DIVISIONE DI LAVORO UNIVERSITARIA
Le ultime leggi sull'istruzione superiore, le quali avevano lo scopo di migliorare la situazione economica dei professori universitari, sono riuscite, come era naturale, un bel monumento di ipocrisia demagogica. Prima della guerra, il professore ordinario partiva da uno stipendio di 7000 lire ed arrivava ad un massimo di 10.000; e poiché queste lire erano lorde di imposte e di ritenuta pensioni, lo stipendio effettivo andava da un minimo iniziale di 6100 ad un massimo finale di 8500 lire nette. Sarebbe bastato moltiplicare per tre queste cifre portando il minimo a circa 18.000 ed il massimo a 25.000 lire nette, perché i professori, pur sopportando una perdita, a cagion dell'aumento più accentuato nel costo della vita, fossero contenti e non se ne parlasse più. Purtroppo, i professori universitari hanno nel mondo una brutta fama di mangiapani a tradimento: quelle tre ore settimanali di lezione e quei quattro o cinque o sei mesi di vacanze effettive fanno un gran dispetto al resto dei mortali, e specialmente a quei parecchi deputati, che hanno nutrito nei verdi anni l'aspirazione a diventare anch'essi professori di università, ma non ci sono riusciti od hanno dovuto fermarsi alla libera docenza, perché la chiacchiera, di cui sono abbondantemente forniti, non è un viatico bastevole per forzare il tempio della Scienza. Di qui l'antipatia e quasi l'odio cordiale dei moltissimi deputati per i professori. Siccome tra questi ultimi ci sono sventuratamente anche dei politici sopraffini - e ne sia prova il contingente esagerato che gli universitari danno al Parlamento ed al Governo, peculiarità che non trova riscontro se non forse in qualcuno degli Stati nuovi sorti dalla guerra - fu subito trovata la via per risolvere il conflitto tra l'antipatia parlamentare, che avrebbe lasciato volentieri morire di fame i professori e le necessità di questi di vivere. Bisognava lasciare agli uomini politici la soddisfazione maligna di far cosa spiacevole agli universitari, pur ottenendo l'intento di compensare in parte costoro del danno di cui essi, insieme con tutte le altre categorie di impiegati pubblici, erano rimasti vittime da quando cominciarono ad essere pagati in moneta falsa invece che in moneta buona. Si disse: il professore universitario guadagna troppo poco, perché lavora troppo poco. Facciamogli fare tre ore di più di lezione alla settimana e diamogli in più un fisso di 6000 lire all'anno, più una partecipazione alla tassa variabile da 2500 a 6000 lire. Le tre ore in più le faccia, sia assumendo un secondo insegnamento scoperto nella sua facoltà, o scuola, sia facendo un corso di cosidette esercitazioni ai suoi allievi. Non parlo del fastidio che ne venne e ne verrà agli allievi; i quali dovrebbero, se questo ordinamento si avverasse sul serio, correre da mane o sera a sentir professori e ad esercitarsi sotto la loro scuola, e non avrebbero più tempo e modo, - parlo degli scolari studiosi ed intelligenti, ché gli altri non vanno a scuola o sarebbe meglio se ne stessero lontani, - di studiare sui libri e meditare le cose sentite e lette. Ma è la concezione medesima del professore universitario, come colui che fa lezione e deve essere premiato se ne fa molte e punito se fa altro, la quale merita di essere esaminata. L'uomo della strada e quello che fa le leggi considerano il professore universitario sotto la specie delle tre ore settimanali; e le trovano irragionevolmente poche, perché in 50 o 60 ore annue non si può svolgere un corso "completo", perché i professori sono tratti dalla brevità del tempo a parlare di un solo "capitolo" della materia; ed i discepoli escono dall'università asini in tutto il resto e sono bocciati agli esami di concorso agli impieghi a cui aspirano. L'ideale medio o comune del professore presso i bravi padri di famiglia sarebbe quello di una persona incaricata di svolgere "tutta" la materia in modo "pratico", cosicché il rampollo potesse, ricevuta la laurea, senz'altro esercitare una professione o coprire un impiego. E poiché l'Università non riesce, non è mai riuscita e non riescirà mai in nessun paese del mondo a questo grottesco risultato e sarebbe un disastro se ci riuscisse, così si grida al fallimento dell'università e si conchiude che i professori sono fin troppo pagati e bisognerebbe ridurre loro lo stipendio. Bisogna riconoscere che gli universitari