A PROPOSITO DEI CETI MEDI.

    Ho sempre ritenuto e constatato che nella Rivoluzione Liberale è possibile polemizzare in buona fede su argomenti di pubblico interesse, e non dubito quindi che saranno accolte e pubblicate poche parole sull'ultimo articolo di Ansaldo "Ceti medi ed operai".

    Premetto d'essere un vecchio e sincero ammiratore di quell'attività culturale italiana che ha come spina dorsale "Leonardo", "Voce Letteraria", "Voce Politica", "Unità", "Rivoluzione Liberale"; e che ritengo Prezzolini il più brillante scrittore Italiano: son quindi sicuro di non essere frainteso; tanto più che dirò cose molto semplici, che già da tempo avrei dovuto scrivere, ed alla cui esternazione l'articolo di Ansaldo mi è più che altro di spunto.

    Tempo addietro infatti, scrivendo ad un mio intelligentissimo amico, ex-Direttore di un giornale riformista d'Ivrea, dovetti rilevare la infondatezza di questa affermazione: che l'operaio, oggi, sia oggetto di disprezzo e di odio da parte delle così dette classi borghesi, o dei ceti medi, come più propriamente specifica l'Ansaldo.

    Effettivamente l'articolo di Ansaldo, come più d'uno di quelli che vengono ora comparendo anche su riviste molto serie, è infirmabile, a mio avviso, in questo senso. Ci proveremo a parlarne, non prima però di aver pregato il dotto scrittore di valutare il nostro tentativo alla stregua dei suoi espliciti moventi, che si compendiano, almeno in chi scrive, nell'assenza, come si finisce di dire, di qualsiasi odio per le classi lavoratrici.

    Questa frase: "l'amore per il popolo", che potrebbe avere un significato in Marx, o magari in Graziadei, non pare che ne abbia in altri scrittori i quali del popolo succhiano ancora la linfa.

    Non adoperiamo quindi, questa biblica frase; cioè, quando non provenga da Cristo, o non sia collegata ad avvenimenti gravi quanto quelli che la crearono ("L'ami du Peuple"), suona oggi o come l'indice d'un egoismo abbastanza semplice, o reca implicita in sé una certa ostentazione d'esser dal popolo qualche cosa di molto diversi. Partiamo invece dal concetto che la vera eguaglianza sta nella proporzione - perché le grandi differenze fra gli uomini le crea e le mantiene la natura - e vediamo di dir qualche cosa di oggettivo sui diritti degli operai come pure, per associazione di contiguità, su quelli dei ceti medi, tralasciando di parlare del capitalismo avventuriero di cui l'Ansaldo ha già detto abbastanza.





    Vediamo: cosa trova di strano l'Ansaldo nel magistrato (a trenta lire al giorno) che scrolla il capo giudicando un ladro che ne guadagna abitualmente quaranta? Non bisogna adoperare le artiglierie della retorica contro le ombre. Le due funzioni sociali, chiamiamole ridendo così, sono abbastanza distinte anche per Ansaldo, io spero.

    Sta il fatto che le alte paghe degli operai, quando non siano il fenomeno peculiare di una speculazione singolarmente nuova e vantaggiosa, ma assurgano, come abbiamo veduto in questi ultimi quattro anni, a ricompensa sociale misurata dagli stessi percipienti, ed imposti con capestri antieconomici a tutte le industrie, debbono subire o prima o dopo una revisione morale ed economica.

    Revisione morale, ad esempio, il fallimento della Banca Italiana di Sconto, che ha detto anche troppo chiaramente al piccolo risparmio italiano chi pagò per tanto tempo gli alti salari ai metallurgici. Revisione economica immediata: cinquecentomila disoccupati.

    Noi crediamo di esser nel vero affermando che nell'animo delle classi appena sbozzate sia stato sempre tanto certa l'imminenza della delusione operaia, che l'odio per il lavoratore a salario fantastico non ha avuto tempo nemmeno di formarsi, tanto le leggi economiche più elementari hanno automaticamente corretto - qui come altrove - quella mancanza di aderenza fra produzione e rimunerazione da cui solo può nascere od alimentarsi, a lungo andare, un odio vero e potente fra classe e classe.

