da parte delle fanterie di Caviglia, che furono aiutate dalle artiglierie del Grappa agli ordini di Giardino, il quale dimenticò per un istante il bisogno di abbandonarsi a sentimentali effusioni oratorie sul tipo di quella di cui fu spettatrice la Camera il 24 ottobre 1917. I nuovi generali crearono la vittoria, ma la riconoscenza coreografica della nazione andò al capo nominale dell'esercito, a cui la democrazia italiana fu prodiga di ossequi, che vanno dalle festose accoglienze di Roma e di Napoli, alla nomina a generale d'esercito e a gran collare dell'Annunziata, e, più tardi, al conferimento di un titolo nobiliare che è la quintessenza dell'ironia e della retorica. Il generale che durante la guerra aveva accettato senza risentimenti la sua parte di "generico", nel dopo-guerra si prese la rivincita abbandonandosi alle ebbrezze della vanità, ma continuando nell'assenza brillante di ogni decisa "caratteristica". Mentre alcuni dei suoi antichi compagni davano nuove prove del loro acume: Caviglia si rivelò perfino sul terreno a lui non familiare dei comizi, uomo di polso senza frivolità, e di fronte alla retorica avventura fiumana rimase pari a se stesso; Albricci, dopo le ore della guerra dimostratosi all'altezza della smobilitazione concesse l'amnistia nittiana, Diaz ritorna in luce solo nell'ora delle parate, in tutta la sua genericità. Di fronte a Badoglio, uomo militarmente sobrio, che non ammette la coesistenza di un esercito militare e di un esercito di polizia in una stessa nazione, e che era disposto a capeggiare la controffensiva statale contro lo squadrismo, è apparso Armando Diaz. Dai fascisti di Firenze egli è stato acclamato il giorno stesso in cui era sottoposto al re il decreto di stato d'assedio; dal nuovo governo è stato nominato ministro della guerra, non perché egli sia fascista, ma perché non ha saputo intuire ciò che ha pensato Badoglio, cha pure non è anti-fascista. Davanti ad un movimento collettivo di gravità eccezionale, Diaz non pensa e non agisce, e raccoglie allori; Badoglio, stratega di valore, riconosce in quest'esercito di mazzieri rutilante di teschi e appariscente nella sua veste nera, impressionante ma fragile, l'unione di schiere incapaci di guerra esterna, nulle realmente di fronte all'altro esercito, pesante, tranquillo, duro a mandare all'assalto, l'esercito dei contadini, delle brigate Sassari e dei battaglioni alpini insomma, quello che parte malvolentieri per la guerra come Achille, ma che vince la guerra perché vuole la pace (secondo la fondamentale ed immortale intuizione del Machiavelli), e che è più forte delle nuove squadre le quali soltanto dai torbidi civili e sul fronte interno hanno il loro giuoco, al pari delle vecchie compagnie di ventura in cui decadde lo spirito militare d'Italia. Come durante la guerra Diaz cedeva ai suoi generali, oggi cede ad un popolo di marionette che lo inalbera a simbolo, e non può imporsi come individualità, né pace né in guerra. Badoglio, più forte di lui, ha taciuto anche adesso, come aveva taciuto durante la guerra. Ma la storia, darà a ciascuno il suo... G. STOLFI
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