hanno contribuito a queste deplorevoli conclusioni dell'opinione politica e volgare, non reagendo abbastanza energicamente contro la premessa da cui logicamente derivano le 6 e deriveranno le 12 ore: che cioè l'ufficio per cui essi sono esclusivamente e principalmente pagati sia quello di far lezione. Io dico che invece gli uffici sono tre: di studioso, di insegnante e di esaminatore; distinti nettamente l'uno dall'altro e tali che in un ideale ordinamento degli studi dovrebbero potere essere separati anche nelle persone che li coprono. Viene primo, per valore spirituale, per importanza sociale e per interesse pubblico l'ufficio di studioso. Direi che è il solo ufficio il quale debba essere rimunerato dallo Stato, perché il solo per cui è impossibile trovare una clientela disposta a pagare il prezzo dei servizi resi in contraccambio alla collettività. Che lo studioso sia utile a questa non v'è dubbio; scopre le verità nuove, scientifiche, pure, da cui deriveranno col tempo applicazioni pratiche di gran momento; crea, con le ricerche storiche filologiche e morali quell'ambiente avido di sapere in cui soltanto può formarsi una classe dirigente colta, capace di condurre una nazione a grandi destini. Ma nessuno è disposto a pagare la scoperta di una verità di scienza pura. Sono merci senza prezzo, perché il loro pregio è così grande e così diffuso, eleva talmente il tono dell'intiera società, che nessuno si sente in obbligo in modo particolare di far domanda, offrendo un prezzo, di verità pure filosofiche, matematiche, fisiche, economiche, storiche. La verità pura non può essere oggetto di privativa. Egrave; come l'aria, che tutti godono, senza pagarla. Perciò lo scienziato puro, se non è ricco di casa sua, sarebbe destinato a rimanere nudo ed affamato, se la collettività non venisse in suo soccorso. Benedetto Croce fu il maestro della nuova Italia e non ebbe mai alcuna cattedra; ma avrebbe potuto fare a meno di chiederla, se non fosse stato provveduto di mezzi suoi, che gli consentirono di pensare e di scrivere tranquillamente, senza preoccupazioni materiali? Quanti sono questi scienziati puri, i quali hanno diritto ad essere mantenuti dalla collettività, perché essi fruttano a questa il mille o il milione per uno? Evidentemente pochissimi. Forse in ogni paese si possono contare sulle dita (di una mano; ed a volere, come del resto è giusto, tener conto non soltanto dei Benedetto Croce o dei Galileo Ferraris, ma anche di quei più modesti indagatori, che scavano in terreni inesplorati, suscitano curiosità, provocano indagini altrui, se pure non giungono propriamente essi alla scoperta della verità nuova, difficilmente si può supporre di superare il centinaio. Cifra elevata quella di cento; forse non toccata neppure usando larghezza di criteri. Errerebbe gravemente chi pretendesse scegliere questi 100 direttamente con concorsi od a scelta fra i mille e più professori universitari che in ogni momento coprono in Italia una cattedra. E certo che questi 100 sono dappiù degli altri 900, i quali non hanno la scintilla del genio o, pur essendo ottimi insegnanti od esaminatori, non hanno la virtù di scavare in terreno vergine. Ma sarebbe un disastro creare, ad esempio, accanto a quella dei professori straordinari ed ordinari, una categoria di super-professori meglio pagati, nella illusione che questi potessero per l'appunto essere i 100 anzidetti. Non ce ne entrerebbe nessuno o pochissimi. Il ministro non li potrebbe scegliere, perché sarebbero preferiti coloro che hanno maggiori influenze politiche e quindi, con tutta probabilità, minori meriti scientifici. I colleghi inevitabilmente darebbero il posto ai più anziani, senza distinzione di meriti. Il concorso tra gli ordinari in carica perpetuerebbe il nefasto sistema della titolografia, per cui ognuno dei 1000 professori seguiterebbe a produrre titoli per tutta la vita, nella speranza di arrivare ad acciuffare uno dei 100 posti di super-professore. Senza volerlo, il sistema attuale per cui il professore, superato il periodo transitorio dello straordinariato, diventa ordinario e quindi inamovibile, non promovibile, uguale in grado a tutti i suoi colleghi, senza superiori e senza inferiori, é il sistema migliore per la scelta dei 100 chiamati a far progredire la scienza. Infatti: 1) una volta promosso ordinario, il professore non ha più bisogno di scrivere. E molti