STUDI SUL RISORGIMENTO
La filosofia politica di Vittorio Alfieri 4.
IV. Polemica anticattolica.
Abbiamo visto sorgere la filosofia dell'Alfieri dalle intime esperienze del poeta e dell'uomo che rimangono vivissime anche nello sforzo teoretico della riflessione. Abbiamo dimostrato come il vero processo di liberazione dai limiti del suo tempo derivi in lui dal non aver accettato l'esigenza della costruzione sistematica.
Bisogna ora che ricostruiamo la vitale freschezza del suo pensiero nei motivi e nella situazione storica che l'hanno generato: appunto perché frammentario esso può accogliere in ogni istante motivi nuovi di chiarificazione ed esplicarsi più libero sotto il pungolo di una necessità polemica.
La polemica che occupa il centro dello spirito alfieriano è empiricamente duplice, sostanzialmente una e colpisce contemporaneamente il dogmatismo cattolico e l'assolutismo monarchico. Occorre distinguere nel pensiero alfieriano la critica al cattolicismo dalla critica alla religione: posta questa legittima e necessaria distinzione, che il Bertana si è scordato, la polemica alfieriana è tutta coerente e chiara;
le poche contraddizioni che non si aboliscono per questa via si giustificano come frammentarie digressioni suggerite da motivi artistici: il famoso sonetto "Alto, devoto, mistico, ingegnoso" che muove da alcuni veri e propri concetti religiosi dell'Alfieri, degni di speciale discussione, rappresenta poi nei suoi accenti più cattolicamente ortodossi il risultato di un episodio di seduzione esercitata da un misticismo estetizzante del culto.
E non è problema che qui importi discutere, ossia non rientra in sede di teoria della religione l'atteggiamento pratico attenuato e conciliante che egli assunse durante la rivoluzione francese verso persone e cose del culto: che per reazione all'ottusa antireligioneria gallica egli sia stato tratto a considerare i papi, e insieme i re, quali parapeggio: questo è problema di empirismo storico che si deve discutere solo quando si voglia tessere la cronaca o la biografia esterna dell'Alfieri.
Il documento più importante del pensiero alfieriano sul cattolicismo è il capitolo VIII del libro I Della Tirannide che nel suo significato centrale racchiude la negazione della vecchia ontologia.
Critica il monoteismo con criteri politici esclusivistici e limitati ma contemporaneamente affaccia la distinzione tra cattolicismo e cristianesimo, distinzione profondamente romantica, e filosoficamente notevole per la sua immediata fecondità ideale; è quasi l'implicito riconoscimento del valore eretico dell'atto che dà vita alla creazione religiosa e nell'Alfieri, contemporaneo agli enciclopedisti e ai catechismi laici, dimostra una singolare inquietudine spirituale e una profonda coscienza dei massimi problemi.
Distingue nella critica del dogma lo spirito dalle forme. Il culto delle immagini, l'eucaristia, ecc. si possono agevolmente svalutare se si prendono arbitrariamente nel loro senso superficiale: ma la loro verità si deve ricercare nell'organismo di cui fanno parte e di cui sono un aspetto e anzi addirittura una mera estrinsecazione: dimostrandole assurde non si dimostra nulla contro il cattolicismo come filosofia, mentre esse rimangono prive di senso quando si sia esaurita definitivamente la critica alle forme ideali del cattolicismo.
I paladini francesi dell'incredulità avevano volte le loro critiche e i loro sarcasmi all'ingenuità superstiziosa delle credenze popolari: con ciò avevano creduto di stroncare religione e cattolicismo. L'Alfieri aveva accolto nella giovinezza, respirandoli col sensismo ch'era nell'aria, alcuni di siffatti motivi (18) ma rimase così lontano dallo spirito degli enciclopedisti (ritenuti sue fonti dal pregiudizio corrente) che invece dei germi dell'astratta critica intellettaualistica e delle sottigliezze razionaliste ha svolto dalle sue premesse una concezione integrale e unitaria della realtà.
La sua critica al cattolicismo significa perciò critica al dogmatismo sterile, che si è sostituito all'esperienza religiosa, condanna della fede diventata convenzionalità, della morale irrigidita nella precettistica, dello spirito falsificato nello schema.
Nel suo ardore libertario la lotta contro il dogmatismo cattolico è lotta contro il Medio Evo, ossia contro una tradizione esausta che è presente solo per soggiogare le menti con un esempio diseducatore di passività.
