DE MONARCHIA 2
Risposta a Sapegno.
Caro Gobetti,
Peccato avere espresso un giudizio critico sul mio saggio "De Monarchia", conoscendolo quasi solo a metà. Forse nelle parti non ancora pubblicate si sarebbe trovata risposta a talune obiezioni, e magari motivo di modificare alquanto il concetto d'insieme. Citerò esempi, nel corso di qualche breve riposta alle osservazioni di Sapegno.
1. - Distinguere, in fatto di pensiero politico, Croce da Gentile, è opportunità da me vivamente sentita. Nella parte del saggio non ancora nota a Sapegno (Tribuna, 11 ottobre), riprendendo la critica della tendenza antimonarchica di Sinistra, o ideologica (Missiroli e affini), la manifesto così: "Hegeliano è anche il pensiero crociano, pensiero politico schietto, permeato di senso storico, aderente alla realtà, che, anzi, vorremmo contrapporvi a (Missiroli e affini;) mentre qui affiora, se mai, l'hegelismo deteriore di Oriani". Nel primo accento, insieme a Gentile menzionai Croce, solo come un maestro dell'idealismo filosofico da cui quelli, piuttosto male che bene, discendono. Se Sapegno, e gli amici della Rivoluzione Liberale, giudicano, con me, insufficienti ed errati l'ideologia, la visione politica, il giudizio storico di Missiroli, siamo d'accordo.
2. - Giudizio sulla posizione attuale della Monarchia. Sapegno mi rimprovera di dar troppa importanza alla opposizione di Destra, e afferma che io "trascuri troppe cose, generalizzando un'affermazione personale, e probabilmente secondaria, di Mussolini". Gli eventi successivi a quella mia valutazione della minaccia di Destra, eventi attuali tendono a confermarla, piuttosto che a smentirla: ma speriamo pure bene: anch'io, considerando pro' e contro, ho definito la posizione della Monarchia una "precarietà stabile" (Tribuna, 11 ottobre). Le cose che trascuro, cioè la formazione composita di fascismo e borghesia (su cui concordo con Sapegno, e lo dissi in Democrazia), non interessano l'argomento. L'affermazione di "tendenzialità repubblicana" io l'ho presa come sintomo, e spunto, per additare un fenomeno più vasto, su cui mi duole che S.
non abbia fermato l'attenzione, perché quello (con la denuncia della "crisi istituzionale") era il punto: la tendenza, speciosa e ipocrita, segno grave d'immaturità e d'insufficienza, a fondare l'unità e l'essenza dello Stato sopra una base non seriamente politica, ma di sentimentalismo pseudo-etico, e fazioso, sull'esasperazione dei valori patriottici e nazionalisti, su quella "religione della Patria" che è diventata intollerante ciò è sfruttato da gruppi che tendono a diventare oligarchici (grandi giornali, e loro ispiratori, coalizioni di interessi, fascismo, di cui si può dire che l'idolatria nazionalista costituisca l'unica etichetta unitaria): ciò, vale a dire che "Patria" sia oggi ritenuta mito sufficiente a ottenere consenso e obbedienza ai nuovi ottimati e dittatori, mi sembra fatto nuovo, ed è grave, ed è "borghese":
(almeno tanto quanto il bolscevismo era "proletario"): ciò minaccia, sia pure di riflesso, la Monarchia, considerata come non più utile dagli oligarchi, anzi, pur quella parte di potere politico che conserva, ingombrante; anche per il suo passato prudenziale orientamento "democratico", oggi ostico ai nuovi. Il pericolo, pertanto, potenzialmente esiste: e se mai, per sventarlo, bisogna denunciarlo.
Poco male se la Monarchia cadesse - dice però Sapegno: e qui passiamo ad altro discorso.
3. - Giudizio sulla importanza e funzione della Monarchia. Qui la critica si fa per me più aspra. L'accusa implicita è che io mi sia occupato di quisquilie, di un problema formale, per un gusto "estetistico" vale a dire dilettantesco (e la parola è dura); quella esplicita è che "Monarchia" sia per me termine senza contenuto, schema inaderente alla lotta politica concreta, la cui materia va cercata nelle differenti condizioni sociali ed economiche (né io, certo, lo nego, ma bisogna vedere come ciò si rifletta e atteggi nei problemi non elementari ma di secondo grado, culturali o istituzionali, di cui la Monarchia è uno, oggi ricchissimo di significati). Certo, io non sono Maurras, né deifico la Monarchia sub specie aeternitatis.