piantano lì; e fanno benissimo. Se scrivessero, perderebbero il tempo essi e lo farebbero perdere agli altri. Giovano meglio agli studi, insegnando o esaminando. E' un'ubbia ridicola quella di lamentarsi dei professori, che, una volta ottenuto il bastone da maresciallo dell'ordinariato, non "producono" più. La sola produzione utile è quella di coloro che hanno qualcosa da dire. Se un tale non scrive più, è chiaro che non ha nulla da dire. Il cielo volesse che la fabbrica di titoli cessasse coll'ordinariato! Sarebbe un flagello di meno. Purtroppo, invece, molti continuano inutilmente a "produrre" per abitudine, per ambizione, per erroneo concetto di sè medesimi, per far carriera extra-accademica. 2) l'ordinario non ha più bisogno di fabbricar titoli. Il titolo è una specie particolare di scrittura, in cui lo scrivente non bada tanto alla verità delle cose scritte, quanto all'effetto che esse faranno sull'animo di quei cinque o sei che si suppone faranno parte della commissione esaminatrice dei concorsi. Tale prospettiva esercita una influenza dannosa anche sui migliori, simile a quella che produce sui candidati onesti la previsione di ciò che penseranno gli elettori. L'ordinario tira il fiato e se scrive, può scrivere senza preoccupazioni. Saltano fuori cosidette "ingratitudini", le quali sono invece umane rivolte di menti compresse dalla paura dei concorsi . 3) l'ordinario può trascurare le lezioni, farle male, non dare importanza agli esami. Se il non scrivere affatto o il non scrivere più titoli è atto lodevole, questo è atto riprovevole moralmente. Lo si ricorda, solo per spiegare come possa essere un'esigenza di certe menti astratte o distratte non occuparsi di doveri di secondo ordine, come sono le lezioni e gli esami. E' un inconveniente, insito al sistema, e di cui non giova lamentarsi, perché è condizione necessaria per ottenere tutti quei 100 indagatori e scopritori di cui il paese abbisogna. 4) l'ordinario non ha più speranze di progredire nella sua carriera, non ha superiori, non ha inferiori. Non avendo nulla da sperare né da temere, avendo il pane assicurato, può dedicarsi al suo ufficio, che è di pensare, di scrutare, scoprire. Molti non lo fanno: pensano a diventare senatori o deputati, fanno i professionisti o non fanno niente. Tanto meglio per la scienza, la quale ha tutto da guadagnare ad essere coltivata soltanto da coloro che spontaneamente vi si sentono attratti. Da questo punto di vista, lo stipendio pagato ai 100 scopritori si può definire una pensione vitalizia, pagata dallo Stato, senza obbligo di alcuna diretta controprestazione, allo scopo di dare allo studioso l'agio di pensare e di lavorare senza le preoccupazioni della vita materiale. Affinché le 100 pensioni siano attribuite a persone degne è assolutamente necessario pagarne altre 900 a chi, privo del dono della scienza pura, ha però attitudine ad insegnare od esaminare o forse anche non ha voglia di far niente. L'esistenza di 100 cattedre in confronto ai 100 scopritori può essere assomigliata a quella delle molte giocate in confronto ad una vincita al lotto. Per lo Stato è conveniente pagare 20.000 lire all'anno a 100 detentori di pensioni universitarie, nella speranza che tra i 1000 ce ne siano 100 degni di coprire l'ufficio di studioso; è cioè più economico di quanto non sarebbe scegliere questi 100 in altro modo. Non li saprebbe scegliere e sprecherebbe i suoi denari. Nei tempi andati, lo Stato aveva risolto il problema anche in un'altra maniera: con le accademie. Queste erano società a numero limitato, per es. 40, eletti per la prima volta dal sovrano ed in seguito per cooptazione. I più anziani 20 o 24 avevano una pensione; per es. a Torino, di 600 lire all'anno. Ma nel 1783 a Torino con 600 lire l'anno si viveva suppergiù come con 10.000 lire oggi. Il socio pensionato non aveva obbligo di lezione o di lavoro qualsiasi. Doveva solo partecipare alle sedute della dotta compagnia, una specie di circolo, i cui soci in amichevoli conversari si comunicavano, se e quando avevano studiato, i risultati dei loro studi. Adesso, le 600 lire sono rimaste tali quali; anzi, ridotte da vani balzelli a 540 lire, valgono poco più di 540 soldi di una volta e non servono quindi più allo scopo per cui sono state largite, che era di dare comodità di riflettere a una piccola cerchia di uomini amanti della vita contemplativa e contenti di