STUDI SUL RISORGIMENTO

La filosofia politica di Vittorio Alfieri. 8.

VIII. La politica

    Nel pensiero alfieriano si può trovare e spiegare un proposito politico, anzi addirittura una costruzione politica. Ma perchè l'esegesi sia valida occorre tener presenti i limiti da cui sorge questo sviluppo del sistema e della praxis dell'Alfieri. Gli interpreti che al nostro toccarono in sorte sin qui s'apprestarono al compito loro con illusioni di letterati mal nascoste tra formule giuridiche di costituzionalismo che in loro rimanevano estranee e di cui non avvertivan perciò i limiti, che i giuristi stessi già inizialmente vi stabiliscono. La sicurezza positivistica del Bertana, inquieto soltanto di impartire lezioni di scienza e di precisione tecnica al suo autore, e la sicurezza ancor più dogmatica degli altri letterati entusiasti di enumerare pregi e di ritrovare intuizioni di enciclopedica genialità perchè teneri della candida concezione che vuol trovare nel genio una rivelazione quantitativa di sottili scoperte - non potevano svelare con precisione un pensiero tutto fatto di chiaroscuri, di lampi improvvisi, di tempestosi fulgori.

    Non è seria la pretesa di riferire e commisurare le intuizioni alfieriane ai problemi pratici contingenti. E occorre proprio ripetere che la politica non si riduce ai problemi costituzionali?

    Poichè negli scritti politici non riuscivano a trovare il cercato costituzionalismo conservatore vollero vedere le Commedie come un sistema legislativo; il testamento di Alfieri diventava conservatore. Invece le commedie alfieriane rappresentano un momento di scetticismo, uno scherzo dove coesistono le incertezze più contraddittorie e dove non è possibile ritrovare un criterio organico di chiarificazione interna. Alfieri non è legislatore e quando ci si prova lo fa per gioco e non riesce a dissimulare il suo estetico disinteresse.

    In realtà gnoseologia, morale e religione lo conducono per una linea di coerenza inesorabile ad affrontare centralmente, unicamente, il problema dell'azione. Se tutto nel suo spirito è azione, se tutto si risolve e si sacrifica nella praxis, nell'impulso volitivo, la sua politica dovrà dare una forma sociale a questa impulso, dovrà essere la traduzione obbiettiva della sua religione.

    Perciò non programmi, ma leggi di praxis; non la preoccupazione del problemismo tecnico, ma la filosofia, la preparazione della pratica stessa. Ricorre spontaneamente un nome, un insegnamento e Alfieri si affretta a notarlo; Machiavelli. Del resto la tecnica della praxis non si predice, non si teorizza sui libri, ma si deve commisurare all'esigenza di ogni istante per opera di uomini educati a realistica finezza e comprensione. Tutto il capitolo ottavo del libro secondo Della Tirannide è pervaso da questa netta coscienza di relativismo politico. L'Alfieri si rifiuta di precisare maggiormente il suo programma pratico perchè, secondo lui, l'esperienza storica può indicare soltanto degli indirizzi e delle intenzioni, ma "quegli ordini che convengono ad uno Stato disconvengono spessissimo all'altro", "quelli che bene si adattano al principiare di uno Stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire e alle volte anzi nuocciono nel continuare", e "il cangiarli a seconda col cangiarsi degli uomini, dei costumi e dei tempi che è cosa altrettanto necessaria quanto impossibile a prevedersi e difficilissima ad eseguirsi in tempo". L'insegnamento dei Discorsi sopra la Prima Deca è qui ripreso con vigore e torna una potente figurazione realistica dell'Uomo di Stato.





    Ma dello Stato l'Alfieri non potè dare mai un concetto valido e chiaro, non perchè il suo pensiero non ne accettasse l'esigenza, ma perchè sempre doveva apparirgli come un risultato cui egli s'era professato già inizialmente incompetente. Tuttavia l'idea della Stato, anche taciuta, pervade i suoi propositi e i1 suo pensiero come idea definita di un organismo che dà una libera disciplina ai suoi liberi cittadini fondandosi appunto sull'antitesi ideale dell'organismo chiesastico (vedensi gli accenni alla sua ideale Repubblica - mai come in Alfieri la parola ebbe il suo senso etimologico romano - nel secondo libro, capitolo ottavo Della Tirannide).

