DEFINIZIONI FASCISTE.

I.

Le illusioni di un conservatore.

    Caro Gobetti, ha torto. Le mando l'articolo che scrissi quel giorno e che Ella non vide, perché andò solo in prima edizione. Io solo uscii e non ebbi alcuna censura: sfidai eventuali rappresaglie, affidandomi alla mia fermezza come scrittore. Giudichi Lei se mi abbassai a dedizioni od a riserve. Non scrissi mai un articolo più forte e fermo di quello. L'abbraccio.


Suo aff.mo MISSIROLI.

    Sono lieto di render giustizia a M. Missiroli, ripubblico il suo articolo perché abbia quella diffusione che non ebbe tra le persone che intendono. Fuori di Milano del resto esso è inedito: sicché era perfettamente giustificato il mio aspro commento, sotto cui Missiroli ha indovinato il costante affetto.

    Nell'atto stesso di iniziare il nostro lavoro quotidiano il nostro pensiero si rivolge con affetto, con simpatia, con solidale amicizia, a quei nostri colleghi di altri giornali cittadini, che non possono esercitare il loro ufficio. Questa singolare situazione, in cui si trovano ugualmente coinvolti il Corriere della Sera, la Giustizia e l'Avanti! ci riempie l'animo di amarezza e di sconforto. La soppressione della libertà di stampa è la più dura delle imposizioni, come quella che colpisce al di là delle franchigie garantite dalla legge a tutti i cittadini, la stessa libertà del pensiero. Questa misura, che non fece mai buona prova, questa misura, che si ritorse, in ogni tempo, contro coloro stessi, che se ne fecero strumento: questo provvedimenti nel quale i vecchi regimi sperarono sempre la salute e sempre trovarono, invece, la ragione prima della loro decadenza, addolora e stupisce. Un partito, che è composto in gran parte di giovani, che più degli altri soffrono delle inquietudini del nostro tempo; che si professa devoto alle aspirazioni dell'avvenire, dovrebbe essere aperto a tutte le manifestazioni della libertà, e non temerle. Questa misura, che sopprime una gran parte dell'opinione pubblica, contiene un monito per gli stessi fascisti. Sopprimendo la stampa, essi mostrano di credere all'importanza decisiva del pensiero, al valore supremo delle idee: confessano, involontariamente, che al di sopra della forza sta la ragione: che questa ha una potenza insopprimibile, che nessuna violenza può disperdere. Siano logici, allora; siano coerenti ; credano per primi e davvero alla virtù del pensiero e sciolgano le squadre armate scendano in campo alla pari, lottino con gli stessi mezzi dei loro avversari o concorrenti e la loro vittoria, se vinceranno, starà veramente a testimoniare una verità, una supremazia morale.

    La situazione, nelle ultime ore, non si è di molto chiarita. Si dice - ma chi può sapere la verità, in un momento in cui le comunicazioni o non funzionano o funzionano male - che il Re si sia rifiutato di firmare il decreto, che istitui0a lo stato d'assedio in tutta Italia. Noi ne siamo lieti. Non fummo mai, non saremo mai, per la maniera forte. Siamo così persuasi che la fase attuale della politica nazionale è un aspetto, un episodio, della travagliatissima crisi del dopo guerra, che ci rifiutiamo di credere all'utilità dei mezzi eccezionali. Vedere, nella situazione attuale, un problema di polizia, è infantile: credere alla efficacia della forza, quando non si sa più esattamente da quale parte essa sia, dati l'equilibrio instabile delle forze che sono in giuoco, significa, a nostro avviso, precludersi la via ad intendere il presente e l'immediato domani.