una vita modesta. Nelle vecchie università inglesi, ci sono ancora i fellows o compagni, i quali godono di una pensione vitalizia annua di 100, 200 lire sterline; e non hanno nessun obbligo. Possono, volendo, partecipare alla vita collegiale; hanno stanza, vitto, uso della biblioteca e delle comodità del collegio; ed in cambio non hanno altro obbligo salvo quello di pensare o di fantasticare, se lo credono. Cento sterline, oggi, sono poche, anche in Inghilterra; ma ci sono dei frati laici, i quali, pagando alla mensa del Collegio un modesto scotto ed avendo una bella cella con dei bei libri, se ne contentano e danno utili contributi alla scienza. In Italia queste pensioni gratuite sono contrarie allo spirito democratico. Regalare 100 pensioni da 20.000 lire l'una a gente aristocratica, neppure obbligata a dir grazie? Ohibò! Concorsi ci vogliono e titoli e sgobbamento di lezioni e di esami. Non che le lezioni non si debbano fare e che non siano necessari gli esami. Ma per le lezioni, il rapporto fra lo scienziato, lo Stato e lo studente è diverso da quello schizzato sopra. L'inventore dell'idea, il dissodatore di terreno vergine deve essere ricco di casa sua ovvero essere pagato dallo Stato, perché nessuno è disposto a comprare la sua merce, la quale acquista pregio solo se divulgata a tutti e quindi divenuta gratuita. Le lezioni invece sono utili a qualcuno; possono essere impartite in locali chiusi. C'è lo studente, il quale si avvantaggia a non imparare la scienza solo sui libri, ma a sentirla esporre dalla viva voce del professore, ad essere guidato nelle sue ricerche da qualcuno che ha provato, ha sbagliato ed è riuscito prima di lui; c'è il giovane il quale, posto innanzi alla letteratura scientifica, si smarrirebbe gettandosi sui libri più rumorosi, più moderni e meno consistenti ed ha bisogno di chi lo illumini, gli faccia risparmiare tempo e, attraverso ad uno sforzo lieto, perché definito e consapevole, lo conduca alla meta. Può darsi che l'indagatore della verità sia anche il maestro dei giovani. Non sempre è così: ci sono dei magnifici maestri, per cui il laboratorio è nulla e la scuola è tutto; i quali vibrano e crescono di statura intellettuale e morale nel comunicare ai giovani le idee create dai grandi pensatori. Vite spese nella formazione di successive generazioni della classe dirigente, sane vite nobilmente e fruttuosamente spese. Ognuno di noi ha aspirato a compiere questo ufficio; ognuno di noi, non potendo toccare la più alta meta di chi scopre ed addita nuove vie, ha riposto il suo orgoglio nell'introdurre i giovani nel vasto e grande e magnifico mondo delle idee. Anche per questa seconda categoria la moltiplicazione delle ore di insegnamento o la obbligatorietà delle esercitazioni è una goffaggine demagogica. Lasciamo stare le esercitazioni di laboratorio o di disegno o di clinica che si sono sempre fatte e per cui occorre un apparato di assistenti, di impianti e di materiale scientifico, senza di cui esse sono prive di senso. Nelle scienze astratte ed in quelle morali, letterarie e giuridiche, che cosa sono queste esercitazioni, se obbligatorie? Io ho avuto la fortuna di avere per maestro di economia il professore Cognetti De Martiis, per cui la scuola consisteva nello stare tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19 al Laboratorio di Economia Politica a lavorare in mezzo ai suoi allievi, sempre pronto a dar loro consigli, ad indicar libri, ad addestrarli a maneggiare inchieste e statistiche. Ma egli era un volontario e lavorava senza compenso, con entusiasmo giovanile, perché era insegnante nato. Anche qui bisogna rassegnarsi a giocare al lotto. L'ufficio dell'insegnante universitario è scelto da coloro che sanno insegnare, non certo perché più lucroso di altri, ma perché dà l'assoluta indipendenza, la inamovibilità, la quiete nello studio, le ore di lezione numerate a distanze riposanti e con lunghi intervalli chiamati vacanze. Uomini dotati della capacità intellettuale che si suppone richiesta per coprire quel posto devono godere di certi "ozi", se debbono rinunciare a maggiori lucri a cui potrebbero aspirare altrimenti. Perciò, bisogna rassegnarsi al fatto che non tutti i professori universitari siano dei maestri o che altri, dopo esserlo stati, stanchi abbiano perso un po' del fuoco sacro che dianzi li animava. Non occorre che tutti i 10 o 15 professori di una