La crisi del collaborazionismo.

    Gli ultimi saggi di Gaetano Salvemini sopra le tendenze vecchie e nuove del movimento operaio italiano (1), commentano il congresso e la scissione dei socialisti, la nuova autonomia della frazione riformista, con assai più aderenza di quel che non usino le critiche dell'occasione.

    Sono i processi verbali dei dibattimenti promossi dal Salvemini, da prima entro il partito socialista, fra il Congresso d'Imola del 1912 e il Congresso di Milano nel 1910, nel momento salientissimo nel quale il partito socialista cessava di essere "un partito d'azione liberale con bandiera socialista" e incontrava i problemi proprii del movimento operaio; poi, fuori del partito nell'appello al popolo contro le "deviazioni oligarchiche" di questo movimento.

    I motivi essenziali della critica salveminiana sono noti, e non occorre ricordare, come questa critica, nel cozzare contro una pratica di governo che, secondando le inclinazioni particolaristiche delle organizzazioni operaie, assumeva tutti gli aspetti di un sistema di corruzione, sia stata trasportata e arroventata, dalle passioni del moralista. "Sollecitando il movimento delle avanguardie proletarie sul piano inclinato dei miglioramenti di categoria e delle soddisfazioni comunali, l'onorevole Giolitti, lungi dal rafforzare le tendenze rivoluzionarie, svuotava lentamente di ogni tendenza sovversiva il movimento delle avanguardie organizzate: poteva sperare di trasformare gradatamente queste avanguardie in veri e propri organi di conservazione polita e sociale ". Dislivelli dunque nella organizzazione economica e nella capacità di pressione politica, egoismi di categorie e interessi locali, remissività governative e cointeressenze borghesi, tutto concorreva a distrarre le minoranze proletarie organizzate dalle lotte per le riforme generali utili alla intera classe lavoratrice, allettandole verso la tattica delle conquiste parziali a esclusivo profitto delle minoranze organizzate. E nel decennio, che succede alla conquista della libertà di organizzazione, noi vediamo tutta la politica delle organizzazioni proletarie e del partito socialista dirigersi sempre più sistematicamente - secondata dal governo - verso la conquista di quei soli provvedimenti legislativi e amministrativi da cui possano trarre vantaggio quei tali gruppi della classe proletaria che sono in grado di manovrare la forza della organizzazione economica e i cui rappresentanti elettivi possono entrare nel gioco dei compromessi parlamentari". (pp. XVII-XVIII).

    Che un movimento rivoluzionario trovi degli ostacoli nelle stesse élites che esso produce, cioè che crei delle disuguaglianze anche quando col più grande candore muove a tutte uguagliare, è ciò che avviene nella maggioranza dei casi; il merito del Salvemini storico non è nell'osservazione sociologica di questa vicenda, ma nell'averla colpita, nella sua tipica manifestazione italiana; cioè come un dissidio svolgentesi con la storia della formazione nazionale, radicato tragicamente nella natura stessa del suolo, fra due parti del paese, il Sud e il Nord; il merito del pratico, che succede allo storico senza sdoppiamento, è nel proporre e nell'agitare, in conseguenza di quella veduta, una soluzione del problema operaio, concretamente italiana e, come egli l'ha definita, unitaria.





    Uscire dal partito, liberarsi dalla complicata diplomazia dei gruppi e delle tendenze, dagli impacci di un linguaggio canonico, dalla necessità di giustificare ogni ora il proprio pensiero con la lettera dei testi, sacri e ufficiali, e con le glosse innumerevoli, può aver giovato alla libertà di giudizio del Salvemini, del resto, egli non ne è stato mai soverchiamente impastoiato. Ma invano si cercherebbe, nei documenti fra il primo ed il secondo periodo, la traccia di una crisi soggettiva. La posizione del Salvemini di fronte ai principi generali del socialismo (nella particolare definizione riformistica) rimane immutata; insomma il movimento delle classi operaie resta il problema centrale del problemismo salveminiano. Se l'opera dell'Unità noi la possiamo considerare oggi, obiettivamente, sotto l'aspetto di un movimento liberale (inteso il vocabolo fuori della sua comune accezione); per parte del maestro non è che lo svolgimento ininterrotto dalla sua milizia socialistica, senza nessuna catastrofe sentimentale.

    E la ragione è che, nell'antagonismo fra il Nord e il Sud, scòrto da prima come un contrasto di tendenze e di interessi fra minoranze organizzate e moltitudini disorganizzate, per una luminosa coincidenza, il Salvemini ha potuto vedere e verificare, parallelamente, tutte le più importanti postulazioni scientifiche della scuola liberista, così da incarnare in quello stesso contrasto, anche a non prenderlo geograficamente alla lettera, i soggetti astratti della dialettica liberale, protezionismo e liberismo, accentramento e autonomia, città e campagna. Per questo, appunto, senza disconoscere altre non meno poderose iniziative di altra origine, nell'azione culturale e politica del Salvemini, dopo la sua uscita dal partito socialista, è personificata la manifestazione più completa di ciò che possiamo chiamare oggi in Italia un "liberismo militante".

    Vero è che, volendo restare alla posizione soggettiva del Salvemini, piuttosto che di un neoliberalismo o di un liberalismo rivoluzionario, sarebbe da parlare di una conciliazione fra liberismo e socialismo o meglio fra liberismo e movimento operaio, se la proposizione non fosse speciosa e ingannevole. In un senso essa è quanto mai anti-storica, in un altro non fa che indicare l'operazione semplicissima che l'uomo compie ogni giorno in ogni suo atto politico.





