STUDI SULLA CULTURA POLITICA FRANCESE.MAURICE BARRÈSChiunque, non sviato dai plausi di un largo stuolo di seguaci o da una fama ormai più che nazionale, e neppure da una felicità nativa di scrittore, si dia a ripercorrere l'opera di Maurice Barrés per trovare il nucleo di una personalità sotto quegli indizi ancora esteriori, proverà la tristezza che lascia in noi un destino incompiuto. Dire il nome di Maurice Barrès significa evocare alcune pagine incantatrici, il fascino un poco misterioso dei tepidi giardini lombardi o della pianura di Aigues-Mortes, le voci che si levano solitarie sulle acque immobili di Venezia o la trionfale corsa di nubi sulle montagne della Grecia: un Chateaubriand più raffinato, insomma, che abbia avuto in dono dalla sorte la fantasia musicale di un discepolo di Wagner invece della fantasia plastica, di un contemporaneo del neo-classicismo. Ricordiamo quelle poche pagine e non i titoli dei libri, a cui appartengono: i titoli si presenteranno più tardi alla nostra mente: sentiamo che i libri del Barrès sono o vogliono essere altro, qualcosa di più e qualcosa di meno di quelle pagine. E già a una seconda lettura quelle pagine stesse così felici fanno presentire il vizio segreto che vieta loro di diventare libro: nelle frasi, la cui magia ci aveva commosso, è possibile notare una fissità, che non so dire di nuovo se non chateaubriandesca e che mi pare propria di un motivo lirico che si irrigidisce, ed è tutt'altra cosa della divina immobilità della grande arte. Quelle pagine sono punto di arrivo piuttosto che punto di partenza: momenti, in cui il poeta ritrova il fondo semplicissimo nell'anima sua, lasciate le scorie di molteplici complicazioni. V'è una approssimativa somiglianza di ambiente di formazione e anche, in certo senso, d'ispirazione tra Barrès e D'Annunzio: e questa somiglianza può permettere a un italiano attraverso un fuggevole paragone, una certa conoscenza dello scrittore francese. Dinanzi a Gabriele D'Annunzio proviamo talora l'ammirazione che c'impone un fenomeno naturale: spirito quanto meno critico è possibile, egli può giungere coll'insistere su di un unico motivo a una meravigliosa liberazione artistica e a una straordinaria ricchezza di toni: potrà concedere in maniera alquanto rozza la sua attenzione a questa o quella idea od obliarsi anche nell'azione: sempre, checchè oggi se ne voglia dire, egli rimarrà estraneo a questa e a quelle. Ma il Barrès è stato fin dai più giovani anni penetrato dallo spirito critico, e questo ha sconvolto il più semplice fondo dell'animo suo: mai egli scriverebbe le pagine di orribile bruttezza, che il D'Annunzio talvolta ci ha dato: mai neppure egli conoscerà la perfetta bellezza che più d'una volta il poeta italiano ha raggiunto. La prosa dannùnziana rivela spesso una ricerca di espedienti esteriori, che vogliono supplire una mancata interna consistenza: la prosa del Barrès trova molto più facilmente il suo equilibrio e, contrariamente a quella del D'Annunzio, il quale è, come si sa, negato all'ironia e alla satira, è ricca (e se ne compiace) di spunti ironici e satirici: indizio anche questo di prevalente spirito critico. Il dissidio tra sensualità e intelligenza, che una velleità teorica faceva scoprire recentemente in sè a Gabriele D'Annunzio, può caratterizzare molto meglio della sua la personalità dello scrittore francese. L'arte del quale perciò non può riuscire schietta ed intera: quei motivi di bellezza sono momenti fuggevoli di liberazione da un aspro travaglio: gli schemi ideologici rimangono ogni volta visibili a testimoniare l'incapacità barresiana. Gli schemi, per lui indispensabili, riusciranno a dominare e ad asservire a sè l'ispirazione e avremo i "Romans de l'Energie Nazionale" e i "Bastions de l'Est" (si ricordi il romanzo "Les Deracinés" costruito come un teorema di geometria!): prevarrà invece questa su di uno schema fittizio e avremo le descrizioni di viaggi: o i due motivi si fonderanno senza riuscire in uno unico, la curiosità psicologica si accompagnerà alla fantasia