    Il problema centrale era di crearlo, questo Stato, e non ci si poteva baloccare con formule teoriche o con piani fantasiosi: bisognava suscitare delle forze, opporre delle virtù alla tirannide; elaborare idee che diventassero forze.

    Con duro travaglio l'Alfieri riesce a superare il suo istinto letterario e a vedere il realismo necessario della nuova posizione. Inizialmente opponeva al tiranno il suicidio o il tirannicidio attraverso la congiura. Sono i due modi dominanti nel sentimento dei suoi personaggi tragici : diventano l'esaltazione di una coerenza rigida e lineare sino al dissolvimento di se medesima. Anche la congiura è eroica solo in quanto è un suicidio dettato dalla disperazione attraverso il quale il protagonista libera la sua libertà in una incontaminata catastrofe (Della Tirannide, libro II, cap. V).

    In realtà "benchè la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria e ai concittadini non possa aver luogo in chi nato nella tirannide, è inoperoso per forza civile; nessuno tuttavia può contendere a chi n'avesse il nobile e ardente desiderio, la gloria di morir da libero, abbenchè pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altri, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio".

    Ma a rovesciare la tirannide occorre che questa virtù di pochi si faccia spirito animatore di tutti: occorre che tutti sentano la tirannide.

    Le forze su cui bisogna edificare sono la nazione, il Popolo, la Classe politica. Il Bertana s'è affannato con molto impegno a dimostrar che l'idea di patria, di Italia era diffusa e dominante anche prima dell'Alfieri per due secoli almeno. Ciò è pacifico. Bisogna vedere come nell'Alfieri questa idea sia diventata una forza.

    L'Alfieri pensa il popolo eternamente rinnovato da un'operosa lotta interiore, da dialettiche dissensioni (Tir.; libro I, cap. VII), un popolo aristocratico, forte "e una volta per tutte mi spiego, chè io nel dir popolo non intendo mai altro che quella massa di cittadini e contadini più o meno agiati, che posseggono propri lor fondi o arte; e che hanno moglie e figli parenti, non mai quella più numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di nullatenenti della infima plebe. Costoro essendo avvezzi di vivere alla giornata; e ogni qualunque governo essendo loro indifferente poichè non hanno che perdere; ed essendo massimamente nelle città corrottissimi e scostumati ecc. ecc. ". Non altrimenti pensava Carlo Marx il suo popolo rivoluzionario.





    Il popolo ha la sua volontà e la sua forma nella classe politica che esso stesso esprime. Il vizio della tirannide "interamente risiede in quei pochi che il popolo ingannano". Anche la libertà deve avere la sua classe politica, strumento e guida alla volontà popolare; e questa appunto non si potrà creare con un'opera di propaganda, ma solo attraverso le forze storiche oscure creatrici di obbiettive realtà. Quasi divinando il processo marxistico di arrovesciamento della praxis l'Alfieri nota che una volontà di redenzione liberale sorgerà nel popolo per opera stessa delle intollerabili condizioni che la tirannide avrà determinata. S'incontreranno nella loro pura intransigenza due principi, due azioni. La lotta contro la tirannide sarà redentrice perchè avrà rinunciato per la sua coerenza ad ogni disgregazione individualistica e ad ogni utilitarismo. La moltitudine "non istigata, non prezzolata, ma per naturale sublime impeto, dalle ricevute ingiurie commossa a sdegno e furore, agisce all'improvviso con entusiasmo, energia e schietto coraggio" (Misogallo prosa seconda - Avvenimenti). Contro le formule galliche "libertà, uguaglianza, fratellanza" l'Alfieri vede le cose realisticamente nella loro dinamica di lotta.

    Così il popolo diventerà Nazione. "Nel dir nazione intendo una moltitudine di uomini per ragione di clima, di luogo, di costumi e di lingua fra loro non diversi; ma non mai due Borghetti o Cittaduzze di una stessa provincia, che per essere gli uni pertinenza ex gr. di Genova, gli altri di Piemonte, stoltamente adastiandosi, fanno coi loro piccoli inutili, ed impolitici sforzi ridere e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori". Insomma il criterio di nazione va riportato ai suoi fattori storici. Attraverso lo stesso processo dialettico che crea una volontà nel popolo anche la nazione diventa un fattore insopprimibile di sviluppo e di spiritualità. "Gli odi di una nazione contro l'altra essendo stati pur sempre nè altro potendo essere che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti o temuti, non possono perciò esser mai nè ingiusti nè vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odi soltanto hanno operato quei veri prodigi politici che nelle storie poi tanto si ammirano". (Misogallo, prosa prima).