La sua negazione si rivolge contro la Chiesa non contro lo spirito religioso e, checché ne sia parso al Berti muove sostanzialmente da un'intima religiosità, superiore al principio criticato.
Nella storia delle affermazioni teoriche dell'irreducibile contrasto tra la Chiesa e lo Stato nazionale, dal Machiavelli al Vaticano e lo Stato di G. M. Bertini (18), l'Alfieri si inserisce con piena coscienza attingendo ai motivi di speculazione più concreti.
II Papa, l'inquisizione, il purgatorio, la confessione, il celibato: ecco le basi antiumane che costituiscono il cattolicismo e che bisogna demolire. Esaminiamo partitamente la dimostrazione alfieriana dell'inaccettabilità, di questi concetti e di questi istituti, e per ultima 1'indissolubilità del matrimonio che egli combatte, per le ragioni che vedremo, alla stessa stregua, riconducendola alle medesime origini logiche.
Nella negazione del Papa, è implicita la negazione del dominio temporale, come risulta da questo epigramma:
Sia pace ai frati,
Purché sfratati;
E pace ai preti,
Ma pochi e
queti,
Cardinalume
Non tolga
lume,
Il maggior prete
Torni alla
rete.
Il papa è papa
e re
Dessi aborrir
per tre.
I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere esservi un uomo "che rappresenti immediatamente Dio; un uomo che non possa errar mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della libertà e il timore, non potendo essere inspirato dalle scomuniche, attesta chiaramente che dove è il pensiero del pontefice, là è il tiranno, dove vi è dommatismo religioso, là vi sono spade a sostenerlo".
Mentre le credenze meramente astratte e prive di pratica influenza (come la Trinità) sono da ritenersi poco nocive anche se irrazionali; "l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione, importa molte e notabili conseguenze; tali insomma che ogni popolo, che crede o ammette una tale autorità si rende schiavo per sempre". E per mettere bene in luce l'immoralità della credenza l'Alfieri disegna minutamente il processo antieducativo attraverso cui essa si sviluppa nella sua piena logica.
Un popolo sano e libero che accetti la credenza nella infallibile e illimitata autorità del Papa "è già interamente disposto a credere in un Tiranno, che con maggiori forze effettive, e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel Papa stesso lo persuaderà o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo Papa nelle religiose".
Il cattolicismo comincia con una rinuncia alla dignità umana e nega e contraddice, ogni giusta preparazione all'autonomia dello spirito: ché, se anche la fede venga meno nell'individuo egli è per questo "tormentato, perseguitato, sforzato da una forza superiore effettiva". Così "quella prima generazione d'uomini crederà nel Papa per timore". Ogni sforzo operoso si spegne per ineluttabile logica sotto la costrizione dell'abitudine, ogni spiritualità si irrigidisce. I figli crederanno nel pontefice per "abitudine"; i nipoti per "stupidità". La conclusione del ragionamento appare, attraverso la commozione, impassibile e tragica: fredda verità, ineluttabile, angosciosa condanna che stronca ogni velleità.
"Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo". Ma oggi i più in Europa ammettono tale autorità senza crederla, e di qui l'Alfieri trae argomento a sperare che non possa essere ormai gran fatto durevole poiché la forza intrinseca di tali vecchi principi è ormai tramontata e si sostengono al presente solo per opera del Tiranno.
"Dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'inquisizione".
"La inquisizione, quel tribunale sì iniquo di cui basta il nome per raccapricciare".
"Autorità dei preti e dei frati vale a dire della classe la più crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo".
Senza pregiudizi di cattolico liberale in anticipo (benché il cattolicismo liberale fosse ormai nell'aria) l'Alfieri afferra la rigida connessione logica e pratica che fa coesistere nell'unità del sistema generale tutti i termini e gli elementi della teoria e della praxis cattolica. La sua critica presuppone la rigorosa coerenza del principio contro cui si esercita. La complicità di inquisizione e tirannide diventa nell'inesorabile polemica alfieriana il nuovo aspetto e l'evidente chiarimento della premessa ideale che aveva rivelato la sostanza dogmatica e tirannica del principio cattolico. La conclusione si esprime ancora una volta nel ritornello "non vi può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo libero".