    Il problema, secondo noi, è sempre quello, è sempre il medesimo, che da quattro anni governi e partiti, classi e ceti dirigenti, hanno cercato di eludere, di risolvere, di dimenticare. La guerra, questa tremenda esperienza, che non passa invano nella vita dei popoli e dei singoli, ripiomba improvvisamente in mezzo a noi, con le sue passioni roventi, con le sue idealità tradite, con le sua promesse mancate. È vero o no, che si disse che la guerra significava, anche, una rivoluzione, l'avviamento verso una società meglio ordinata e più giusta; è vero o non è vero, che essa doveva, prima di tutto, significare il tramonto delle vecchie classi dirigenti, delle vecchie oligarchie parassitarie, dei vecchi ceti, in una parola, che avevano accettato la guerra a fini di politica interna, col sottinteso di deprimere, di sopprimere, le organizzazioni economiche e politiche dei lavoratori? È vero o no, che dall'armistizio ad oggi, gli sforzi delle classi dirigenti hanno perseguito un unico obbiettivo: ritornare sic et simpliciter all'anteguerra, agli usi, ai costumi, ai modi precedenti l'agosto del'14? È vero o non è vero, che la guerra, per i conservatori di tutte le categorie, doveva rappresentare un episodio grandioso fin che si vuole, ma pur sempre un episodio, della nostra politica estera, lasciando intatti gli elementi, i quadri e i dati della politica interna? Questo disegno, che aveva, in sé, tutta la semplicità dell'egoismo, va in frantumi: osiamo sperare che sia già andato in frantumi. Le vecchie classi dirigenti, che non credettero né alla guerra, né alla vittoria, che si rassegnarono a quella e subirono questa; che promisero un rinnovamento radicale nella vita pubblica e nel costume politico, quando le necessità della resistenza reclamavano grandi promesse, ma col sottinteso di tradirle, oggi sono strette dalla logica della storia. Noi andiamo ripetendo da molto tempo che il problema tragico della nostra storia contemporanea è, prima di tutto, un problema di natura politica, oltre che economica; che si tratta, in altre parole, di ordinare politicamente, di legalizzare, per così dire, politicamente, la profonda, radicalissima trasformazione avvenuta negli elementi costitutivi della società italiana in seguito alla guerra. Fummo - e siamo, e restiamo - collaborazionisti per questo. Non abbiamo nessun ritegno a dichiarare che il collaborazionismo socialista significava, per noi, la soluzione equa, tranquilla, ordinata - la soluzione da conservatori - del tremendo problema italiano. Noi vedevamo nel collaborazionismo un modo atto a disciplinare le forze del lavoro, le grandi masse, nell'orbita dello Stato; ad assicurare l'ordine e la pace sociale: la soluzione dell'antitesi fra il neutralismo socialista e l'interventismo democratico, la remora più sicura al bolscevismo, la concordia nazionale. Questa politica esigeva in tutte le classi e in tutti i partiti un patriottismo illuminato e disinteressato, una visione ampia e audace della storia vivente, che si svolgeva sotto i nostri occhi. Le speranze andarono deluse per le follie del partito socialista, che, dominato dagli estremisti, non avvertì che l'effervescenza delle grandi masse si sarebbe acquetata nella partecipazione allo Stato; e per la caparbietà delle classi dirigenti, che si illusero di potere impunemente tradire le moltitudini combattenti e sofferenti: timorose, prima, del bolscevismo, tracotanti, dopo, per l'avvento del Fascismo.





    Il collaborazionismo socialista, insomma, era un'intuizione storica, in quanto interpretava l'immediata conseguenza della guerra. Fu, contemporaneamente, una illusione politica! Forse è troppo presto per affermarlo. Ciò che è certo, ciò che è incontrovertibile, è come il problema, così come fu posto dal collaborazionismo, rivive, oggi, in tutta la sua attualità, in tutta la sua integrità. Se è vero che il fascismo si riconnette alla logica della guerra, se è vero che esso rappresenta le grandi masse, sfuggite al socialismo per gli eredi dei dirigenti massimalisti del partito socialista, si deve concludere che, identico restando il problema, identica sarà la soluzione. Poco importa che i risolutori vengano dal socialismo o dal fascismo: ciò può interessare, può riguardare molto da vicino la borghesia, quelle classi, che sono con le spalle al muro; ma non interessa minimamente il Paese nella sua universalità, non può preoccupare eccessivamente gli spiriti liberi, che si rifiutano di negare il corso della storia. Forse noi, oggi, assistiamo ad una di quelle "ironie" della storia, per le quali un partito trova nell'avversario il proprio continuatore e risolutore.