Potrei rispondere, inoltre, che la Monarchia é, insomma, una realtà ed un problema politico, sia pure per S., secondario, e che, pertanto, è legittimo occuparsene, anche se ne esistano di più vitali. Ma voglio dire di più, perché, effettivamente, ho inteso dare alla questione una importanza maggiore. Anch'io sentii, prima che mi venisse formulata da altri, l'obiezione; ma mi parve di poterla superare. Nella parte, non ancora nota a S., del mio saggio, mi sono espresso così (Tribuna 11 ottobre).
" ... Nell'immaturità delle presuntuose oligarchie borghesi, grettamente egoiste e faziose, scervellatamente interventiste e fasciste, sopratutto apparente nei folli, e contraddittori, conati di politica estera; e dal governo di partito, quale appare nel meccanismo della proporzionale, la funzione direttiva è tuttora additata alla Monarchia .... (S. mi consiglia di non occuparmi di queste minuzie, ma di essere seriamente politico, vale a dire cercare "se, per avventura, fra i ceti minorenni non si vadan costituendo delle élites, che si preparano a trovare le loro forze, onde dirigersi a conquistare... ": cari amici, io auguro a queste élites di formarsi, ma, frattanto, bisogna valutare senza troppo disdegno quelle che si sono, e saper scegliere, se Mussolini - D'Annunzio o Vittorio Emanuele III - Giolitti: questa mi sembra politica concreta).
" ... Compiti di Stato, se la Monarchia si trovasse impotente ad attuarli per il suo tramite specifico, il quale non potrebbe essere se non, tradizionalmente, un uomo di fiducia, Ministro fedele e potente di cui, al momento, dopo l'eclisse Nitti, d'altronde malsicuro, non si vede traccia. Compito di classe, di coscienze politiche, dominanti le forze rozzamente sociali. Ma si comprende come sarebbe più facile attuarlo, come quella stessa coscienza superiore saprebbe più facilmente sorgere, e fortemente imporsi, quando potesse appoggiarsi a un istituto prettamente politico, tradizionalmente autonomo, circondato dalla estimazione del Paese: ciò, anche in tempi più maturi, sarebbe sempre utile, per sfuggire ai ricatti delle oligarchie.
Insomma, conservare, fecondare tutto ciò che possa costituire un humus politico, il nucleo di una coscienza statale, perché gli ambienti delle élites sociali italiane, sia plutocratiche sia culturali, ne son scarsi. E' importante, e bello, che lo Stato abbia questo suo centro vivo, tangibile, quale, per Roma e Venezia fu, ai bei tempi, il Senato, quale oggi da noi non può essere che la Monarchia.
"... Si capisce che, se venisse la Repubblica o la Monarchia diventasse operettistica, non cascherebbe il mondo. Ma sarebbe un ulteriore scadimento della politica, a vantaggio di rozze egemonie sociali: con pericoli remoti, e, comunque, una funzione secondaria nella civiltà. Sarebbe un grave sintomo che, con le varie "marcie" di Ronchi o di Roma, ci avvicinerebbe sempre più alla Balcania, e al Sud-America. Una gran popolazione, non un gran popolo, come dice gentilmente Barrère.
"Un Sovrano saggio e un gran Ministro: è cosa di prim'ordine .... Per due volte, dal '48 ad oggi, e sia pure in diversa proporzione, la nostra storia ha visto ciò. E' gran benemerenza".