facoltà siano degli animatori. Anche un numero minore basta a rendere fruttuoso un corso di studi. In fondo, il metodo critico necessario per lo studio dell'economia politica è quello stesso che serve per la statistica o per la finanza; e colui che si è assimilato in diritto civile o romano il criterio giuridico possiede uno strumento che gli servirà anche nelle altre scienze giuridiche. Ed è necessario che anche i mediocri siano tollerati, senza limiti d'età, perché la scuola attragga i maestri capaci di formare le nuove generazioni. Né il fine di incitare i giovani allo studio, di formarne la mentalità, di introdurli con ordine nel mondo delle idee si raggiunge meglio moltiplicando il numero delle lezioni, facendone 100 invece che 50. Solo la superstizione degli orari lunghi e della "materia completa" può spiegare l'abnegazione delle molto ore. Quei geni, i quali si lamentano perché il professore non ha "svolto" tutta la materia e il loro figlio è stato bocciato agli esami di concorso, non sanno quel che si dicono. La "materia" sta scritta nei libri di testo; e per svolgerla tutta basterebbe un fonografo messo sulla cattedra, col bidello accanto per mantenere l'ordine. Il professore universitario ha ben altro da fare: deve inspirare ai giovani l'amore per certe idee, il gusto per certe ricerche, il senso critico per le cose lette, il metodo per leggere ed imparar bene. A tal fine basta ugualmente trattare di un capitolo della cosiddetta materia, o dare ad essa uno sguardo sintetico o gittar luce di scorcio sui suoi problemi fondamentali. E gli studenti debbono aver il buon senso di comprendere che il corso universitario non è che un avviamento allo studio di certe scienze; e che se vogliono conoscerle, debbono studiarsele da sé, con quel metodo che a scuola debbono avere imparato. Purtroppo, gli studenti seguono per lo più la linea del minimo sforzo; e confondono l'apprendimento della scienza con il superamento dell'esame. Questa degli esami è una vera piaga, che turba la vita delle due categorie, gli indagatori ed i maestri, di cui ho cercato di schizzare sopra le esigenze. Come gli esami dovrebbero essere tenuti, se orali o scritti, se per materie singole o per gruppi di materie affini, se alla fine di ogni anno od al termine del corso di studi, se universitari o di Stato, sarebbe un discorso lungo a tenere. Qualunque sia il metodo seguito, certo è che essi dovrebbero essere affidati ad una speciale categoria di insegnanti, addestrati e specializzati nell'ufficio di esaminatori. Maestri insigni sono tenuti in poco conto dagli allievi, o meglio dalla gran massa degli allievi, perché non sanno esaminare o si annoiano nel farlo o sono troppo severi o troppo indulgenti. Ci sono invece uomini che sanno trarre gioia anche da questo compito che ad altri pare seccantissimo ed aridissimo. Forse è il solo ufficio universitario per cui dovrebbero essere stabiliti bassi limiti d'età. Questa, che è una goffa superstizione italiana, ha ragion d'essere per gli esami, per cui occorre resistenza fisica, tensione nervosa, attenzione ferrea e seguitata, voglia di ribattere e chiarire gli errori, tutte qualità che coll'andar degli anni vanno perdendosi, sottentrandovi il fastidio della ripetizione, la noia di rilevare errori le mille volte confutati, la consapevolezza della inutilità dei tentativi di cambiare le teste matte o i cervelli grassi. Coll'età si accentuano i sentimenti di indulgenza e di compatimento verso le debolezze umane e si affievolisce il senso del dovere di giustizia verso coloro i quali potranno essere danneggiati da un laureato asino. Perciò una delle riforme più utili all'università sarebbe la creazione di una classe di esaminatori, la quale fosse specializzata in questo ufficio e ne facesse lo scopo della sua vita. Noi economisti siamo portati a far uso del principio della divisione del lavoro; e ciò che dico si inspira appunto a questo criterio. L'università può trarre gran partito da uomini che non abbiano e non possano avere l'ambizione di creatori e di maestri, ma aspirino al più modesto, ma ugualmente utile ufficio di collaboratori di quelli, alleviando ad essi la fatica materiale dell'interrogare e del fare ripetere. L'aspirazione di tanti padri di famiglia al Corso "completo", potrebbe essere soddisfatta da questi "ripetitori", pagati dagli studenti ed i cui corsi sarebbero probabilmente