    Comunque debbano svolgersi i prossimi avvenimenti, é certo che, per il fascismo, si inaugura una nuova fase della sua vita. Oggi esso deve risolutamente decidersi: o con le masse o coi conservatori della vecchia società italiana; o con la logica spietata della guerra o coi fraudolenti della guerra. O con la democrazia, con le idealità della democrazia, o con le oligarchie, che del Fascismo accettano soltanto lo squadrismo per le azioni antisocialiste. E' passata l'ora dei dubbi, delle esitazioni, degli indugi. O il fascismo ritrova se stesso o dileguerà come un episodio effimero della reazione europea, e sarà maledetto dal popolo per le sue eccessività, per le sofferenze patite. L'azione di domani può gettare nuova luce su l'azione di ieri: può consentire molte indulgenze e molti oblii, può resuscitare molte cose, che parevano morte.

    La crisi parlamentare od extraparlamentare, che dir si voglia, riveste, oramai, un interesse molto relativo. Il pericolo per il fascismo è sempre quello, è sempre il medesimo. Può, ha la forza, saprà liberarsi dalla stretta del vasto e tenace mondo conservatore, che lo assedia, lo comprime, lo urge, tenta di imprigionarlo? Il tentativo di un ministero Salandra è l'ultima insidia del mondo conservatore, di tutti i reazionarii, che speculano ancora su gli equivoci di una situazione, che da troppo tempo si perpetua. La nota odierna dell'on. Mussolini respinge con un "no" inequivocabile il tentativo di Salandra, sul quale puntano tutte le forze del vecchio mondo, esercito di claudicanti con arie di arditi. Si domanda un ministero in grandissima prevalenza fascista. E poi? Che cosa significa un ministero fascista? Un simile ministero si presenterà alla Camera per chiedere un voto? Scioglierà le squadre armate per convocare i comizii in piena libertà di riunione, di propaganda, di voto? Il Fascismo si vanta di contare su forze poderose. È vero. Ma queste forze sono tutte disciplinabili, sono tutte coordinabili in una liberale azione di governo? È evidente che il fascismo, una volta conquistato il Governo, dovrà rivedere i proprii quadri, per fondarsi su forze, su elementi capaci di vivere e di muoversi in regime di libertà e di legalità.





    A questo vaglio quanta parte della sua forza attuale perderà? E quale? Avrà, in sè, la possibilità di sostituire le perdite inevitabili (e salutari) con nuovi acquisti permanenti? Con quali mezzi? La potenza attuale del Fascismo vale per chiedere il Governo mediante una pressione violenta. Malauguratamente la violenza può dare il governo; ma non basta a conservarlo. È necessario che il fascismo si pronunzi apertamente, lealmente, su le intenzioni di domani, su i propositi del futuro prossimo, su i programmi. Che si separi violentemente, senza possibilità di equivoco, dal vecchio mondo conservatore: da quello che va "preso per la gola". Ma sul serio!


MARIO MISSIROLI.

II.

Valorizzare.

    Non è ancor giunta l'ora che conceda di dare un giudizio storico sulla crisi nazionale di questi giorni: lo impedisce forse la rapidità vertiginosa della sua soluzione, sebbene la sua gestazione si sia svolta durante la guerra e si sia intensificata in questi quattro anni di travagliato, angoscioso dopo guerra.

    Vediamo invece l'assenza di questa crisi. La conquista del Governo da parte del fascismo è bensì l'episodio culminante, ma non può e non deve voler significare sostituzione del fascismo alle vecchie classi politiche dirigenti. Il significato di questa rivoluzione - ché rivoluzione è stata - sta nel disfacimento e nel fallimento delle vecchie categorie politiche per lasciar posto alle nuove forze giovani che la guerra ha preparato all'Italia. Forze di diversa intensità e di varia struttura: ma uscite, o formate, o maturate dalla guerra e attraverso di essa: con una preparazione per alcune informe e caotica ancora, per altre già saldamente costituita - ma tutte con una coscienza più profonda di quello che è dovere, tutte con un substrato di coscienza nazionale, germe fecondo per lo sviluppo di una più forte disciplina collettiva. In una vita politica sgombrata dalle vecchie congreghe e dai vecchi uomini che non permettevano la purificazione di alcun ambiente, queste forze possono, senza pericolo di contaminarsi e di corrompersi, avanzare, affermarsi e svilupparsi.