Così credo di aver risposto all'accusa di non precisare il significato e la funzione della Monarchia italiana: significato e funzione in parte, sì, negativi, e quasi passivi (il senso politico e statale che permea questa sua forma e simbolo), e inquadrati entro limiti di possibilità e di caducità, di cui ho viva coscienza; e l'ho espressa. Del resto, avevo già risposto anche prima: ed è peccato che anche qui la critica abbia sorvolato sul punto essenziale. Che era: collocare la Monarchia italiana nel quadro delle Monarchie nazionali europee; riconoscere una differenza specifica, e una causa di debolezza, nell'aver essa agito nell'Ottocento, nell'essere, cioè, una "Monarchia in ritardo", senza più il compito di riorganizzazione sociale; ravvisare, invece, un'analogia permanente nel perdurante officio politico di unificazione nazionale
(egregiamente compiuto nel Risorgimento, e, esteriormente, esaurito) e di direzione e tutela statale. Qui i pareri possono dividersi: per me, nell'immaturità della presuntuosa élites emergenti dal fondo fazioso della razza, e nella sagacia, per contro, della linea governativo-sabauda, l'unica vera e fattiva élite politica della nuova Italia - tale funzione, esplicantesi attraverso una "costituzionalità" prudentissima, ma non del tutto meccanica e "parlamentare", non è ancora superflua (pur ravvisando, e segnalando, segni premonitori, per me pericolosi): tanto è vero che i maggiori Ministri, da Cavour a Giolitti, con profondo intuito della statalità, e dalle contingenze italiche, furono "lealisti"; e che perfino Mussolini,
nel discorso di Udine, riconosce, a parole, la necessità di lasciare nella Monarchia "un punto fermo". Proprio così: un punto fermo. Vale a dire stabilità, efficienza di un potere saggio, autonomo, superiore e moderatore dei partiti che, in Italia, son fazioni. Se no diventiamo il Portogallo. - Ché, quando il compito politico fosse davvero esaurito (e gli eventi odierni dicono di no), rimarrebbe la permanente funzione giuridica di sovranità nello Stato organico, quella che nemmeno un grande e maturo popolo come l'Inghilterra, dove pure la statalità è
salda per complessi ordini secolari, di stabilità sicura, considera superflua. (C'è un profondo pensiero di Pareto sui popoli "formalisti" che conviene meditare).
Questa impostazione del problema monarchico non credo possa dirsi che non sia organica; né che il termine Monarchia per me non abbia senso.
Sapegno conclude che il mio saggio è troppo tendenzioso per essere storia: e rispondo che, storicamente, ho voluto contribuire a mettere, in luce, ed in valore, una élite politica secolare ed illustre, la sabauda-piemontese-governativa, che ha fatto l'Italia e conservata durante il primo cinquantennio, di cui Lei caro Gobetti, va rintracciando le origini filosofiche, e che è trattata d'alto in basso dalle mosche cocchiere, con una jattanza che sdegna - è troppo oggettivo e acquiescente allo stato di fatto, per fornire un punto d'appoggio all'azione: e rispondo rilevando come, accusarne nello stesso tempo un pensiero di essere troppo tendenzioso e troppo oggettivo sembri contraddittorio) che, invece, nel mio concetto, questo modo di vedere e di giudicare è il presupposto di un'azione specifica, la politica vera, o statale, o demiurgica, la quale procede non per opposizione e intransigenza, come l'azione ideologico-sociale, ma per sintesi.
Concetto che vorrei sperare chiarito da quella parte del mio saggio che qui viene pubbliccata.
Suo aff.mo F.
BURZIO.
Torino, 15 ottobre 1922.
Postilla.
La perdurante funzione attiva della Monarchia, l'esistenza di una crisi istituzionale, da me segnalate nel mio saggio, non potrebbero essere meglio dimostrate che dai recenti avvenimenti. E quanto all'atteggiamento assunto dalla Corona, con l'assimilazione del fascismo, mi sembra possa definirsi: giolittiano senza Giolitti.
F. B.
Così non la pensiamo noi: Vittorio Emanuele non fa che rimettere in discussione la Monarchia preparandone la liquidazione.
Politica e Ideologia. (Dal saggio "De Monarchia").
...Per Missiroli il problema principe del popolo italiano è un problema "religioso": "il Risorgimento poté eluderlo, non risolverlo, mediante la conquista monarchica, che si sostituì a tutte le scuole, negando tutti i sistemi, e tutte le idealità". Rimasto estraneo alla Riforma, il popolo italiano non ha potuto elaborare quella concezione etica dello Stato moderno in cui l'unità spirituale ritrova la sua forma esterna, risolvendovisi tutta la religiosità. "Valore rivoluzionario moderno dello Stato, sua ideale religiosità anti-cattolica negatrice di tutta le Chiese". Etica, e un po' mitica, coincidenza di popolo e Stato. " Principio volontaristico, che fa risiedere la funzione dello Stato nelle libere attività popolari affermantisi attraverso un principio d'individuale differenziazione. Stato di marca romantica, con l'esigenza astratta di conciliare autorità e libertà, egli non sa ravvisarlo nelle formazioni concrete, negl'istituti che, eredità della storia, quell'autorità rappresentano, e, posti di fronte al mito della libertà, vi si armonizzano: non lo riconosce come moderno e legittimo se non nasca da un moto "autenticamente" rivoluzionario, vale a dire, sembra, e chi sa perché, di élites poste fuori della tradizione statale, e che la sovvertano. E, ahimè, da noi ciò non fu possibile. "La rivoluzione sognata da Mazzini fallisce .... di fronte alle insufficienze nazionali, che respingono tutte le soluzioni eroiche.