sensuale e avremo gli scritti barresiani più incerti e sconcertanti. Indoviniamo che la ricchezza di esperienze, la molteplicità di vita, che gli amici del Barrès esaltano come sua caratteristica, è indizio di una intima povertà: intravvediamo una vena segreta di aridità in tutta la sua vita. Il Barrès passa da una forma di attività all'altra per trovare la sua completa espressione: ma la materia non si lascia da lui mai vincere appieno: il pensatore, il poeta, il politico si intralciano a vicenda nel proprio operare anzichè fornire l'uno all'altro oggetto di contemplazione o d'azione. Una tale vita non può offrire esempio di uno svolgimento calmo e ordinato, di una progressiva risoluzione degli elementi negativi e passionali. L'ambizione del Barrès sarebbe, è vero, quella di apparire ai posteri come un romantico che ha trovato la sua pace nel classicismo, come un anarchico che si è conciliato colla tradizione: e la sua costante ammirazione per il Goethe e alcune sue espressioni ci fanno intendere che il suo desiderio più segreto e più alto sarebbe quello di essere niente di meno che il Goethe francese. Ma questa stessa ambizione deve renderci diffidenti: quel desiderio di autosuperamento deve farci sospettare una originaria staticità e quell'amore del classicismo apparirci nient'altro che l'estrema aspirazione di un estremo romantico. La vita del Barrès è infatti priva di un vero e proprio svolgimento: progredisce con un ritmo tutto lineare: è assolutamente incapace di qualsiasi rinnovamento. E neppure vi è nel Barrès, come egli vorrebbe far credere, la brama del nuovo, l'amore attento sollecito per ogni nascente forma di vita: tutto si riduce in lui a una ricerca disperata di una posizione a cui aggrapparsi: l'idea vale in quanto gli permette di essere qualche cosa e perciò sempre estraneo egli resta alle idee che professa: invano si cercherebbe in lui il calore di una fede. E' significativo il fatto che, nonostante tutti i suoi mutamenti, il Barrès non abbia mai rinnovato le idee, accolte nella sua prima giovinezza: la sua formazione mentale risale agli anni intorno all'80: ciò che è stato pensato dopo quegli anni, il Barrès lo ignora: lo stesso Nietzsche, l'ultimo grande romantico, che tanta influenza ebbe sui suoi coetanei e connazionali, sia pure talora interpretato decadentisticamente, gli è completamente estraneo così che, quando egli volle dare un fondamento teorico al suo nazionalismo, non al Nietzsche ricorse, come altri spiriti negli stessi anni in altre nazioni ma al Taine e non "aristocrazia" o "volontà di potenza" fu il motto della dottrina politica, ma "Le Nationalisme c'est l'acceptation d'un determinisme". Scettico e dogmatico, egli è nato per accettare le posizioni fatte, per ricercare al di fuori di sè l'appagamento di un intimo dissidio: gli stati d'animo che descrive nei suoi libri, i pensieri che gli servono per la sua opera di politico e di moralista non possono essere se non cosa d'altri; sentono il libro prima che la vita. Un secolo di romanticismo gli ha legato la propria complessa esperienza: un Taine e un Renan gli hanno insegnato il culto della storia, il rispetto per l'individualità dei popoli e delle epoche passate ma già in loro l'intuizione storica del romanticismo, frutto di una possente fede, che aveva sentito come nulla possa essere estraneo alla divinità, si era venuta trasformando in una visione naturalistica o in dilettantismo e scetticismo storico. E la storia non sarà per il Barrès se non una fornitrice di emozioni: ai diversi popoli da lui visitati, alle loro peculiari individualità, egli chiederà quegli "excitements", quella "fièvre" di cui la sua "sécheresse" ha bisogno. Dagli artisti apprenderà a conoscere svariate situazioni psicologiche, contrasti e lotte, in cui la vita individuale colla sua infinita ricchezza fa valere le sue esigenze contro la morale tradizionale; ma le angosce di quella lotta il Barrès le ha provate ben poco. Leggiamo la novella "Un amateur d'àmes" e rileggiamo ancora una volta "René", di cui quella