    Il bisogno di superare le intemperanze anarchiche che erano state necessarie nella polemica contro la tirannide conduce qui l'Alfieri ad una professione che può parere di nazionalismo. In realtà l'Alfieri parla di nazione pensando a un elemento di dinamica e di sforzo operoso, ma il suo concetto è molto vicino alla teoria dello Stato-Potenza.

    Per l'esigenza insopprimibile che egli sente di svegliare virtù e di imporre una direzione all'"implacabile sdegno contro l'oppressore" si indugerà anche nell'Esercitazione a liberar l'Italia dai barbari ad affrontare in termini di pratica contingenza la determinazione di un disegno particolare capace di realizzare l'unità dell'Italia "che - come dice nel Misogallo, prosa prima - la Natura ha sì ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente d'Europa".





    È noto come egli tentasse di precisare l'effettuazione del sogno secondo un processo che resta genialmente realistico anche se non trovò indulgenza nel Bertana e negli altri critici. Era affermato dall'Alfieri con potenza ben nuova il concetto, che si stava ormai maturando nell'aria ma che solo nel 1849 fu realisticamente ripreso della fine necessaria del dominio pontificio. L'Italia "divisa in molti principati e debolissimi tutti, avendone uno nel suo bel centro che sta per finire, e che occupa la miglior parte di essa, non potrà certamente andare a lungo, senza riunirsi almeno sotto due soli principi che o per matrimoni dappoi, o per conquista si ridurranno in uno".

    Questa è la prima rivoluzione: ed io non saprei vedere di quale astrattismo qui vi sia peccato. Questo è più o meno schematicamente il processo di cui Vittorio Emanuele II è stato protagonista dal '48 al '70: e forse l'Alfieri avrebbe voluto soltanto maggior coerenza nell'assumere una posizione ideale di fronte al popolo. Così si sarebbero realizzate le condizioni materiali e quasi i presupposti obbiettivi perchè si suscitasse l'iniziativa popolare la quale nell'Alfieri doveva concludere necessariamente a darsi ordine di repubblica. E qui egli attingeva ancora dalla storia un'altra osservazione di opportunità: "L'Italia ha sempre racchiuso in se stessa (più per non scordarsene affatto il nome che per goderne i vantaggi) alcune repubbliche, le quali benchè affatto lontane da ogni libertà, avranno però sempre insegnata agli italiani che esistere pur si può senza re, cosa, di cui la colta ma troppa guasta Francia non ardirà forse mai persuadersi". Ma l'iniziativa non si sveglierà senza i "bollenti animi, che spinti da impulso naturale la gloria" cercano "nella altissime imprese" e "senza la giusta e nobile ira dei drittamente rinferociti e illuminati popoli". È insomma la rivoluzione di Mazzini, anzi il mito centrale di azione che ha ispirato tutti i più profondi tentativi politici in Italia dopo il '700.

    Questa è la vera profezia dell'Alfieri, il suo pensiero riconquistato nella praxis. Anticipando la rivoluzione francese egli assegnava all'Italia, lucidamente a originalmente, la funzione che nel nuovo ciclo della storia europea ebbe la Francia rivoluzionaria. Solo in queste premesse si può trovare una giustificazione degna e profonda dell'atteggiamento suo di fronte alla rivoluzione francese.





    Infantilmente parlarono gli esegeti dove, smaniosi di sorprendere un'effusione o uno slancio alfieriano magari volutamente esagerato, teorizzarono un Alfieri irritato sino alle bizze o al capriccio, attribuendovi cagioni del tutto sentimentali e talvolta addirittura una bassa origine di calcolato utile o di lesi interessi, il processo della scuola positivista ebbe addirittura le forme e lo spirito di un tentativo, non esente da malizia e ingenerosità, di sorprendere la buona fede e la franchezza dello scrittore della Vita. La dimostrazione di ciò va rimandata in sede di biografia. Ma non era possibile neanche qui rinunciare a porre il criterio secondo cui noi crediamo che la famosa storia dell'usurpazione di libri e carte dell'Alfieri debba ridursi a un fenomeno d'illusione simbolica degli interpreti, favorita da un'incertezza del nostro.