Quindi l'unitá si compie attraverso l'espansione piemontese, che sequestra la Rivoluzione nella Costituzione, Il popolo non conquista, è conquistato: tutto è gratuito, il fallimento ideale è totale. Se l'unità giustifica la Monarchia, questa non giustifica l'unità, nella originaria impotenza di fronte allo Stato moderno".
Benedetto Stato moderno, che sembra sia chi sa cosa. Dove lo vede egli realizzato? Lo schematismo ideologico offusca la visione del processo concreto, come un retorismo eroico altera il giudizio, evocando lo spettro dei "fallimenti ideali".
Gli Stati si sono sempre formati così; sempre hanno prevalso da prima, sui popolari, i fattori dinastico-militari-diplomatici. Ciò, anche, più che da noi, è accaduto in Germania, cioè proprio nella patria filosofica dello "stato moderno": e la Francia solo sette secoli dopo la sua formazione ha conosciuto, nella Rivoluzione, un moto "popolare" non del tutto anarchico e distruttivo. Il popolo è sempre "conquistato": solo, nei casi di auto-formazione, lo è dalle élites espresse dal proprio seno: e fra queste non si capisce perché debba escludersi proprio quella concretamente fattiva-governativo-monarchica, se non per l'impulso dei nuovi a svalutare i vecchi, onde giustificare il proprio essere, e creare l'apparenza di compiti straordinari, laddove nella continuità costruttiva è la politica, ed è, qui, la saggezza: o per l'ostilità dei retori verso i realizzatori; ma, in entrambi i casi, la questione è giudicata.
Il Risorgimento è un fatto politico riuscito, non una rivoluzione religiosa fallita: è stato il processo di formazione di uno Stato nazionale, e per questo verso la storia d'Italia non fa eccezione alla storia d'Europa.
È inutile agitare problemi artificiosi: il sedicente problema della mancata "unità", attraverso la soluzione monarchica "mediocre ed approssimativa": officio della Monarchia era compiere, l'unità politica: di fronte alle riconosciute "insufficienze nazionali", l'azione di Cavour è stata fin troppo intransigente ed audace, scavalcando Gioberti e Cattaneo, per realizzare Mazzini. Chiederle di più è pretesa assurda: è come rimproverare Luigi XI di non averci data bell'e fatta la Francia di Valmy. È un istituto politico, mica una balia asciutta, o una cattedra di pedagogia. L'elaborarsi, nel quadro amministrativo e politico, dell'unità spirituale, è poi opera del tempo, frutto pur di fattori automatici e meccanicistici - prolungata convivenza, reti di rapporti, logica dei confini, omogeneità del complesso geografico economico demografico - che politico e storico apprezzano, mentre l'ideologo inclina a trascurarli. Il problema italico non è "religioso" se non in senso vacuamente generico. Nonostante l'estraneità alla Riforma, e il dissidio con la Chiesa, e le ben più gravi tare psicologiche del popolo, uno Stato, o almeno una Nazione,
vitale tende, infatti, a formarsi anche in Italia, per l'influsso, appunto, di quei fattori: tanto è vero che gli Stati sono essenzialmente sintesi empiriche la loro personalità etica emanando soprattutto dalla storia. Nemmeno a farlo apposta, alcuni dei più saldi Stati, come la Francia, sono in paesi a tradizione cattolica, rimasti fuori delle correnti filosofiche dello Stato - . tutto, mentre, altri, protestanti od ortodossi, cioè, secondo Missiroli, nelle condizioni ideali, sono deboli, perché la loro formazione è più recente .
Hegelismo, mazzinianesimo. Ingenua fede che la cultura possa tanto sulla vita: risolvere la storia politica, sia pure il Risorgimento, nella filosofia di Spaventa o di Bertini! Ciò non credono nè Croce-Pareto, né Cavour-Giolitti: e Paleocapa si metteva le mani nei capelli, udendo opinare di quistioni pratiche Gioberti. La vita è, sì, religione e spirito, ma in senso ben più arduo. Il travaglio logico del filosofo che definisce lo Stato non riassume quello empirico delle forze sociali se non teoricamente, al limite: l'ideologia è, invece, il frutto caduco, sempre unilaterale, dei suoi conati pratici: tra i due la sintesi costruttiva politica, è mediatrice più efficace. Non basta assumere il fattore economico, o il moto operaio, nel cielo delle idee platoniche, per possedere la realtà sia la compressione che il dominio politico esigono qualità ad hoc, un demonico empirismo, l'acchiappa-farfalle metafisico non serve.