forse inconsciamente riproduce la trama. Dove era torbida ribellione, troviamo una meschina curiosità, un preziosismo di nefandezze, che non lascia in noi alcuna impressione. Sentiamo che quelle complicazioni psicologiche sono costruite a freddo: anche l'impurità non ci costringe più a ribellarci perchè è un'impurità del tutto irreale. L'amore per il bel delitto, per la singolarità ad ogni costo diventa in questo epigono del romanticismo uno stato d'animo così raffinato, si dissolve in tal modo in un gioco intellettuale, da diventare affatto estraneo alla vita e trasformarsi in un caso particolare, che non può più destare interesse in una cerchia di spiriti. Il che, sia detto tra parentesi, è un modo assai frequente di auto-distruzione del romanticismo e indizio implicito del suo superamento. E che altro è il Barrès se non un Chateaubriand privato di quell'alone di santo ribelle, che ancor oggi ci abbaglia se ci rivolgiamo a contemplare la figura del bretone? Dal romanticismo europeo il Barrès ha appreso l'amore pei sistemi, la passione per la logica e per i grandi filosofi. Ma anche qui la sua passione diventa passione priva di scopo, passione che brucia sè stessa "fièvre", possiamo dire, per ripetere una espressione amata dal nostro scrittore: "Les grandes métaphisiques, celles de Platon, de Dante, de Hegel, de Fichte et tous les systèmes du monde ne sont que des images poétiques pour extérioriser et rendre logiques des sensations par elle-mémes profondes et obscures". L'amore dei sistemi non è se non un aspetto di quello smodato desiderio di vita, dell'orrore del vuoto, che il Barrès sente in sè: la passione per la comprensione totale può essere uno di quegli "excitements" di cui ha bisogno. "L'important ce n'est point les formules par lesquelles on exprime son émotion, mais d'etre un peu échauffé par la vie". E anche la contemplazione dell'arte, che altro può essere per lui se non uno di questi "excitements"? Quando il Barrès scrive: "Les formes les plus parfaites ne sont que de symboles pour ma curiosité d'idéologue", noi, dopo quanto abbiamo letto più sopra, comprendiamo bene quale valore abbia per lui l'arte e non possiamo essere d'accordo col Curtius, lo studioso tedesco del nostro scrittore, che gli dà lode di aver iniziato presso i suoi connazionali una forma di critica, sollecita per i motivi culturali impliciti nelle opere d'arte. Anche nella sua critica d'arte il Barrès, se pur occorra dirlo, è l'erede del romanticismo e anche qui egli porta il romanticismo fino all'assurdo. L'opera d'arte non è per lui che un pretesto di vita: per esprimere la sua passione nei giorni del secondo processo Dreyfus egli dirà "Mon séjour à Rennes compte parmi les instants les plus dignes d'être vecus que ma mémoire me rappelle; mes sentiments, étaient pleins, lourdes comme les chefs d'oeuvres de l'art". E, se alcuno facesse qualche obiezione a quanto ho detto per parlarmi di una reale esperienza e di un gusto del Barrès in fatto di opere d'arte, non avrei che a ricordargli lo scritto in cui il Barrès costruisce la filosofia della storia dell'arte italiana: il saggio finisce coll'esaltazione del Seicento italiano, non come espressione di valori nuovi, ma come espressione di una decadenza, che permette al Barrès il bramato godimento della dissoluzione, e del Seicento italiano presenta come rappresentante tipico l'artista più vuoto del tempo, il Domenichino. Uno spirito, come quello che abbiamo descritto, ridurrà ogni sua passione ed ogni sua idea ad esperimento: l'esaltazione della vita è ipso facto svalutata quando la vita che si esalta viene privata di ogni scopo universale: e della vita che vuole vivere, non rimangono allo scrittore che gli schemi pedagogici, che dovrebbero renderne le sembianze. "Il ne s'agit point d'expérimenter la vie. Il faut la vivre". Queste parole che la bonaria saggezza del France rivolgeva al Barrès a proposito di un suo giovanile "romanzo ideologico" sono una critica di tutta la sua attività. "Uomo libero" egli ha bisogno di codificare la propria