    La guerra, polarizzando le energie, i sentimenti, le possibilità del popolo, ne rivelava insieme colle debolezze e le insufficienze, le grandi riserve di fede e di sacrificio di fronte ai massimi doveri da essa imposti. La classe dirigente, palesò tutta la sua impreparazione, la sua incomprensione dei problemi massimi, la mentalità ristretta e cristallizzata restia a qualunque più largo respiro spirituale e politico. Lo Stato debole, abbandonata la via maestra del liberalismo, aveva assunto la fisionomia dello Stato socialista, tutore necessario di ogni iniziativa, e si allargava in una forma di protezionismo anti-nazionale se pure nazionalista, abbassandosi a continue abdicazioni di qualunque sua autorità, in una falsa concezione di democrazia agnostica e senza contenuto. Infine un socialismo esterno e interno, nelle sue manifestazioni di svalutamento della guerra e dei valori spirituali da quella derivati, svalutava la Nazione, senza comprendere che altro poteva e doveva essere il suo campo d'azione; e creava dei tentativi assurdi di realizzazione economica e politica disastrosi e tanto più impossibili in un momento di crisi economica come il presente.





    Ora, la situazione gravissima che si andava da quattro anni trascinando e maturando non venne mai compresa - o se compresa, risolta - dai dirigenti ch'ebbero il governo d'Italia. Ormai i veri dirigenti dell'azione e del pensiero italiani, quelli che preparavano nella sua pienezza l'avvento della fase di vita nazionale che ora deve iniziarsi, eran fuori della vita politica ufficiale, erano in riserva: riserva non inerte però. Ma chi fu al governo continuò ciecamente i sistemi dello Stato burocratico, del parlamentarismo, delle clientele, ciò che significava debolezza, dedizione senza rimedio verso i partiti più forti: dapprima libero campo all'arbitrio bolscevico, poi favoreggiamento del fascismo: a tratti una volontà di politica forte, espressa a parole, mai corroborata dai fatti. E intanto dovunque si doveva governare, ivi era lo sgoverno: mancanza di criterii, di volontà. Critiche e avvertimenti erano inutili: l'organismo sembrava non reagire più. Fu così che il moto violento del fascismo fu atteso, quasi voluto, anziché prevenuto. Lo Stato, condotto da governi impotenti, non aveva ormai più in sé alcuna garanzia di forza: a dare la sensazione più forte della sua debolezza c'era il fascismo che poteva agire affermando di perseguire fini statali che lo Stato non era più in grado di perseguire colle sue forze.

    Il fascismo sorse determinato da molti degli stessi elementi che determinarono la crisi d'oggi: è stato l'espressione più tangibile (non la sola) del complesso d'animo che si veniva formando di reazione verso lo Stato debole e contro le forze anti-nazionali.

    La crisi fu violenta. Abbiamo vissuto giornate innegabilmente dolorose e gravi. La minaccia su Roma; la mobilitazione e lo spiegamento di un altro esercito; l'occupazione di caserme, di uffici pubblici; il silenzio imposto ad alcuni giornali, sono stati tutti colpi inferti a quelli che sono i cardini dello Stato: la legge, la libertà, la disciplina. Si acuì quella situazione paradossale ed assurda, e perciò improrogabile, di un esercito irregolare, che gridava devozione al Re ed allo Stato forte, posto di fronte all'Esercito regolare che doveva difendere lo Stato. Ma oramai l'Esercito regolare - è lecito chiedersi - difendeva lo Stato o non piuttosto doveva difendere un Governo impotente ed impreviggente e la frolla burocrazia dei Ministeri?

    La Monarchia liberale afferrò la situazione, ed assolvendo il suo còmpito, inquadrò nel sistema costituzionale la rivoluzione ed affidò il governo al capo del fascismo. Essa riprende oggi nuova forza dalla ancora una volta confermata possibilità che attraverso di essa qualunque trasformazione politica, liberamente voluta, se intesa ai fini nazionali, si attui.

    Riprende forza 1o Stato? Questo è il problema. Occorre vedere se le ferite ricevute dal malfermo organismo statale hanno portato un contraccolpo di male alla sua esistenza avvenire, hanno scosso pel futuro la sua compagine, oppure se non debbano considerarsi piuttosto come operazioni necessarie pel suo risanamento.

    Come esce lo Stato da questa crisi?





