IL PIEMONTE E LE PROVINCIE
Par che, se non altro, la lettera di Prezzolini abbia indotto alcuni di noi a ragionare esplicitamente i loro dubbi, e mettere innanzi le loro difficoltà, così da porre in discussione le ragioni stesse più remote e segrete della nostra esistenza. E questo sarebbe già risultato abbastanza importante, anche a prescindere da quella tal Società di Apoti che pare stia miseramente naufragando, come si dice, nel mare dei sogni. Vero è che a questo processo di chiarimento han contribuito d'altra parte, a modo loro e dolorosamente, le vicende politiche di questi giorno in Italia. Le quali non possono non indurci a raccoglimento, e nel raccoglimento offrirci mezzo e stimolo ad philosophandum, vale a dire costringerci ad un solitario esame della nostra coscienza, che ritrovi argomenti metafisici o storici, atti a giustificare la nostra posizione pericolante e precaria. Vogliamo esser sicuri della nostra salute eterna: la questione è, a parer nostro, interessante e fondamentale (s'intende, in un ambiente strettamente famigliare), e merita che gli amici di questa rivista se ne occupino, offrendo, per una discussione proficua, prove od obiezioni, secondo il loro special temperamento. Le qualità, ataviche ed ereditarie, del cosidetto popolo italiano (superiore indifferenza, sdegno dei programmi e delle ideologie, saggezza nell'apatia, ironia e gioconda sopportazione), che han trovato di recente molte e facili apologie tra i letterati più o meno politicanti; è certo tuttavia che riescono insufficienti e infeconde, almeno nelle ore più significative e più tragiche. Accadono allora i trionfi gaudiosi della smodata retorica, le violente - se pur brevi - dominazioni della faziosità sentimentale, le truci e delittuose vendette reazionarie: in simili congiunture quel proverbiale buon senso del popolo italiano svela caratteri di grettezza, d'ignavia e, diciamo pure, di viltà, che gli furono spesso rimproverati dagli ideologi rivoluzionari-mazziniani socialisti missiroliani. Non vorremmo dire che il giudizio di costoro sia proprio esatto e definitivo, mentre è certamente unilaterale e qualche po' fanatico; d'altra parte proclamarlo senz'altro falso e privo di sostegni, è certamente troppo semplice ed arbitrario. Per esempio, nei giorni passati, l'Italia dannunziana, accademica, patriottarda ha potuto imporre senza fatica la sua violenza mercenaria e caotica contro gli interessi dei ceti produttori, delle borghesie conservatrici, degli elementi industriali più solidi ed equilibrati. L'impresa è stata accompagnata da un così turpe sfoggio di vigliaccheria, d'impudenza, di tradimenti, che si sarebbe potuto credere da taluno persino a una totale ignoranza delle norme morali più elementari e diffuse; e in certi momenti s'ebbe anche la sensazione di scoprire nel fondo della nostra razza un'immaturità e una debolezza incurabili e l'assoluta mancanza di quelle virtù di coesione, resistenza passiva, tenacia legalitaria, che spiegano la forza e l'antichità di popoli come il francese e l'inglese. Sopratutto l'Intellighenzia parassitaria si è mostrata così moralmente scaduta, e intellettualmente povera, che rifiorivan spontanei sulle nostre labbra, con le apostrofi di Marx, Veuillot, Nietzsche, Sorel, gli anatemi di Proudhon: "Montrez-moi quelque part des consciences plus venales des esprits plus indifferents, des âmes plus pourries que dans la caste lettrée! ". Con troppa passione tuttavia noi giudichiamo gli avvenimenti ultimi d'Italia, perché possiamo indurci ad adoperarli come argomento definitivo a sostegno della nostra tesi. L'infinita tristezza che è negli animi, ci impedisce di credere anche alle immediate rivelazioni dei nostri occhi. D'altra parte non v'è dubbio che la nostra istintiva fiducia nelle virtù più o meno segrete e durature della stirpe abbia subito una scossa e non possa più accontentarsi di certe facilissime dimostrazioni, come un tempo. Ci han ricantato finora e su tutti i toni che il popolo d'Italia è saggio, moderato, prudente; ci han quasi vantato, come qualità venerabili e tradizionali, quelli che ci parevano i difetti profondi della nazione (la mancanza della serietà, della disciplina, dell'organizzazione note in Francia e in Inghilterra): ed ecco che queste qualità, nelle ore difficili, hanno