    Il liberismo del Salvemini rifugge, si sa, dalle giustificazioni sub specie aeternitatis (non è che uno spunta polemico l'identificare, qualche volta, liberismo e internazionalismo) e si circoscrive in limiti modesti, senza che sia, per questo, meno importante la sua rivelazione: "per la dura lezione della esperienza, fors'anche traverso il fallimento di una collaborazione male orientata, - la via maestra dovrà pur finalmente apparire agli spiriti sperduti nel buio: - considerare le cooperative di Lavori pubblici come una forma di organizzazione pericolosissima per la indipendenza e la dignità della classe proletaria, e oggi continuamente a tralignare in veicolo di asservimento politico e di corruttela elettorale; sorvegliare accuratamente le Cooperative di produzione, affinché non siano invase dallo spirito protezionista e non siano indotte da questo spirito a rendersi solidali col capitalismo protezionista contro gli interessi della intera collettività; promuovere la cooperazione di consumo a patto che questa viva esclusivamente grazie alla previdenza e solidarietà degli associati, e non limiti la propria indipendenza politica col pittocare dal governo o dalle banche governative finanziamenti di favore; promuovere la istituzione di banche, cooperative, coi contributi delle sole organizzazioni proletarie e col sacrificio dei soli organizzati, le quali banche abbiano più specialmente lo scopo di liberare dalla necessità di impetrare la benevolenza del governo e degli Enti locali quelle cooperative di lavori pubblici, che vogliano conservare piena libertà di azione politica" (p. 48).

    Noi sentiamo qui suonare dei vocaboli che appartengono, non solo all'economia, ma anche all'etica liberale; si tratta cioè di promuovere nel seno delle coalizioni operaie delle iniziative e delle esperienze liberali, diciamo pure, lasciando che le parole stridano, di suscitarvi uno "spirito capitalistico".

    Quale risposta sono per dare gli uomini del riformismo socialista, testé liberatisi dalle catene, alla incessante apostrofe salveminiana, se in più che due decenni, hanno sfuggito il contradditorio, o solo l'hanno accettato incidentalmente, considerando, in fondo, il Salvemini anche un uomo d'ingegno con delle idee fisse?

    Le dispute fra cui si è generata la secessione recente, rivoluzione, evoluzione, gradualismo, le similitudini cavate dal linguaggio della medicina e della storia naturale, o dal gergo militare, e tutte le digressioni e le fantasie mitologiche, sembreranno un tempo discorsi vacui e incomprensibili, come lo sembrano a noi, per esempio, le dispute sui "tre capitoli", della prima metà del secolo VI.





    Senonchè, come noi siamo in grado di scoprire una logica del progresso della Chiesa nel secolo VI, che poco o nulla subisce influenza da quelle diatribe, così potremmo scorgere un processo razionale del movimento operaio, su cui la tempesta delle tendenze sia per passare leggera come la vergine Camilla su le intatte spighe.

    Infatti la contraddizione fra metodo rivoluzionario e metodo riformistico, si esprimerebbe assai meglio che nel comune linguaggio figurato delle tendenze, nella visione di un contrasto fra il socialismo concepito come un fatto esterno, di conquista, di sovrapposizione, di dominio e il socialismo sentito, come esercizio di facoltà e acquisto di capacità, insomma come un fatto interiore. Ma chi oserebbe collocare in questa rappresentazione, gli uomini, i nomi, i fatti del rivoluzionarismo e del riformismo contemporaneo? Strano - e rimandiamo per questo proposito ad altre inchieste in più pagine di questa Rivista - la realtà ci consiglierebbe piuttosto di scambiare le parti!

    E allora, senza voler dare nessun giudizio soggettivo, ponendoci semplicemente dal punto di vista del Salvemini, ci domandiamo se questo suo libro sia uno "specchio di penitenza" posto davanti agli occhi dei riformisti perché si redimano e si salvino, o se non documenti senza rimedio la loro dannazione, secondo l'ironica sentenza che chiude l'incarto processuale: "ai sottili cascano le brache".

    A badare alle ultime polemiche fra riformisti e massimalisti, non c'è dubbio che il motivo intimo della secessione da parte dei primi non sia conservatore (senza che forse lo sia meno il motivo degli avversari); in poche parole, i riformisti, pretendono di possedere un rimedio migliore per salvare quelle che sono, secondo il Salvemini, le "oligarchie operaie", o per far perdere loro il meno possibile. Ma quali che siano le sue nostalgie, è un fatto che il riformismo, come condotta politica e come condotta sindacale, dovrà operare in condizioni molto diverse da quelle in cui si è svolto il suo esperimento anteriore.

    La bufera fascista, da cui il riformismo ha ricevuto un colpo più rude che non il rivoluzionarismo, lo ha colpito o lo colpirà nel punto in cui gli interessi delle "oligarchie operaie", si saldano con quelli delle oligarchie, diciamo pure, borghesi?

    O vorrà semplicemente, il fascismo, sostituirsi alla parte socialista nel contratto, o anche, alla fine, sedere al medesimo banchetto? Questa è la questione.

    Ed ecco che, sempre a guardare dalla posizione sentimentale e pratica del Salvemini, cioè di chi sente "l'alta funzione di civiltà, che il lavoro organizzato, pur attraverso errori e cadute, compie nel mondo moderno", la salvezza del movimento operaio, - oh miracolo non nuovo! - sarebbe nel subire ancora una più grave sconfitta, nel ricevere e nell'accettare ancora delle più gravi ripulse.


UBALDO FORMENTINI.

    

(1) G. SALVEMINI: Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. Bologna, Cappelli, 1922.