frequentatissimi dalla grande massa degli studenti, a cui importano poco le idee madri, i metodi di studio, gli strumenti della ricerca originale, ma vogliono invece ridotti in soldoni gli elementi delle discipline di studio. Gli studenti frequenterebbero i corsi privati dei ripetitori, quando questi fossero per l'appunto corsi istituzionali e generali e quando i ripetitori fossero coloro su cui cadesse il carico precipuo degli esami, divenuti una cosa seria. Adesso gli esami non possono essere una cosa seria laddove gli studenti da esaminare sono centinaia e il tempo è limitato e la fatica è tutta del professore della materia, il quale al decimo interrogatorio praticamente è stordito, ripete senza volerlo le stesse domande, alla cui suggestione gli è impossibile sottrarsi. Gli esami dovrebbero essere organizzati; né lo possono essere senza un costo piuttosto elevato. Io non credo che abbia importanza effettiva sulla cultura la questione dell'esame accademico e dell'esame di Stato, che in Italia sembra essere la sola questione esistente in argomento. L'esame di Stato, introdotto nel nostro ordinamento scolastico attuale, peggiorerebbe grandemente la situazione, poiché al pappagallismo delle dispense - a cui qua e là si sottraggono gli insegnanti che all'esame riescono a dedicare cure particolari - si surrogherebbe, peggiore e generalizzato, il pappagallismo dei libri di testo e dei questionari stabiliti per regolamento per i tali e tali diplomi. L'esame non deve testimoniare che il candidato ha quelle tali nozioni, che lo Stato ha prescritto in un programma: l'esame di Stato, checché profetizzino i suoi fautori, ha almeno altrettanta tendenza a degenerare come l'esame accademico. Il diploma conseguito così è una ben meschina cosa. Invece l'esame dovrebbe rendere testimonianza che il candidato si è impadronito dello spirito dell'insegnamento, che in quella data scuola, e non in un'altra, si impartisce. Esso perciò deve essere dato dall'insegnante che di quella scuola è lo spirito animatore. Ma egli deve avere i mezzi di accertarsi seriamente quanto valga e cosa sappia il suo studente. L'odierno esame orale, anche se prolungato dai consuetudinari quindici minuti a mezz'ora o più, non dà nessuna garanzia in merito. L'esame orale dovrebbe essere l'ultimo atto di una serie di prove, principalmente scritte, da tenersi secondo un piano prestabilito dal capo di ogni istituto o gruppo di materie e concordato con i suoi colleghi. Chi abbia avuto sotto gli occhi qualcuno dei piani di studi e di esami che devono essere osservati nelle principali università inglesi ed americane per conseguire un qualunque grado, rimane stupito dello stato di anarchia in cui ci troviamo noi. Anarchia la quale dipende dalla circostanza che presso di noi tutto è affidato ad un unica persona, la quale dovrebbe nel tempo stesso scoprire nuovi veri, essere il maestro dei giovani che hanno l'amore della scienza, il ripetitore e l'esaminatore della massa degli studenti ordinari. Il che essendo di fatto impossibile, tutti tre i compiti sono adempiuti alla meglio, con risultati spesso deplorevoli. Non si dica che le prove scritte sarebbero la continuazione dei componimenti liceali e si ridurrebbero ad un cattivo riassunto scritto, invece che orale, delle dispense e dei testi stampati. E' tutta una arte che deve perfezionarsi in materia di conoscere le fonti principali, i libri classici, possegga antologie dei testi fondamentali sulle teorie insegnate e sappia trarne partita. Il cosiddetto "paper" delle università inglesi meriterebbe di essere meglio conosciuto da noi: dal "paper" ossia saggio - scritto preparato tranquillamente a casa, a quello che deve essere composto nell'aula, in non più di un dato tempo e in non più di tante parole; prove differenti le quali permettono di giudicare il valore del giovane da differenti punti di vista. Ed il "saggio" di ogni studente deve essere su un argomento diverso da quello di ogni altro; ed essi debbono essere parecchi per ogni disciplina e cose ben diverse dalla dissertazione originale di laurea. Fatica diabolica, si dirà, per i professori; ed è perciò appunto che non è possibile farne nulla, prima che sia avvenuta quella suddivisione di funzioni fra lo studioso, il professore e l'esaminatore che ho voluto delineare nel presente articolo. LUIGI EINAUDI.
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