Vedete Lloyd George, incolto; vedete il fascismo che rozzezza e che potenza! Il buon filosofo lo scarta, perché non è accidente né sostanza, ma fa la fine di don Ferrante. Oltre le forze senza idee, plutocrazia, ecc., le idee-forze non sono, spesso, le più alte. La materia umana è grezza, chi ci lavora su deve saperlo.
Questa complessa realtà scorge il pensiero politico, né gli preme di impoverirla troppo presto in dialettica inane di astrazioni e di fantasmi, secondo l'esempio ora discusso: così come l'impulso attivo che ne scende mira piuttosto a costruire su quei dati che a negarli, o a mutarli, permeando élites sociali bene spesso inefficaci o impermeabili. Politica e ideologia.
Più che la critica di affermazioni particolari, interessa, pertanto, lo stato d'animo. E' una delle due disposizioni spirituali tipiche, che mi sgorga la volontà, o velleità, politica. Stato, intimamente, di "passione" e non di azione. Il gioco delle forze reali, lo spettacolo degli accadimenti non è oggetto di serena comprensione, e di demiurgico impulso, ma di negazione, direi sofferenza, per la difficoltà di aderirvi e inserirvi le forze intime. E' questa psicologia, più o meno ingenua, di rivoluzionari e d'ideologi, di "esclusi", di "nuovi", alla società e allo spirito; si ritrova come germe, o momento superato, in tutti, e ciò, dunque, sottintende il rispetto, talora la simpatia. Rozze esigenze interiori, cui, roventi, si accoppia nobile, ma incontrollato, impulso etico: volontà di strafare, nostalgia dell'ideale e dell'eroico: scorti nella realtà, si perviene alla poesia, o all'azione demiurgica: se no, malcontenti dell'attualità, sociale o intima, si pongono nel futuro, nel diverso, in sostanza nel mitico. Nasce il dissidio: ideale-realtà. Romanticismo deteriore. Sono quelli che, pur anelando all'azione, disprezzano 1a "politica". Intellettuali, "Intellighenzia". Hanno orrore degli "interessi", vogliono le "idee", o gli "ideali"; hanno disgusto del compromesso, vogliono l'intransigenza; odiano le riforme vogliono la Rivoluzione: non questa o quella rivoluzione, ma la "Rivoluzione", come categoria dello spirito, come "rivolta ideale".
Tutto marcio nel passato, tutto sbagliato, bisogna far tabula rasa: oggi ci siamo noi, comincia la novella istoria. Giovani, nuovi, rozza jattanza. Insoddisfazione della storia, che è un non penetrarla: speranza di palingenesi, oggi, dopo Hegel, materialismo e storicismo, spesso dissimulata: ma non troppo. .Se il dichiarato immanentismo fosse sentito, la loro disposizione verso il presente, o l'opera del passato, sarebbe cordiale, costruttiva, tenderebbe a rispettare, a conciliare, ben sapendo che il fare è sempre quello diventerebbe attività politica, mentre così rimane ideologia. Misticismo della politica. Che poi la storia se ne giovi, inserendovisi forze positive, Terzo Stato, o moto italico, o proletariato, che quella disposizione messianistica sia propria a polarizzare energie rozze, che diventi, così, un potente fattore storico, uno dei modi onde la realtà si trasforma, è vero, ma è un altro paio di maniche. Noi consideriamo qui non effetti ma cause, impulsi germinali, onde risulti una gerarchia di valori. Caratteristica dell'azione inferiore, questa, che ha bisogno di procedere per antitesi e negazione, anziché per equa intelligenza del passato;tanto è vero che proprio essa vale a muovere le masse: che, se l'intransigenza è, non pretenziosa e ingenua, ma calcolata a scopi tattici, mediocri o eroici, Rabagas, Marx, diventa politica dell'ideologia, demagogia.