libertà, organizzare i propri esperimenti: mai è sembrato sospettare, che la vita viene a perdere ogni valore in quanto è ridotta ad esperienza. Che cosa è dunque l'evoluzione ideale del Barrès? Scopo dell'artista è il raggiungimento di un'armonia, in cui il sentimento individuale appaia sentimento del mondo: scopo del pensatore il riconoscimento di un ordine, in cui l'individuo si colloca e si annulla. Anche nella ricerca più rudimentale è presente questo desiderio di un ordine, e anche il Barrès, per quanto debole pensatore possa essere, non può ignorarlo. E dove poteva trovare quest'ordine il giovane Barrès, dopo tanta tradizione romantica, se non nel proprio io, nell'individuo, che deve essere difeso dalla dispersione e dai brutali contatti esteriori e il cui valore sta nell'intensità e nella ricchezza della passione? Che altro poteva divinizzare se non il suo suo sforzo di vivere e il fuoco distruttore del suo desiderio vano? Ne nasceva la formula: "Le culte du moi": ne era conseguenza la simpatia per tutte quelle forme di vita e per quegli individui che incarnassero una qualsiasi aspirazione di autonomia o tendessero alla distruzione di ogni limite. Di qui le simpatie per gli anarchici: di qui "L'Ennemi des Lois". Ma l'anarchia del Barrès non è magnanima ribellione, disperata affermazione di libertà, coscienza irriducibile di una originalità che non vuole essere violentata. La sua anarchia è grettezza: egli vuole costruire ripari al suo io: nulla gli è più lontano di una ribellione. E le sue simpatie per gli uomini, creatori di utopie rivoluzionarie sono tutte esteriori: egli non intende il loro travaglio: ciò che a lui interessa di loro è la parte negativa: "l'uomo libero" del Barrès è l'uomo che è incapace di creare la sua libertà e tenta di rifugiarsi in un sogno di un mondo irreale: la sua vita è in realtà una morte. Poteva il Barrés continuare su questa strada? Da premesse così povere poteva credere di cavare qualche cosa? Una coscienza della morte latente in quella vita appassionata doveva costringerlo a progredire, a ricercare un ordine più ampio. Uscire da sè era una necessità: ma come può un cieco immaginarsi la luce? La straordinaria ottusità spirituale del Barrès gli fece cercare quell'ordine non in qualcosa che trascendesse assolutamente l'individuo empirico e la sua passione, ma nella semplice somma di individui, nel succedersi meccanico delle generazioni. Il maestro Taine gli venne in aiuto: e la "razza" parve al Barrès l'isola salvatrice per il misero individuo sbattuto dai flutti. Egli che già aveva parlato di "acceptation" potè conoscere cosa l'individuo debba accettare: la tradizione della propria razza. Egli aveva errato credendo che l'individuo dovesse difendere solo se stesso "dai barbari", qualcosa di superiore a lui aveva bisogno di essere difeso. Il Barrès ha sempre proibito che si parli di una sua conversione e noi non possiamo non essere d' accordo con lui. Conversione significa abbandono di una fede per un'altra: e non di fedi abbiamo visto trattarsi, ma di espedienti. Non si può parlare di un passaggio da uno Sturm und Drang a un classicismo, quando uno Sturm und Drang non c'è stato: la libertà, abbiamo visto, non era per il Barrès, qualcosa che l'individuo si crea ed esiste solo in quanto lo crea, o con un attimo di ribellione o col lavoro di ogni giorno. La tradizione non può essere per lui qualcosa che dev'essere di generazione in generazione rinnovato, ma condanna che l'individuo deve subire senza ricercarne le ragioni "Ciò che i padri ti diedero, conquistalo per possederlo": Maurice Barrès ha ancor molto d'apprendere dal suo maestro Goethe. E che conversione non sia stata la sua, ci persuadono alcune espressioni dei suoi romanzi e dei suoi articoli. Chi aveva scritto: "Les morts! Ils nous empoisonnent". "Donnet des préjugés aux enfants, c'est, n'est-ce pas? toute l'éducation", farà del culto dei morti la legge suprema della vita e scriverà un intiero romanzo sul modo d'instillare ai figlioli i necessari pregiudizi. Chi aveva detto (nell'Ennemi des lois) che condizione della grandezza di un individuo è la varietà dei caratteri delle diverse nazioni che egli sa accogliere in sè farà nei "Déracinées" un precetto dell'allontanamento dall'individuo di tutto ciò che non abbia i caratteri della sua nazione. In queste posizioni antitetiche è facile scorgere (e lo si potrebbe dimostrare con un semplice esame stilistico) che la seconda non è un superamento, ma il semplice rovesciamento della prima. Da "conversioni" come quelle del Barrès l'uomo non esce accresciuto e ritemprato, ma cambia semplicemente la sua parte da recitare: l'opposizione delle due professioni di fede. non è se non un artificio per nascondere la ripetizione. Una prova della validità pratica della nuova concezione barresiana doveva essere l'atteggiamento del Barrès di fronte alla religione tradizionale. Se dovere dell'individuo è accettare le tradizioni, come doveva comportarsi l'individuo Barrès di fronte alla religione tradizionale della sua Francia? Sarebbe assurdo che un Barrès, erede dei romantici, avesse potuto essere un momento solo volterriano. La religione nel suo primo sistema non poteva se non essere una dei più potenti "excitements"; nel sistema secondo doveva essere una forma del culto dei morti. Non si può definire l'attitudine del Barrès di fronte alla religione in genere e al cattolicesimo in specie con parole migliori di quelle usate dal già menzionato Curtius, autore della più completa Opera sul nostro scrittore (E.R. Curtius, M. B. und die geistigen Grundlagen des franzosischen Nationalismus, Bonn, 1921) il cui unico torto è di prendere troppo sul serio le idee del Barrès e di sottoporle a un esame minuto quando un esame stilistico all'italiana o psicologico alla francese avrebbe condotto le cose in maniera alquanto più spiccia: "Conosce il divino, ma non conosce nulla di Dio... Se si vuole parlare di un cattolicismo del Barrès, questo è un cattolicismo ateo. La sua religiosità è quella di un miscredente: e neppure essa cerca una nuova fede. La Chiesa fornisce un sistema di vita quale la scienza non potrebbe dare: perchè si dovrebbe ricercare altro? Vero è ciò che appaga i bisogni dell'animo". Può invece essere interessante per noi sapere perchè il Barrès non abbia mai aderito al cattolicesimo. L'aver conservato quest'ultimo barlume di sincerità dovrebbe essere una ragione di merito, se un simile procedere non derivasse dal timore di compromettersi, che è presente in tutta la carriera del Barrès e deriva dalla coscienza che egli ha della provvisorietà delle sue concezioni. "Ménageons-nous cette reserve". Questa conclusione della descrizione di una visita a Lourdes ci dice troppe cose perchè c'indugiamo a commentarla. Non ha il Barrès stesso parlato dei suoi "flirt" colla divinità? Il misticismo, che qua e là egli mostra di professare, è vile come quello della maggior parte dei modelli. Misticismo vorrebbe dire sacrifizio di se stessi dinanzi all'assoluto: che significato può avere una forma qualsiasi di misticismo, quando nulla c'è da sacrificare? Solo a un terribile razionalista come Pascal, uomo della statura dei suoi coetanei costruttori di regni, di sistemi e di tragedie, può essere concessa una professione mistica. I moderni vogliono col misticismo guadagnare il cento per cento: farsi dare dall'Assoluto quello che da loro stessi non sanno procacciarsi. Meno ingenuo di altri mistici, il Barrés non ha voluto mai apparire mistico del tutto: come aveva simpatizzato cogli anarchici, simpatizzò coi mistici. E di questa posizione ambigua uscirà "La Colline inspirée", che non è punto, come è stato detto, felice soluzione del sensualismo barresiano in una rappresentazione di misticismo, ma risente anche nel tono della sua falsità ideale. Il protagonista è un eretico di un eresia priva di ogni risonanza universale: l'autore lo contempla dal di fuori cosicchè talora ce lo rappresenta più che come un santo, come un maniaco, per cui non. può provare se non un superiore compatimento. E quando un tale personaggio viene ad