avuto veramente carattere, più che di pregi, di colpe; e quella prudenza ha assunto aspetti troppo stranamente simili a quelli della paura. Doveva bastare l'insofferenza spensierata e sorridente del popolo a tener lontane le ombre paurose della dittatura e della reazione: ciononostante un'instaurazione reazionaria ed assolutista (non senza l'abolizione delle libertà fondamentali e statutarie) ha potuto erigersi contro non dico gli ideali vani d'una moralità politica austera, ma gli interessi delle classi e delle regioni più progredite. La monarchia, indissolubilmente legata alla tradizione liberale cavouriana e giolittiana, doveva costituire un punto fermo nel tumulto delle fazioni e assicurare, oltre le vicende della cronaca parlamentare e governativa, la conservazione della legge. E non abbiamo noi visto, in questi giorni, scindersi il binomio presunto Vittorio Emanuele-Giolitti, e il Re accettare senza rammarico le responsabilità di duce della reazione ed erede del colpo di stato? Ecco che certe notissime diagnosi (nelle quali s'eran volute denunziare le colpe e l'immaturità della nazione giovanissima, e dedurre la necessità di costruire un ceto dirigente solido e stabile) escon dall'ultima prova in qualche modo riabilitate e giustificate. L'unificazione d'Italia, se non fu ciò che molti credettero impresa arbitraria e violenta; si può ben definire, senza tema di cader in errore, operazione arditissima e quasi temeraria; come prova anche la struttura del regno, che ne fu il resultato, estremamente delicata sensibile difficile. Contro gli egoismi regionali, gli interessi paesani, gli ordinamenti locali e feudali, le consuetudini native, che Cattaneo descriveva e rispettava: proporsi una politica unitaria poteva parere, e fu realmente - nel sogno mazziniano, utopia mescolata di fermenti retorici ed eroici; ma realizzarla fu, anche più di quel che non apparve, ardimento mirabile e paradossale. E proposito e sforzo furono essenzialmente e profondamente piemontesi. Nella stanchezza comune d'Italia, le tradizioni repubblicane e separatiste, le tirannidi forestiere, la scarsezza delle lotte civili, avevan foggiato quello spirito generale della nazione, troppo adatto a giustificare il giudizio severo degli stranieri, che ci consideravano, secondo la testimonianza di Treitschke, "quasi un popolo di schiavi, ricco d'intelligenza e d'astuzia, ma inetto al vivere libero". La diffusa immaturità degli Italiani alla lotta politica si sfogò, come è noto, nelle misteriose leggende e nelle paurose cerimonie delle cospirazioni, rivoluzionarie o reazionarie che fossero, tutte ugualmente miserevoli ed infauste. Nel Piemonte, l'esistenza d'una casta militare gagliarda e d'una dinastia nazionale o popolare fornì le basi al sorgere di una coscienza civile aperta e positiva; ne aiutarono l'incremento, prestando formule o sistemi gli esempi introdotti d'oltralpe: le vicine istituzioni francesi, gli ordini governativi e l'economia liberista degli Inglesi. Così il Piemonte, nell'ora del Risorgimento, si trovò di fronte alle provincie schiave, ignoranti, faziose; stato solidamente costituito, eretto da un'aristocrazia antica e leale, con una forza militare e uno sviluppo economico e industriale ignoti negli altri stati d'Italia. Maturando, per fatali e segreti impulsi, il proposito unitario, con caratteri italianamente settari e retorici, gli aristocratici piemontesi lo trasformarono in una virile volontà pratica. E furono i soli che seppero, con lavoro silenzioso e tenace, diventare Italiani, da sudditi sardi che erano, prendendo famigliarità con quegli elementi della coltura nazionale, da cui eran rimasti per lungo tempo lontani. Questo sforzo meraviglioso non trova, tra i politicanti provinciali del nostro paese, la corrispondenza pronta ed efficace che sarebbe stata necessaria:gli schiavi ed i retori indocili non potevan d'un tratto acconciarsi alla disciplina severa e allo spregiudicato realismo dei politici settentrionali. Le prime spontanee diffidenze, scomparendo, lasciarono il posto ad un'ostilità sorda e sotterranea. E l'unità fu compiuta sotto la dinastia di Savoia, per virtù unicamente della prodigiosa attività di Cavour. Morto il grande ministro e sorti, mentre ancor si terminava l'opera dell'unificazione