    Per arrivare, secondo gli intenti, a poter dare nuovo vigore ad un organismo assolutamente indebolito, gli si è fatta subire una prova assai pericolosa: si è sanzionata una sovrapposizione di poteri illegali a quelli legali, si è offesa la disciplina dell'Esercito, si è minata l'organizzazione politica interna dello Stato, si è potuto far tacere, sia pur per breve ora, la libera voce dell'opinione pubblica. E non vale a giustificare tutto questo il fatto che si trattasse di un movimento rivoluzionario, perché quando questo movimento tende a risanare ed a rafforzare quello che è organismo dello Stato, esso non deve, nel suo svolgimento, attentare proprio agli unici residui di forza che ancora potevan restare in quell'organismo. E ancora non deve questo movimento assumersi e sanzionare l'arbitrio di sovrapporsi a quello che è Stato giuridico nazionale, fondato sulla legge e sulla libertà, violando quella e sopprimendo questa. Perché non si trattava di sostituire uno stato fascista, ma di prendere il governo e di assumersi il rafforzamento di uno Stato Italiano che era e che continua ad essere superiore : ieri, oggi e sempre - ad ogni forza politica di parte di qualunque genere. E la ferita è stata indubbiamente grave per l'autorità dello Stato; il precedente, pericoloso.

    Ma se la critica del movimento rivoluzionario fascista si prolungasse, minaccerebbe di diventare accademica e pericolosa: significherebbe, in sostanza, un assenteismo od una diserzione da una vita politica rinnovata di coloro che non sentono di poter collaborare con chi ha raggiunto il potere infondendo un colpo grave alla coesione dello Stato. Ora, non si tratta di mettersi al fianco di nessuno, e nemmeno questa collaborazione deve significare approvazione dei mezzi usati. Si tratta invece esclusivamente di portare il proprio massimo contributo ad una situazione nuova che esige la collaborazione di tutti. Se il fascismo nazionalista consolidasse da solo (e da solo non può) la propria situazione, avremmo domani una situazione certamente ancora pericolosa e di angosciosa incertezza. Occorre invece che si consolidi una situazione nazionale, creatasi ora, e si consolidi integrandosi colle forze nazionali (molte e le migliori, forse) che non hanno voluto di proposito partecipare né al movimento fascista, né a minacce contro lo Stato, ma hanno contribuito a determinare e ad affrettare, creando e lavorando, stati d'animo, ambienti, altre masse, altri centri quel nuovo ordine di cose che oggi accenna a formarsi.

    Perciò non dobbiamo dimenticare e soprattutto, perché liberali, non giustificare - anche se ciò può andare contro un facile ed istintivo giudizio opposto - quella che è stata la minaccia contro i poteri dello Stato; ma, appunto, tenendo questa presente, far sì che sia stata l'ultimo episodio, l'epilogo doloroso di un dopoguerra. Oggi bisogna urgentemente intervenire ad ottenere che lo Stato riprenda ad essere. La guarigione di questo organismo dipende dall'aiutarne la convalescenza, infondendogli subito quella vita che prima gli era stata tolta. Ridare vita allo Stato liberale, perché tale ritorni ad essere, in grado di superare e di vincere qualunque crisi.





    La forza ripresa dal saldo istituto di conservazione nazionale della Monarchia per avere ancora saputo assolvere la sua funzione storica, si riflette sulla vita dello Stato. Ma la funzione liberale di governo che per un momento sembrò spostarsi nella persona del Re, deve ritornare, come almeno in embrione è tornata, a spostarsi nella persona del Capo del Governo, perché nessuna forma dittatoriale governativa potrebbe mai l'Italia sopportare. Ma appunto perché questa non debba avverarsi e perché lo Stato, riassunta la funzione, diretto con un nuovo vigore, riprenda l'energia necessaria, occorre che tutti collaborino, superando ogni critica che fosse sterile, a valorizzare quanto di meglio oggi si è determinato, che è la volontà di forza e di rinnovamento di una nuova classe politica che ha iniziato la conquista del potere. E valorizzare significa contribuire a far sí che questa volontà si concreti in ben fare.

    Soltanto così domani, nella revisione che sarà certamente compiuta, sarà possibile gettare a mare il peso morto e navigare più sicuri verso i numerosi porti che dobbiamo raggiungere.


GIUSTINO ARPESANI.

III.

Elogio della ghigliottina

     Giustino Arpesani risponde affermativamente a una domanda che uno scrittore della Rivoluzione Liberale non si sarebbe neppure posta. Il nostro amico ha della democrazia una visione primitiva, della patria un concetto messianico: la politica è pensata come un problema di illuminismo, di adesione a dogmi specifici, tutto l'imprevisto della realtà esaurendosi nella preparazione ideologica e nelle premesse di fede.