essere esaltato come un uomo della razza di Dante e di Beethoven, quando su quell'eresia locale, personale, viene costruito un contrasto tra fede e ordine, inspirazione individuale e costrizione regolatrice, Celti e Romani abbiamo una prova di più dell'assoluta ottusità barresiana per ogni manifestazione spirituale. L'attitudine, superiore e conciliatrice, che lo scrittore ha l'aria di assumere di fronte alle due forze in contrasto appare semplicemente ridicola a chi pensi che di queste due forze egli non ha fatto neppure un'iniziale esperienza. Si può dedurre dalla affermazione teorica del Barrès una particolare azione politica? Dalla teoria della "race" non è a rigore deducibile nè un nazionalismo nè un regionalismo. Ma per il Barrès il riconoscimento iniziale di un ordine ha valore insieme come affermazione di pensiero e come programma politico. L'artista non ha la forza di creare un'arte dai suoi motivi lirici e deve ricorrere a schemi: il pensatore non giunge a una chiara concezione e chiede alla vita pratica la chiarezza che gli manca. Solo in Francia può avvenire che descrizioni di paesaggi assumano un valore politico e che concetti parziali, non giunti alla maturazione del pensiero sostituiscano un programma di azione. Gli ultra-democratici, i realisti, che professano orrore per le idee astratte, non sono in Francia meno irreducibilmente intellettualisti dei loro avversari: la lotta politica diventa un gioco di formule: quando si sono ripetute sino alla noia, come formule di esorcismi, le parole vuote di "tradizione" "antico regime" "razza" che resta ancora da fare, per dare un contenuto a quelle parole? Non è già un azione politica quella professione di fede? In che consista la tradizione lorenese, di cui tanto ci parla il Barrès, non sono mai riuscito a capire, anche se egli abbia tentato di renderla più chiara sostituendo all'aggettivo lorenese il più sonante aggettivo di austrasica. E non è da meravigliarsi, poichè come può il Barrès, il quale non crede alle idee esprimere il contenuto di una tradizione altrimenti che con una idea? Egli accenna una volta ad una vittoria di un duca di Lorena contro un esercito germanico per ricavarne la dimostrazione di una Lorena proteggitrice della latinità: e questa è la sola corsa nella storia, credo, che abbia compiuto questo paladino della tradizione. Ma che anime fossero dietro quelle armi, che lavoro proteggessero, quale forza le tenesse unite, è cosa che il Barrès non dice e non può dire. Ha detto il Croce che il Barrès è passato dal sensualismo individualistico alla professione regionalistica attraverso il suo amore per il paesaggio. Il processo ci pare altro, ma cosa poteva fare il Barrès in onore della sua Lorena se non descrivere paesaggi? Così, fattosi frate, il giocoliere della leggenda medioevale, non sapendo offrire altro dono alla Vergine, compieva religiosamente, un'ora ogni giorno i suoi più difficili esercizi acrobatici dinanzi al sacro tabernacolo. La politica richiede ben altra umanità di quella che può contenere il prezioso animo di un letterato decadente. L'uomo che quando simpatizzava esteriormente coi partiti rivoluzionari, andava cercando i segni di una nuova società non nei lavoratori, attraverso il cui travaglio appare il barlume di un'aspirazione a un mondo migliore, ma nell'infima feccia della capitale, non potrà mai intendere le segrete vie per cui si forma una coscienza di nazione, e l'angoscia di un popolo, che sente venir meno le sue ragioni di esistenza e la gioia di una missione propria, unica, da far trionfare. Che corsa è, la famosa educazione regionale, predicata dal Barrès, la quale dovrebbe sostituire l'astratta e nefasta educazione universalistica? Un contenuto può trovare una simile propaganda politica solo nella polemica cogli avversari: e se un'azione il Barrès ha avuto nella politica francese del primi anni di questo secolo, è stata la satira contro le ideologie democratiche e i suoi rappresentanti. Ma perchè la sua ideologia è difettosa come la loro, tutto si riduce ad una satira