POSTILLE

    Caro Gobetti,

    mentre è troppo presto per una valutazione politica degli avvenimenti di questi giorni, accogli - se è possibile - questa notazione psicologica, che ti butto giù per il prossimo N. della R. L.

    Non ti parlo degli avvenimenti: c'è troppa confusione, troppa confusione; e quanta angosciata amarezza!

    Cordialmente tuo


LUIGI EMERY.

Lo Stellone.

    Al tempo dell'occupazione delle fabbriche, mi trovavo all'estero; e spesso da stranieri mi sentivo fare la domanda: - Ebbene, che cosa bisogna pensare di queste agitazioni? come si risolverà questa situazione? - Allora, come altre volte, io non sapeva rispondere se non con una fiduciosa, convinta, ma necessariamente generica e non persuasiva affermazione di fede nelle capacità vitali del popolo italiano. E mi sentivo replicare: - Caro signore, sarà come lei dice; ma questo Suo è un atto di fede, non è un ragionamento probante. - Vi sono infatti certezze fiduciarie, scorci intuitivi, non logicamente, non discorsivamente traducibili, che valgano più d'ogni dimostrazione matematica: affermazione d'una verità che non cessa d'esser razionale per il fatto d'essere estranea agli schematismi analitici dell'intelletto. Senza questi atti di fede non si vive, non si cammina; non solo; ma non si afferra nemmeno la "verità vera" della storia e della vita.

    Tra noi italiani, siamo in famiglia, siamo tra iniziati, e ci possiamo intendere con un'occhiata. Ma pensate un po' di dover spiegare ad un estraneo, ad uno straniero - in termine, cioè, rigorosamente, freddamente intellettuali - gli avvenimenti di queste giornate. Sfido chicchessia a non trovarsi in una penosa incertezza.

    Ma c'è in ciascuno di noi, che voglia rendersi ragione via via di quanto accade in lui e intorno a lui, questo straniero impassibile, col suo sguardo freddo, con le sue domande urgenti e inesorabili. Gli avvenimenti di questi giorni sono di quelli che pongono più violentemente in luce il carattere infinitamente contraddittorio di tutta la nostra vita italiana. Noi siamo, un cumulo di contraddizioni, siamo un enigma perpetuo, una sfinge proteiforme. Ed ogni spirito che si propone come miglior forma di vita una coerenza ideale, una disciplinata chiarezza, non può non risentirne una dolorosa, tormentosa inquietudine. Siamo ridotti a questo: augurarci una certa fiacchezza, un certo accomodantismo, un indefinito transigere di tutti rispetto al proprio compito, sicché ognuno faccia un po' la parte dell'avversario e l'advocatus diaboli contro sé stesso, perché così soltanto eviteremo le peggiori catastrofi. Così abbiamo udite le più saggie persone augurarsi che i soldati osservino il proprio assoluto giuramento d'obbedienza e di fedeltà... fino a un certo punto; ed i rivoluzionari è bene che siano rivoluzionari... fino a un certo punto; programmi e promesse e fedi debbon esser mantenute... fino a un certo punto. Questo si preconizza sorridendo come il nec plus ultra della millenaria sapienza italica. Questo è perfettamente cattolico, dunque perfettamente nostro. Non è, infatti, l'Italia il paese dove i veri rivoluzionari furono sempre i conservatori e i socialisti i veri conservatori? dove i ribelli fanno i colpi di Stato monarchici e i Re fanno le più radicali rivoluzioni progressiste; dove chi rende omaggio all'Esercito "fedel sino alla morte", ed esalta l'obbedienza cieca, invita al momento buono gli uomini fregiati delle stellette a consegnar le armi in nome di avvocatesche distinzioni di Stato e Antistato, e li chiama vigliacchi se non si fanno volontieri spergiuri?





    Ma tutto si risolve - dicono - per il meglio, perché nessuna posizione è mantenuta con disperata volontà, e ciascuno anticipa già per suo conto, entro se stesso, la fatale composizione delle forze dalla quale uscirà la nuova realtà del domani. Non si arriva, ma si parte già, per un colmo d'abilità, del compromesso. Domani, con una fregatina di mani, ci compiaceremo che una volta di più "l'è andata bene", grazie allo Stellone, sotto il bel cielo d'Italia.

    Questa è l'amarezza profonda, la sconsolante fiducia che ogni animo arso dal disperato amore della coerenza, della saldezza ideale, è costretto, suo malgrado, a ritrarre dalla storia passata, e contemporanea. Siamo tutti troppo furbi, troppo abili, troppo consumati. Abbiamo già tutto veduto, tutto provato, tutto saputo, prima ancora di nascere. "Itala gente, dalle molte vite": ognuno ha cento anime nella sua piccola anima, ognuno è un politico nato.

    Ma noi sentiamo che questa suprema forza è la nostra più profonda debolezza; questa prima fiducia è il nostro sconforto ultimo; questo sommo merito è la nostra condanna; questa abilità è impotenza; è un premio, ed è un castigo; più che conquista, peccato originale: titolo di nobiltà che è brivido d'infermità.

    Tutto ciò ha un nome, scherzevole e fatalista, ironico e compiaciuto: lo Stellone d'Italia.


LUIGI EMERY.