Il difetto di presa sul reale si tradisce nella intonazione pedantesca e moralista. L'ideologia è sempre pedagogia, vuol portare (non negli illustri modi religiosi, di cui è surrogato) gli uomini oltre i moventi consueti, dagl'interessi agli ideali, dall'egoismo all'altruismo (sia pure Solidarietà o Iniziativa), colpevole anche qui di artificiosi dualismi e opposizioni. Perciò essi chiamano educativa la loro attività, diseducatrice la politica. Perciò l'ideologia è sempre sconfitta: serva, e caduca maschera delle forze sociali che, se ingenua, crede di dominare eticamente. E' Liberté Egalité Fraternité; è la delusione di Mazzini a sogno avverato, a Unità compiuta, che fa parlare all'apostolo di "fallimenti ideali"; è l'utopia del Collettivismo dei Sovieti: ma Marx e Lenin non sono sciocchi.
Gli accadimenti vanno sempre fuori del suo quadro, oltre il suo segno, ché essa è forza incontrollata, naturale e non demiurgica. La politica è invece, per definizione, l'attività che riesce: per questo è tanto odiata. Ha la saggezza della precarietà, della continuità, dei limiti: Richelieu, Bismarck, Cavour muoiono in piedi; la storia lì continua, non li nega. Il politico, se è cinico, ed è varietà infima, dice: non c'è che l'interesse, il resto è trucco, ed io mi regolo; se è penetrante comprende la vanità di questi schemi, supera il dualismo nell'unità di un'intuizione in cui l'attività non disdegna l'interesse, ma pone la sua gioia in un interesse più ricco, in una sempre più vasta visione di possibilità e di rapporti; non respinge, ma comprende e concilia, e però domina, le ragioni varie degli esseri, i modi della diversità compresi: così, non dalla opposizione, che è solo un termine del processo, dalla sintesi, lui demiurgo, la storia accade, la realtà procede.
C'è una insoddisfazione della storia che è oltre questo termine, che è sopra, che è sacra. È lo spirito che, asceso padroneggiando i motivi dal cieco impulso all'attività libera, ai fastigi del fare, sente dolorosamente sé altro dalla sottomessa realtà, chiede al proprio principio di procedere ancora, di scoprirsi di più. E' la morte, è la vanità cosmica. Il momento negativo, la crisi del vittorioso, la sua umiltà, la sua tristezza. E' l'immanenza, che anela a indiarsi nella trascendenza, e non sa. E oltre la Politica, la Religione. Non è pienamente uomo chi ignori questa virile amarezza, questo lievito forte dello smagato fare, onde il sorriso del dominato effimero non si traduce in inganno."Signor, chiamami a te, stanco son io". La tristezza del demiurgo è la più prossima a Dio.
È forse opportuna, per chiarire, rispondere preventivamente a due ordini di critiche generiche, a priori, che sono da prevedersi, oltre quelle specifiche sul merito delle nostre affermazioni.
La prima viene dallo spirito economistico (materialismo storico più o meno déguisé), il quale svaluta il nostro punto di vista, i presupposti del nostro giudizio, perché afferma, e sente e preferisce intimamente (economisti, sociologi, politici minori), la lotta politica primée dalla lotta sociale ed economica, quasi determinata meccanicamente da questa. Il terreno della disputa è, in fondo, benché non sembri, e non vogliano, psicologico e spirituale, perché nessuno nega, o almeno noi non neghiamo, che i contrasti economico-sociali abbiano importanza essenziale nella lotta politica, ne costituiscano la materia stessa; ma si tratta di vedere se l'attività politica che su quella opera ne sia mediata o mediatrice, esecutrice passiva o elaboratrice attiva. - Il nostro punto di vista è questo ultimo. Noi affermiamo che lo spirito politico si pone davanti alla realtà economico-sociale con indipendenza, anzi con superiorità, pur sapendo di dover fare i conti con essa; come lo spirito scientifico davanti alla natura. Per l'azione di secondo grado, per il demiurgo, sentimenti e interessi degli uomini sono natura, come per il tecnico-scienziato le abitudini della materia.
In linea di fatto, questa è la disposizione spirituale dei grandi statisti, i quali non pensarono mai di essere longa manus di interessi, ma servirono sintesi di secondo grado, Stato, Monarchia, ecc., in cui la forza bruta del popolo era organizzata e che appaiono (come la poesia ai pescicani) evanescenza o finzione agli uomini grossi. L'ultima radice del dissidio è nella gerarchia spirituale da cui moviamo, ove l'attività politica (e ciò che vi sta presso, ed oltre, poetico e religioso) è superiore al mero impulso economico alla ricchezza, o moral-pietistico alla "produzione". Ivi è lo spirito capitalistico, padronale o proletario, plutocratico o socialistico, cui, nonostante il mal digerito idealismo, tutti ancora si prosternano (specie quelli alla sua innegabile serietà più negati, retori, avventurieri, letteratucoli, vili giullari che sono): mentre conviene dominarlo dall'alto di una superiore umanità. Basti questo accenno, che svilupperemo altrove, che abbiamo già sviluppato, perché, come orientazione spirituale, è implicito ovunque; e proprio ora, elaborando la distinzione ideologia-politica, ne abbiamo presentato un aspetto.