in cui non si può dire se entri maggiormente la lotta di un ideale entro un altro o un desiderio di riso disinteressato. La democrazia è per il Barrès sopra tutto ridicola: si legga il libro "Scènes et doctrines du nationalisme" (molte scene e pochissime dottrine) in cui sono gli schizzi del giornalista sul processo Dreyfus, si leggano i vari romanzi a tesi e si vedrà che la rivolta del Barrès è sopratutto una rivolta individualistica, indifferente in fondo alle più alte ragioni della politica. Anche la posizione che il Barrès assume di fronte a monarchici e repubblicani, e che dovrebbe costituire la sua originalità è molto più vuota di quanto può sembrare: se il Barrès non respinge nè la tradizione monarchica nè quella repubblicana e dichiara che nulla di francese gli è estraneo, la sua posizione è in fondo identica a quella di tutti i suoi connazionali, i quali potranno sempre per la loro forma mentale costruire astratte ideologie, ma hanno riconosciuto, non è ormai poco tempo, la continuità di un'unica tradizione francese attraverso le varie forme che essa ha desunto. Come si può dunque spiegare la larga fama dal Barrès e il grande numero dei seguaci che egli ha trovato nella sua nazione? É vero che i francesi sono soliti a dare con eccessiva facilitá il titolo di "Maître" e che simili infatuazioni devono lasciarci scettici. Tuttavia il semplice scetticismo non può risolvere questa delicata questione. Che valore educativo può avere una. propaganda, che si riduce a una ripetizione spasmodica di due parole: "France " e "Lorraine"? Eppure in questa ambiguità è la ragione della fortuna barresiana. Abbiamo visto che il nazionalismo del Barrès si rifà al Taine e non al Nietzsche: altri a questo proposito ha parlato giustamente di una inferiorità ideale del nazionalismo francese, sorto da premesse naturalistiche, rispetto al nazionalismo tedesco, penetrato da una viva coscienza idealistica. Bisogna però chiedersi se un movimento nazionalista in Francia avrebbe potuto diffondersi, se avesse avuto coloritura Nietzschiana. Un movimento imperialista è in certo senso impossibile in Francia. Il francese ha sempre bisogno di restaurare qualcosa, di difendersi, di sentire la propria identica permanenza nel fluire della storia: l'esaltazione barresiana della race doveva coincidere coi sentimenti più profondi dei suoi connazionali. Quegli uomini, il cui Stato si rivelava di giorno in giorno più forte, avevano bisogno di qualcuno che esprimesse i loro sentimenti, non una guida, ma un poeta. Ciò che il Barrès ha dato loro, il nazionalismo regionalistico, si può dire un mito, non un mito d'azione, ma un mito nel suo significato tradizionale di interpretazione fantastica della realtà. Gli ammiratori del Barrès infatti non hanno mai pensato ad una traduzione pratica del regionalismo barresiano, ad una lotta anti - giacobina: le pagine del loro autore dicevano in parole magnifiche il loro attaccamento alla terra, la volontà di rimanere se stessi, erano quello che l'arte è per la maggior parte degli uomini un eccitamento dei propri sentimenti abituali. Si può dire perciò che il Barrès abbia dato alla Francia molto meno di quanto ha ricevuto. Deputato, accademico egli ha avuto la fortuna di non apparire neppure capo di un partito: egli è riescito ad essere uomo di parte e nello stesso tempo l'uomo della Nazione. Di rado un letterato ha raggiunto tanto con tanti piccoli mezzi. Ma nulla gli dei concessero agli uomini gratuitamente: e la fortuna pratica finora raggiunta, il Barrès l'ha pagata col caro prezzo della rinunzia a un possibile svolgimento dei motivi artistici da lui posseduti, e l'incontrastato successo dovrà forse pagarlo con una rapida disistima. Della quale non sono rari i segni nella sua stessa patria. La guerra, che doveva trascendere con un non mai visto esempio di ironia della storia tutti gli scopi particolari , poteva apparire in principio come la guerra del Barrès, la guerra che aveva auspicata e che ora avrebbe dovuto cantare. Ma come poteva sentire la drammaticità