    E quanto al: "Guadagna più di me - che ho fatto i miei studi", l'Ansaldo direbbe cose apprezzabili se quel fraseggiare non fosse affatto entimematico.

    La frase che si sente spesso ripetere, è bensì quella: ma essa si riferisce alle funzioni sociali compiute coi titoli accademici, e non a questi ultimi soltanto.

    Il protagonista infatti dell'episodio citato dall'Ansaldo è un amministratore della giustizia; e le frasi incriminate traggono senso e sapore di verosimiglianza dalla funzione sociale del magistrato, e non certo dal suo diploma di laurea.

    Un epicherema viceversa, abbastanza palmare, è il seguente:

    1. Egli guadagna più di me che mi son dovuto preparare tanti anni per avere quei requisiti che la Società, attraverso un'esperienza politica di secoli, ancora richiede a coloro che debbono disimpegnare funzioni non per anco abolite, ed alle quali io sono stato chiamato non prima di aver dimostrato di possedere i prescritti requisiti".





    Eppure, sia o non sia il lavoro da considerarsi come una merce più o meno rara, è chiaro che una preparazione di tre o quattro lustri di studi forma un'elite che è di fatto chiamata a concorrere potentemente (in teoria: lasciamo stare se poi in Italia sia necessario decurtare, epurare e magari prendere a calci i quattro quinti dei sedicenti lavoratori del pensiero) al mantenimento dell'ambiente necessario allo stesso pacifico lavoro che non si esaurisce, l'Ansaldo lo ammetterà, nell'officina.

    2. E poiché appare tutt'altro che dimostrato che l'altezza dei salari sia stato un fenomeno connesso a speculazioni tutte eccezionalmente fortunate (le condizioni dell'industria in Italia dicono perfettamente il contrario), o a immanenti esigenze sociali (se così fosse non ci sarebbero i disoccupati); mentre invece sono notorie le mene sindacaliste e protezioniste dei lavoratori da una parte e degli industriali inetti o rapaci dall'altra;

    3. Resta più che giustificata la reazione dei ceti per ciò solo posposti, la quale si sta chiudendo non già col tentar di togliere alla classe operaia i vantaggi da essa conseguiti, ma con l'adozione da parte dei detti ceti dei più acconci metodi perché la revisione delle benemerenze sociali sia profonda, generale, efficace alla stabilità delle istituzioni e rispondente ad un giudizio storico possibilmente definitivo.

    Questo è l'epicherema che Ansaldo tace, ma che avanza già da tempo in pratica queste poche parole di teoria. Il problema dell'assetto degli intellettuali non appare secondario rispetto a quello dei lavoratori del braccio: trascurarlo è come occuparsi del problema del pane dal forno in poi, disinteressandosi della semina dei cereali, ed affrontandolo quindi come Don Ferrante di felice memoria nelle pagine immortali del Manzoni.

    Ripetiamo che il gran problema generale oggi è un problema di proporzione: e pure ammettendo che questa proporzione possa automaticamente determinarsi mediante la stampa vivace e partigiana di tutte le classi (che in gran pare si neutralizza, lasciando solo emergere qualche significativo residuo) ; così come nelle contrattazioni commerciali il giusto prezzo è automaticamente determinato anche dalle opposte ed esagerate esigenze delle parti contraenti; riteniamo doveroso ricordare che al di là di certi limiti (ora non mi riferisco affatto ad Ansaldo, non ci dovrebbe nemmeno essere bisogno di dirlo) la prosa polemica non si aggancia all'interesse del pubblico; così come nessuno prende più sul serio, per le nostre vie, il famoso turco o finto turco che va vendendo tappeti, e che domanda cento per sentirsi offrir due, tra lo scherzo e lo scherno.


Dott. X.