FILIPPO BURZIO.
Replica a Burzio.
Veramente quando io, verso la metà di settembre, inviavo da Aosta all'amico Gobetti il mio articolo sulla monarchia, del saggio di Burzio non potevo conoscer altro che le due prime parti già pubblicate sulla Stampa. Nelle quali tuttavia trovando espressi i concetti fondamentali della trattazione; e d'altronde le delucidazioni e gli argomenti ancor ignoti essendo facilmente prevedibili, se non proprio nelle forme negli spiriti; non mi parve impossibile condurre un ragionamento critico, o meglio una modestissima discussione, sulla base della mia conoscenza compiuta. Né oggi mi pare che l'articolo di Burzio sulla Tribuna dell'11 ottobre, e la critica a Missiroli che vien pubblicata in questo numero della Rivoluzione Liberale, modifichino sostanzialmente i termini della nostra polemica. Come cercherò di provare, venendo a discutere i singoli punti della risposta di Burzio.
E, (tralasciando la valutazione di Croce e Gentile, sulla quale ci troviamo perfettamente d'accordo); dirò che le obiezioni da me avanzate contro l'eccessiva importanza attribuita alla "minaccia di Destra" conservano, a parer mio, anche ora tutto il loro valore. L'idolatria patriottica e nazionalista, con quei caratteri di sentimentalismo fazioso, di immaturità e di immoralità politica, che il Burzio esattamente descrive, se è vero che costituisce "l'unica etichetta unitaria" delle oligarchie finanziarie, industriali, giornalistiche, ecc.; non riesce tuttavia a concretare se non un consenso effimero, fondato sulla mancata definizione del contenuto specifico d'una parola, simile a quello per cui gesuiti e domenicani si trovavan d'accordo, come racconta Pascal, a condannare i giansenisti, accettando entrambi la denominazione di pouvoir prochain, pur conservando ciascuno per sé il diritto d'applicarvi un contenuto diverso. Mi par arbitrario, quindi, sul fondamento di un'apparente "religione della Patria", alla quale si dice che da tutte le parti si innalzino incensi, sebbene sospetti, attribuire alle oligarchie borghesi una tendenza anticostituzionale, che può essere tutt'al più velleità, del resto ancor poco chiara, di alcuni gruppi, trascurando quel complesso di sentimenti e sopratutto d'interessi, che possono spingere le forze maggiori e più serie di queste correnti nazionali e patriottiche, magari alla difesa della costituzione e della monarchia, e se non altro alla conservazione dello statu quo.
Perciò, come dicevo nel mio articolo, ogni tentativo reazionario e dittatoriale troverebbe, secondo me, i suoi avversari più solidi e meglio preparati, non tra gli eretici, ma tra i fedeli osservanti di quella religione che impaurisce il Burzio, come una minaccia antimonarchica. Perché, se la parola "Patria" fu veramente per alcuni fondamento di una rinnovata tendenza autoritaria e gerarchica, fu soltanto mito di riscossa antiproletaria per i più, che si troverebbero fortemente e seriamente danneggiati nei loro interessi da un'eventuale diminuzione delle libertà costituzionali. Io non negavo l'esistenza del fenomeno segnalato dal Burzio; negavo e nego che si possa dare ad esso eccessiva importanza, e sopratutto generalizzarlo come volontà e sentimento della borghesia. Scoprire sotto le forme classiche della lotta di caste una tendenza importante e diffusa a riagitare il problema istituzionale, può parer sforzo sofistico, appena giustificato dalla passione per l'argomento preso a trattare. Osservazione questa che ci introduce nel centro della nostra discussione, vale a dire ci sforza a parlare sulla funzione e sulla necessità della Monarchia in Italia.