nazionale, i primi inconvenienti e le prime difficoltà; contro la nobiltà piemontese anticamente e metodicamente preparata al governo, gli interessi e i sentimenti delle provincie, naturali e brutali, insorsero. Cominciò la guerra dell'Italia contro il Piemonte. In questo senso la soluzione cavouriana e sabauda meritò veramente in qualche modo l'epiteto di "approssimativa"; e fu tale non per colpa della monarchia e di Cavour, ma delle circostanze e della materia riluttante e fervida, ch'essi ebbero a maneggiare. Così un'impresa che, se si tien conto dei tempi positivi e plebei e delle abitudini moderate e casalinghe delle popolazioni settentrionali, ebbe caratteri ed aspetti altamente grandiosi ed eroici, fu in qualche modo un'avventura troppo ardita, uscendo fuori dalla tradizione politica del Regno Sardo e rompendo un equilibrio faticosamente mantenuto per secoli e segnò la prima tappa di una storia dolorosa e difficile. E' chiaro d'altronde che le circostanze non permettevano soluzioni meschine e guardinghe, o comunque diverse. C'è dunque, in Italia, un'élite di origine schiettamente piemontese e di mentalità largamente italiana: dal luogo di nascita toglie le virtù di saggezza politica e di resistenza guerriera, dalle popolazioni settentrionali confinanti l'abitudine alle relazioni diplomatiche e cosmopolite, dall'Italia l'educazione letteraria e in parte i fondamenti teorici della sua missione. Accanto e contro quest'aristocrazia, le provincie suscitano le rivolte faziose, le camorre locali, le ideologie intemperanti, le insurrezioni sentimentali, la generale immaturità. La continuità governativa, un punto stabile nella confusione delle contese regionali, un organismo moderatore dei tumulti, degli odi, delle vendette che forman tutta la vita politica del nostro paese, furono assicurate dalla volontà persistente e disperata di questo piccolo gruppo estremamente progredito, e educato alle istituzioni civili dell'età moderna, posto dalla Provvidenza a reggere popolazioni ancor barbare o per troppi vizi decadenti. Ma fu impresa continuamente pericolante, affidata al genio individuale dei ministri (Cavour, Sella, Giolitti); non senza caotici interregni, che ne rovinavano appena fondati, ogni risultato e ogni conquista. Repubblicanismo, politica dinastica, interventismo del maggio, legionarismo, nazionalismo, fascismo: reazioni sentimentali ignote alla nostra gente del settentrione, seria, tranquilla, attaccata a' suoi traffici, intenta ai pacifici interessi dei mercati agricoli, delle borse, delle aziende industriali. Dal principio dell'Unità, il Piemonte s'è sentito profondamente isolato nella nazione: anche quando dominava e guidava le sorti di tutta Italia. Perché esso, di contro alla politica provinciale e insubordinata delle regioni, ostenta l'organizzazione e la serietà europee della sua vita civile: qui da noi liberalismo e comunismo vantano un fondo dottrinale e una attività pratica assai lontani dalle superficiali metafisiche e dalle fragorose ostentazioni di operosità delle fazioni italiche. Perché in questa nostra terra, abbiamo un'industria solida organica, prosperosa, e non, come nelle altre parti, tentativi sproporzionati, parassitari, anarchici: qui le fabbriche tessili, la Fiat, Agnelli; altrove l'Abenteuer-Kapitatismus, che ha analizzato Ansaldo, su queste stesse colonne. Perché presso i nostri capitani d'industria, i nostri operai organizzati, i nostri piccoli proprietari di campagna, l'unità degli interessi privati e del benessere generale, il sentimento dello Stato insomma, è nozione immediata e istintiva; anche se ripugni a queste menti fredde positive, e magari grette, ragionare troppo a lungo di Patria, doveri nazionali, virtù civiche: cose sacre e venerabili soltanto quando si arriva a considerarle, non più come un fine, come un presupposto; prima, pure divagazioni accademiche, o peggio, spiriti demagogici. Perciò il Piemonte mantenne, per tutta la nostra storia breve, una fondamentale politica d'opposizione: l'unica aristocrazia seria e fattiva che esista in Italia, la storia veramente unitaria, veramente italiana, non può ancora reggere stabilmente il paese. Le parentesi governative, forse troppo premature, riuscirono sterili, e talora rappresentarono persino dei compromessi. Dove si