    In realtà nella negazione che l'Alfieri ha opposto alla rivoluzione francese c'è una tragedia personale, ma vi è impegnato tutto il suo spirito, si tratta della sostanza stessa del suo pensiero e della sua azione. Con la meravigliosa lucidità e la perspicacia del creatore che vede, sgomento, la sua creazione stessa in pericolo, egli intuì che nei moti rivoluzionari d'oltralpe si rivelava e si affermava obbiettivamente con chiarezza e ampiezza europea l'immaturità dell'Italia alla divinata funzione storica. Incapace di dominare e di precorrere lo sviluppo mondiale, l'Italia si trovava condannata anche come nazione a non poter trovare la sua armonia interna e la peculiarità della sua iniziativa rivoluzionaria: anche la sua unità sarebbe nata da un artificio, da un'imitazione. Di qui l'intransigenza fiera, l'incomprensione voluta. La storia gli diede ragione anche qui.

    Se la conquista napoleonica dell'Italia ebbe un valore d'impulso nell'aspirazione all'unità, essa non fece poi all'ora della soluzione che aumentare l'equivoco e un Risorgimento italiano, anche in proporzioni ridotte, si ebbe solo da una reazione al sensismo e all'Enciclopedia che riaffermò una tradizione specifica e una originalità nazionale.

    L'Alfieri combatteva con tanta ferocia perchè combatteva contro se stesso, contro le idee che essendo il suo sangue stesso, gli rinascevano dinanzi diventate insuperabile ostacolo per lui. L'antitesi poteva perciò sembrare un'antitesi personale, sentimentale: era solo più l'opposizione di due volontà, e le imprecisioni ideali o teoriche dipendevano dall'immediatezza del contrasto. Ma non perciò si dovrà ritenere valida l'interpretazione reazionaria e conservatrice in cui hanno voluto costringere i suoi scatti sino a costruirne un sistema di liberalismo pacifico, nemico di ogni violenza, costituzionale - che è in realtà il sistema della sua antitesi obbiettiva. Egli pan si cullò mai in sogni di pacifismo e di idillio sociale. Non lo spaventò la violenza se ad essa avesse dovuto sboccare la realizzazione delle sue idee. La previde. Identificò addirittura iniziativa e originalità con violenza e intolleranza. "E giunge avventuratamente pure quel giorno in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia di liberi e virtuosi uomini".





    Nel suo realismo egli provò uno schianto alla vista della sua profezia realizzata da estranei; non ebbe più la forza di una nuova riaffermazione eroica e precisa che lo avrebbe ridotto a un isolamento ideale sublime ma indispensabile; e si spiegò nella solitudine individuale. Il compito da realizzare non si poneva più a un individuo ma a tutte le nuove generazioni.



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APPENDICE

La tragedia come fonte del
pensiero politico alfieriano.

    La nostra indagine non poteva non prescindere dall'esame delle tragedie alfieriane. E questo non perchè noi crediamo ad una rigorosa distinzione di arte e pensiero, di intuizione e di teoria, quale è dogmaticamente applicata dagli ultimi fanatici di quella prima estetica crociana, apparentemente fatta appena per gli storditi dell'estetismo dilettantesco, che il Croce stesso ha ormai superato definitivamente e a cui attribuisce soltanto il valore di un necessario momento polemico. Ma nelle tragedie di Alfieri, in particolare, noi non possiamo ritrovare un momento di effusione lirica nè sorprendere una confessione o un principio di teoria. Le tragedie più lunghe superano di poco i 1500 versi: il dialogo è sempre travolgente, il soliloquio, in un momento di ansietà intensa, fissa un proposito o un esame di coscienza ma essenzialmente adattati al fatta che si sta per compiere, all'incalzare dell'avvenimento tragico.

    In questo senso manca nell'Alfieri la riflessione: o, per essere più precisi, c'è quella riflessione che è connaturata coll'azione stessa e non la si può astrarre perchè è; essa stessa sforza operoso. Percorre la tragedia alfieriana un senso tormentoso della concretezza creante della praxis: ma il poeta lo contempla e domina in una sovrana impersonalità di serena realizzazione nella quale poi consiste di fatta la sua vera individualità che è individualità insostituibile e singolare appunto in quanto è uno spasimo realistico verso il divino, presente. Fissare intellettualisticamente con precisione di esegesi qual era l'atteggiamento pratica dell'autore di fronte ai suoi fantasmi non sarebbe nè saggio nè fecondo: qui vive l'obbiettività stessa del mondo alfieriano e vi si deve cercare non l'autobiografia psicologica ma, se così si può dire, un autobiografia cosmica. L'analisi dell'interprete deve mirare a stabilire l'unità e la coerenza di questa travolgente fantasia la quale per la sua natura stessa è fuori della storia empirica, in un ciclo ideale di eroicità.