    Il mondo della pratica non sarebbe nulla di diverso dal mondo intellettuale, un mondo intellettuale concepito rigidamente, con idee chiare e distinte, senza dialettica, senza sfumature. Il suo ragionamento sulla collaborazione è rigorosamente scolastico, l'azione ne dovrebbe scaturire identica con una professata verità di catechismo. Non distingue tra proposito e risultato; per diffondere una convinzione è disposto a sacrificare la complessità della praxis.

    I popoli immaturi peccano di queste ingenuità filosofiche; le malattie dell'apostolato coincidono con la giovinezza; quando si ha più il gusto del monotono e del concluso che l'arguta sopportazione del diverso. Giovanni Gentile giunse a confessarmi candidamente che scriveva un libro su James da pubblicarsi in inglese per guarire gli americani dagli errori del pragmatismo. Il fascismo vuol guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale dei cittadini, tutti abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel professare delle convinzioni si limitasse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell'anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun miglior panegirista della pratica. L'attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l'inguaribile fiducia ottimistica dell'infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie bambinesche misure.





    La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il chiamarci di volta in volta con un nome piuttosto che con un altro non é dunque una questione di stile, ma appena un modo di eludere le persecuzioni e di farci sopportare. Se dovessimo salire davvero in cattedra saremmo dei ben strani predicatori, e chissà chi potrebbe capire le nostre pazze intenzioni. Ossia il nostro antifascismo non è l'adesione a un'ideologia, ma qualcosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo fisiologicamente innato. Non so come i gentiliani potranno intendere questa che ci pare addirittura una questione di istinto.

    Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antiche, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo vile e letterario dei cristiani che si potrebbe definire la delusione di un ottimista. Amici miei, la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C'è un solo valore incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti.

    Temiamo che pochi siano così coraggiosamente cinici da sospettare che da queste metafisiche si possa giungere al problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso maliziosamente un insolente realismo politico obbiettivo.

    Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell'imprevisto che seguiteremo a indicare come provinciale per prevenire gravi allarmi. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è una catastrofe, è un'indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'ottimismo, dell'entusiasmo. Si può ragionare del Ministero Mussolini: colpe di un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; é stato l'autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco. Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e socialcomunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio scorso la Rivoluzione Liberale, con un senso di gioia, per salutare auguralmente una lotta politica che attraverso tante corruzioni, corotta essa stessa, pur nasceva. In Italia, c'era della gente che si faceva ammazzare per un'idea, per un interesse, per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace.





    È difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica cotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell'unanimità, ci si attesta l'inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. Abbiamo astuzie sufficienti per prevedere che tra sei mesi molti si saranno stancati del duce: ma certe ore di ebbrezza valgono per confessione e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l'impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedare spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano.

    Caro Arpesani, non ci si può intendere. Tu vuoi valorizzare, ed io credo che si possa solo valorizzare con l'opposizione, tu temi i dissensi ed io vedo nei consensi la prova di una debolezza, l'inesistenza di interessi reali distinti, coraggiosi, necessari. Tu hai inteso il problema in un modo tutto formale: chiedevi una disciplina, l'accetti anche se venga donde non la speravi. Io non riesco a pensare Cesare senza Pompeo, non vedo Roma forte senza guerra civile. Posso credere all'utilità dei tutori e perciò giustifico Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei pazzi ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso per chi lavora da anni dover pensare con nostalgia all'illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri sino in fondo, io ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. Ti ringrazio, amico mio, che mi suggerisci tragiche confidenze. Ora credo di giustificare meglio le mie responsabilità, le ragione dell'istintiva nostra ribellione. Non valorizzare; non ubriacarsi. Per le ragioni politiche che abbiamo detto Emery ed io nei numeri scorsi. Per questa ragione psicologica, chiarita qui, inesorabile. C'è stato in noi, nel nostro opporsi cieco, qualcosa di donchisciottesco. Ma nessuno ha riso perché ci si sentiva una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo. E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente Ignazio di Loyola; dove c'è un De Maistre che sappia dare una dottrina, un'intransigenza alla sua spada!


PIERO GOBETTI