La critica al concetto di confessione muove apparentemente da premesse di mero buon senso; evita tuttavia la superficialità dell'ateismo francese, da salotto e ritrae la sua forza concettuale dal nuovo organismo etico che la determina. La confessione non è da combattersi in sé per le sue incongruenze empiriche: la sua realtà è tutta nel concetto primo di una trascendenza: negandola ci si deve riportare alla negazione centrale. E l'Alfieri la nega infatti in nome di una immanente libertà che riconduce all'interno, alla coscienza dell'individuo il fondamento della morale. Di questa autonomia l'individuo deve sentire e conservare la dignità e la responsabilità: deve diventare sacerdote di sè stesso: quel popolo che vi rinunci, e si pieghi alla confessione "non può esser libero né merita d'esserlo".
Echi di settarismo enciclopedistico si trovano nella critica alla dottrina del Purgatorio che 1'Alfieri riprova ricordando - non si saprebbe dire se con ironia o con sdegno - la conseguenza pratica che ne scende: "la sterminata ricchezza dei preti, e dalla lor ricchezza la lor connivenza col tiranno". Tutto ciò "contribuisce non poco ad invilire, impoverire e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli". Ma l'Alfieri colpendo insieme confessione e purgatorio - e sia pure con una malizia, ingenua e convenzionale - dà ancora una volta prova di sottile penetrazione critica, poiché mentre oppone una critica rispettosa ai principi fondamentali del cristianesimo e non è alieno dall'accettarne la sostanza eterna, si mostra poi inesorabile nell'esame dei dogmi che il cattolicismo vi è andato sovrapponendo non tanto per soddisfare bisogni religiosi, quanto per vincere pratiche battaglie, e coglie tali sovrapposizioni vigorosamente e precisamente. Ora è vero che la distinzione tra cristianesimo e cattolicismo, fatta con lo scopo di accettare il primo per respingere il secondo, non è teoricamente valida; l'Alfieri stesso sa che la logica della trascendenza investe di sé religione e politica e che pertanto non v'è di eterno nel cristianesimo se non la religiosità, l'atteggiamento formale dello spirito mentre caduchi ne sono gli svolgimenti e la precettistica morale dei Vangeli. Tuttavia nell'Alfieri e in tutto il pensiero che prepara il liberalismo nostro questa distinzione si giustifica validamente in quanto soddisfa un'esigenza storica.
L'ultimo motivo alfieriano di critica al cattolicismo nasce da un approfondimento del problema sociale e morale che quasi non era lecito aspettarsi da uno spirito come Vittorio Alfieri pervaso da così viva coscienza individualistica che pare rasentare talvolta motivi addirittura anarchici. L'Alfieri contesta la legittimità del celibato dei preti, ma alla sua osservazione (comunque ai tempi e anzi tutt'altro che recente) dà il preciso carattere di negazione d'ogni egoismo individualistico. Al cattolicismo oppone il cattolico spirito del Vangelo. Al dogma la morale: dall'essere i preti cattolici sforzatamente perpetui celibi non sogliono mostrarsi né fratelli, ne fili, né cittadini; che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati troppo importa il conoscere per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e di marito.
Contro questa affermazione potrebbe qualche bello spirito, banditore di una precettistica, opporre la vita privata dell'Alfieri: e dire che non è valida la giustificazione teorica da lui offerta del suo celibato, poiché, in sede teorica, un dovere morale si commisura all'attività spirituale di un individuo nella sua assolutezza, non ad una condizione contingente quale è lo stato politico di libertà o di schiavitù del paese.
Tuttavia la contraddizione mettendo in luce quanto intensi fossero nel nostro i motivi di disgregazione sentimentali e le aspirazioni anarchiche, offre una misura valida per intendere l'importanza del suo concetto che scaturisce potente da una elaborazione profondissima. Il momento astrattamente individualistico del liberalismo è superato in una salda coscienza dei valori dell'individuo come individuo sociale. Il termine uomo è inverato nei termini cittadino e padre: fuori della famiglia, intesa non egoisticamente o affettivamente ma come primo nucleo sociale, non v'è moralità perché non v'è organismo.
Insieme con il celibato dei preti l'Alfieri combatte l'indissolubilità del matrimonio, instaurata dal cattolicismo: come egli ricolleghi questa critica al concetto centrale conquistato dianzi, non si vede; e non v'è ragione perché dei danni notati nel matrimonio perpetuo s'abbiano a incolpare, com'egli fa, i tiranni.
Ma senza tentare una pedantesca giustificazione basterà avvertire che il radicalismo era nell'aria.
(continua.)
P. G.
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