    Fermate questi crei, portateli nel mondo quotidiano, interrogateli, fateli confessare: e concluderete col Bertana che sono astratti, che il loro pensiero, i loro propositi non sono politicamente realistici. Ma voi avrete ucciso questi fantasmi sovrani riducendoli a uno schema che per essi è menzogna.

    Rinunciato invece a questo ultimo residuo veristico che v'induce, ragionando con le creature della poesia (le quali non hanno sesso nè passioni nè interessi perchè sono armonie e concretezze della irrealtà), a portarle nella vita quotidiana e a censurarle o lodarle quasi fossero uomini: riportatele invece al centro e allo spirito che le ha determinate, ubbidendo solo alla sua realtà e spontaneità che è anche la sua assolutezza. Allora le tragedie alfieriane saranno una conferma a posteriori dei principi che noi abbiamo determinato prima nella loro genesi concettuale e il mondo che in esse si agita non sarà che la praxis dell'affermato ideale. Giunti a questo risultato, se il critico pur volesse ad ogni costo cimentarsi in un'opera di astrazione, avrebbe dei modelli di azione, degli esempi di fantasia eroica in quelli che pur s'ostina a chiamar personaggi. Ma tale azione indicherà - come indicava la filosofia alfieriana nei suoi motivi più originali - la genesi della volontà, la lotta interna, non un'ipotetica fine o una determinata linea di azione contingente.

    Questo processo critico è il solo che possa dare risultati estetici alle premesse politiche. Perseguendoli nel loro valore autonomo avremo la vera unità, riusciremo a conclusioni perfettamente corrispondenti. Valgano come modello di analisi queste considerazioni sul Saul.

    La critica non è riuscita a dar ragione del capolavoro dell'Alfieri finchè è rimasta alle formule patriottiche e romantiche e vi ha cercato la tragedia dell'odio politico o la tragedia della follia. Invero se l'Alfieri è il poeta dell'intuizione violenta, come approssimativamente la definisce il Momigliano, o meglio, il profeta del superuomo, l'artista dell'eroico furore, come appare al Croce, gli elementi politici e i romantici impulsi di cieca spontaneità creativa non saranno il contenuto di una tragedia, ma lo spirito e la forma del suo stesso sfarzo espressivo e parrà ingenuo ed arbitrario ad ognuno astrarli quali generici motivi di pensiero dalla vivente sintesi estetica.

    Meglio s'avvicinava al vero il Sismondi che cercava nel "Saul" la fatalità non del destino, ma della natura umana e vedeva nel re morente la vittima dei suoi rimorsi (non dei suoi delitti) "aumentati dallo spavento che un'immaginazione nera ha gettato nella sua anima".

    E indipendentemente dal Sismondi, il Gioberti, con questo giudizio: "Egli è riuscito a dipingerci un tiranno, che sente ripiombare su di se stesso la propria tirannide, che n'è il primo schiavo".





    Invero anche qui - non ostante l'opposto giudizio comune che svaluta le autodisamine alfieriane - il segreto della tragedia e del protagonista erano stati colti già dall'Alfieri quando indicava come stato d'animo centrale la "perplessità". Segreto del "Saul" e di tutta la vita alfieriana, se lo si mette in rapporto con l'altro elemento positivo del suo romanticismo: l'eroicità - che ne sorge come forma pura dell'agire e sbocca inesorabilmente, in un processo lineare di solitudine e di coscienza, alla disssoluzione di se medesimo e al crollo di ogni umana debolezza, immolata al mito dell'assoluta libertà interiore, lineare e, per così dire, istintiva sino alla cecità.