della guerra il Barrès, che più che odiare i nemici aveva sempre voluto ignorarli e per cui la lotta doveva essere piuttosto il cozzo preveduto di due forze brute che il contrasto cosciente di due gruppi di uomini! E il Barrès della guerra non è stato che uno degli infiniti giornalisti, e intorno alla guerra ci ha lasciato un numero infinito di articoli assolutamente insignificanti. Ancora al periodo della guerra appartiene il libro uscito lo scorso anno: "Le Génie du Rhin", libro di falsa erudizione, in cui l'ambiguità del nazionalismo barresiano si fa sentire una volta di più; sempre la stessa incertezza sulla missione lorenese e renana, che ora dovrebbe essere di conciliazione tra due popoli, ora di difesa avanzata contro il germanesimo. Che c'importa del resto l'occupazione rivoluzionaria e napoleonica del Reno? Certe situazioni non si ripetono due volte nella storia e nessuna nazione ha mai ricevuto in delega dal cielo una missione eterna. Ma la letteratura guerresca doveva (dopo ben tre anni di pace!) esaurirsi anche per un Barrès: un senso di fastidio più che una ribellione doveva indurlo a cercare nuove vie. Maurice Barrès è ritornato all'arte. Dinanzi al "Jardin sur l'Oronte" i critici francesi sono rimasti un poco sorpresi, ma non hanno potuto rinunciare del tutto al Barrès politico: qualcuno ha consigliato il lettore di ricercare sotto la finzione poetica la recondita intenzione politica: e come potrebbe essere assente la politica, quando si parla di Siria e di Crociate? Gli italiani se ne sono rallegrati e hanno invece scorto nel romanzo una liberazione artistica. Né gli uni né gli altri hanno però avuto ragione. Il romanzo del Barrès è una prova di più dell'incapacità barresiana di costruire caratteri: abbiamo il solito protagonista, che l'autore non riesce a staccare da sè e che con l'autore sempre si confonde, l'uomo senza volontà e desideroso di volere, il quale si era già chiamato Philippe e Sturel e veste qui i panni di un Crociato e incontra avventure molto complicate degli harem dei signorotti arabi della Siria: abbiamo la solita donna, appena un poco più viva del maschile protagonista, la cui immagine non sappiamo se sorga dal marmo duro dell'arte o dalle nebbie del desiderio: abbiamo i soliti giochetti di psicologia; né manca una scena finale di sensualità e di morte, in cui un motivo ormai volgare di arte è ridotto a uno schematismo cinematografico": neppure è assente la solita mancanza di "gusto" (inteso nel senso francese di convenienza morale ed artistica ad un tempo) nell'esaltazione che un vescovo fa con argomenti cristiani dell'eroe morente, artefice di imprese tanto gloriose come quelle che il lettore ha conosciuto. Per questo errore e per la sacrilega mescolanza di sacro e di profano, un gruppo di cattolici francesi ha protestato, sollevando l'indignazione di una buona parte dei loro connazionali. Il Barrès ha protestato a sua volta e ha suscitato numerose approvazioni: noi stiamo invece con tutto il nostro cuore dalla parte degli oppositori e siamo lieti che anche in Francia, dove un sacerdote cattolico aveva scritto senza esitazioni che l'opera del Barrès poteva essere considerata come avviamento al Cristianesimo, una legittima intransigenza ponga fine alle condiscendenze di un giorno. Non si tratta di libertà dell'arte: ma della falsità di una posizione spirituale che doveva un giorno o l'altra farsi chiara agli occhi di tutti. Il Barrès, che mai non ha voluto compromettersi, deve accorgersi di essersi ormai con la sua ambiguità compromesso completamente. Che cosa significa dunque il "Jardin sur l'Oronte?". Con un poco di indulgenza vi si potrà scoprire anche qualche bella pagina; a noi ora interessa l'osservare che il Barrès quasi sessantenne è identico al Barrès di vent'anni: la sua arte di oggi ripete la sua arte di ieri con molto minore freschezza: nulla è passato su di lui: nulla è rimasto delle sue trasformazioni. E in questa immobilità, è palese la sua condanna. MARIO FUBINI.
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