vede il difetto della politica di Giolitti, che fu costretto ad allargare la nobiltà originaria, ed appoggiarsi sopra un ceto borghese incerto e mal definito, che oggi è passato al fascismo. Mentre a Cavour il suo genio e le circostanze crearono un meraviglioso se pur momentaneo consenso di voleri intorno al mito unitario. La feconda e tenace attività dell'élite si manifestò piuttosto nella capacità di raccogliere intorno a sè le forze più serie e vive della nazione, altrove isolate e costrette a isterilire. Continuando così il processo, che dura da Alfieri in poi, e per il quale, stabilito un commercio d'interessi e d'idee fra le regioni, il proposito solitario dei Piemontesi perde la sua rigidezza e si fa italiano; si creò quell'ambiente d'opposizione dove, meglio che ad ogni altra scuola, si foggia e si educa la classe dirigente che mancò finora all'Italia. Perché non è certamente nostra intenzione creare, fra gli altri mille, un nuovo regionalismo. Il mito piemontese può servire non solo a noi, ma a tutti gli Italiani aristocratici, di raccolta e d'insegna: oggi più che mai. Antifascismo: vale a dire volontà d'inimicizia contro l'"altra Italia". E ci diranno romantici, protestanti, pedagoghi. Noi non accettiamo senz'altro e neppure rifiutiamo a priori queste definizioni: ci sforzeremo piuttosto di determinare dei limiti, di fissare dei criteri chiari e distinti, di opporre, agli epiteti vani, concetti precisi e punti di partenza stabili. A coloro che ci consigliano d'attenerci alle forze che oggi "riescono" e ci rimproverano la volontà di creare opposizioni inutili, ricordandoci che la vera politica non procede per via d'antitesi, ma di conciliazioni; vorremmo rispondere che la loro dottrina, spiegabile come posizione polemica contro lo sfoggio insipiente e variopinto delle ideologie, è in tesi assoluta insufficiente: risultando la lotta politica di antitesi che son nel tempo stesso conciliazioni, di opposizioni che diventan contatti. E lasciando questi discorsi generali, perché a noi - che non siam metafisici - ripugna indossar troppo a lungo l'abito di maestro di dialettica; e passando a un ragionamento più umano e psicologico, diremo che il loro punto di vista, in apparenza agile, può diventar perfino, quando sia preso alla lettera, terribilmente rigido: in quanto è incapace a dimostrarci l'utilità e il valore dei partiti estremi e delle disperate coerenze; e si riduce a una sterile negazione; quando non si trasformi addirittura in una giustificazione della mentalità italica scherzevole e accomodante. Ma la virtù governativa di Cavour non si spiega, senza la maturazione solitaria e difficile della sua fede in un ambiente d'opposizione. Noi siamo dunque dei protestanti e dei romantici che conoscon tutti i difetti del romanticismo e della riforma. Perciò la nostra solitudine non ci conduce a fondare una setta, la nostra opposizione non assomiglia a nessuna pedanteria puritana. Da Machiavelli, Guicciardini, Sarpi, fino a Croce, l'Italia vanta una serie nobilissima di riformatori disperatamente fedeli a una serietà morale e religiosa, che manca a' loro contemporanei, ma troppo disillusi e cauti per voler creare nuove forme artificiose di culto. Del resto, tralasciando di mentovare esempi troppo alti, o piuttosto responsabilità troppo grandi; l'austerità e la durezza dei nostri costumi son qualità regionali alle quali siam troppo attaccati per volercene disfare; e crediam d'altra parte che non sian affatto inutili nel paese delle farse e dei carnovali. Entro questi limiti, ci ostiniamo ad essere degli oppositori, e magari, se ci obbligano, dei pedagoghi. Perché abbiamo dietro di noi una tradizione di pensiero e d'attività; la quale può ben darsi che sia la nostra debolezza; ma è anche certamente il titolo più grande della nostra nobiltà. E continueremo a credere, fin che le circostanze non ci disilludano, che soltanto dal Piemonte, che ha fatto l'Italia, possano derivare i germi d'uno stato futuro più solido e più potente. Intanto oggi questa fede ci serva di simbolo: "che ove speme di gloria agli animosi Intelletti rifulga ed all'Italia, Quindi trarrem gli auspici". E può ben darsi che non si tratti soltanto d'una citazione retorica. NATALINO SAPEGNO.
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