    Se questa è la tragica sostanza spirituale del suo ardore disperato, nessun dubbio che il "Saul" sia "la più densa e la più ricca espressione di quel mondo eroico e tempestoso che gli ribolliva nell'anima, di quella spiritualità gigantesca che fu la sua mira costante e che, sparsa in tutti i suoi volumi, trova la sua rappresentazione in parte riflessa in parte diretta nell'autobiografia, e si delinea qua e là anche nelle tragedie minori, in figurazioni fugaci che si ergono solitarie, come creature di un mondo superiore, in mezzo a un paesaggio freddo e scoglioso". Tuttavia l'aver visto l'unità del mondo alfieriano solo nella creazione dei caratteri induce a un errore di staticità e giustifica illusoriamente l'accusa di monotonia e di calcolo, mossa dalla recente critica estetica. L'individualità alfieriana è un'aspirazione ideale fortissima, non un risultato inconcusso; la sua precisa volontà, l'impulso cieco all'azione sono un atto iniziale di coscienza che si dispiega e s'invera poi in una lotta, in un organismo di torbida complessità e di viventi contraddizioni. La sua "anarchia" si nega politicamente e artisticamente in un senso vivo del creare, e in un'esaltazione dell'organica spontaneità della storia. Egli non vive di sole affermazioni, non si tempra solo nell'autocritica del soliloquio: ma della solitudine dà una drammatica espressione; e il tormento ideale rende oggettivo in un contrasto ove le volontà cozzanti trovano la loro catarsi nell'annullamento.

    "Saul" non è il dramma della pazzia, perchè non è il dramma dell'autocritica: la perplessità del re è la misura che mette in rapporto il suo chiuso eroismo con la solitudine incompresa del mondo che vive con lui - non diventa dubbio, non genera altra azione che la cosciente rinuncia scelta come sola espressione perfetta della propria coerenza. In questo senso "Saul" è la tragedia della volontà; che nella solitudine si afferma come dominio, e resta incompresa ed estranea mentre si estrinseca - serenamente vista dal poeta. con storica passione - ma incapace di suscitare consensi e di temprarsi in una conciliazione - impenetrabile di fronte ad altre solitudini impenetrabili, perciò vittima di se stessa e tragica perchè coerente.





    La religiosità di questa umana dissoluzione è nel cozzo degli individui, sacri nella loro chiusa liricità, indomiti nel loro disfrenato uscire da se stessi.

    La tragedia esiste a patto che tutti ne siano protagonisti, invasi da quel divino che Achimelech sente in sè, e da cui son fatti "fulmine, turbo, tempesta". Uguali - non si comprendono. Anche amandosi restano estranei. Nel mondo alfieriano non c'è posto che per gli eroi - appena individuati essi restano soli in mezzo a una folla volgare evanescente e non espressa. Il problema della comunicazione tra questi giganti è il problema della tragedia alfieriana. Fissi alla coscienza di sè restano indecisi tra lo schema e l'azione. Parve calcolo ai critici quello che è lo spirito alfieriano: l'iniziale aridezza della rigida volontà degli attori, inesorabile sino a dominare e sconvolgere la serenità della fantasia realizzatrice. Di qui l'ineguale validità epressiva del teatro alfieriano, in cui trionfa la lirica nei momenti di sviluppo lineare, ma domina la pausa dell'incomprensione quando i personaggi dovrebbero agire. "Saul" è il capolavoro, solo perchè in questo gran quadro della fantasia alfieriana s'oppone chiaramente volontà a volontà, passione inesorabile a chiusa passione: e alla lotta presiede un criterio di armonia e di identità volitiva. Micol, Abner, Achimelec, David, Gionata sono figli di una stessa disperazione che li conduce a dissolversi volontariamente e a rappresentare nella catarsi della loro rinuncia quasi le fasi e gli elementi dell'agitata coscienza di Saul. Tutti restano fedeli al loro fato, temprati d'uno stereo fuoco che s'alimenta della febbre di voler essere divinamente se stessi. Il nuovo criterio dell'eroico alfieriano non è più nell'aspirazione, ma nel chiuso spasimo della coerenza. Saul a tutti sovrasta e dà la misura della legge tragica per l'intenso fervore della sua volontà, per la serenità che domina nella sua disgregazione, per la perfetta sovrumanità con cui resta fedele a se stesso anche quando nel suo spirito la lotta s'è oggettivata e lo consuma dominando secondo la legge fatale dei cozzanti impulsi inesorabili; la sua pazzia è composta, impassibile perchè è insieme disgregazione e consacrazione; è il dissolversi dell'individuo nella sua realtà cosmica. La tragicità alfieriana conquista la sua legge e la sua misura in questa realizzazione mitica di una sovrana solitudine.


PIEGO GOBETTI.

FINE.