Non mi pare affatto d'aver sorvolato, come dice il Burzio, sul punto essenziale del suo pensiero. Perché anzi dopo aver esposto, talora persino trascrivendo le parole stesse usate dall'autore, quel tentativo ch'egli fa d'inquadrare l'origine della monarchia italiana nella storia generale della formazione delle monarchie europee, e il successivo riconoscimento di una specifica differenza, e la riduzione di tutte le funzioni ad un compito "politico" d'unificazione nazionale; ho discusso tutto ciò a lungo dal mio punto di vista. Il quale non vuol esser altro, in fondo, che una difesa dell'interpretazione marxistica combattuta dal Burzio, nel primo articolo sulla Stampa. Tolti di mezzo la tutela, la sistemazione, il dominio delle forze economiche e sociali, è assai difficile, dicevo, definire il contenuto di quel "compito politico," che si vuol mantenere privilegio della monarchia. La potenza politica delle altre grandi dinastie europee derivò tutta dalla forza della classe in cui esse trovarono, come è noto, il loro fondamento; e il processo di unificazione nazionale venne a coincidere con la riorganizzazione sociale, e il predominio delle nascenti borghesie. Burzio dice: "Gli stati si sono sempre formati così; sempre hanno prevalso da prima, sui popolari, i fattori dinastico-militari-diplomatici .... Il popolo è sempre conquistato." In realtà, se si ricerca il contenuto di cotesti fattori dinastici, militari e diplomatici, ci si ritrova di fronte a quella realtà sociale ed economica - odi di classe, interessi - che si voleva escludere. Si ripensi alla guerra di Luigi XI contro i capi feudali ribelli. Burzio conosce queste antiche vicende meglio di me. Che cosa sia dunque cotesta funzione politica, che ricongiunge la storia d'Italia a quella delle altre monarchie europee, non so veder chiaro; e mi pare veramente che il Burzio, per usar le sue stesse parole, "abbia tastato il polso a un fantasma". Vero è ch'egli tenta di derivare e dedurre la necessità di questa tutela politica, anche negativamente dall'immaturità delle "presuntuose oligarchie borghesi", dall'incapacità costruttiva e governativa dell'Alta Banca, dalla mancanza d'una burocrazia mandarinesca e intraprendente.
Il che, mentre può essere una geniale valutazione e giustificazione della tradizione piemontese-governativa, non vale di per sè a dimostrare la necessità e l'utilità d'una monarchia italiana. Argomento eccellente per ribattere l'affermazione di Missiroli, che la soluzione cavourriana fosse "mediocre e approssimativa", la dimostrazione dell'immaturità dei ceti - non serve a farci scoprire nella monarchia una capacità insita e permanente di mantenere l'unità amministrativa e politica. Lasciamo da parte l'unità ideale e il consenso spirituale di Missiroli: ma quando manca persino un fondamentale e sufficiente accordo d'interessi, la possibilità d'una continuità governativa è affidata all'arte sottile e spregiudicata dei grandi uomini politici. "Un Sovrano saggio e un gran Ministro" son veramente cose di prim'ordine; ma non bastano per dimostrarci l'utilità, anzi la necessità, della Monarchia; non dico sub specie aeternitatis, ma neppure nella presente situazione quando ci accade d'incontrarli dovremo ringraziare il cielo; e riconoscere, come vuole Bacchelli, che la, "storia d'Italia è miracolosa". Senonché affidarci completamente alla sorte, senza tentare di costituire noi stessi un equilibrio più stabile e una continuità più sicura, può sembrar politica malaccorta e imprudente.
Cavour e, in grado minore, Giolitti costituirono veramente, in tempi difficili, un "punto fermo", e rappresentarono essi, ma non la Monarchia, quell'"efficienza d'un potere saggio, autonomo, superiore e moderatore dei partiti che, in Italia, son fazioni", di cui parla il Burzio.
Se è vero che in Italia manca una coscienza politica, o come altri dicono, una classe dirigente, non basta l'esistenza dell'istituzione monarchica a formarla, o meglio a sostituirla: basta solo quando si ritrovino quelle circostanze eccezionali che si sono avverate nei governi di Cavour e di Giolitti. Il passaggio dalla giustificazione della politica cavouriana-giolittiana, a quella della Monarchia è veramente un salto, che l'amore per la tradizione dinastica "secolare ed illustre" copre, senza nascondere. Questo mi pare il punto centrale del nostro dissidio ed è qui che si rivela, nel Burzio, quel gusto estetistico da noi additato, che non è niente affatto dilettantismo, ma solo eccessivo amore d'una posizione letteraria, a detrimento anche dei fatti concreti. Non certo noi vorremmo chiamar dilettante un autore, di cui ammiriamo, e già lodammo, la finezza d'osservazione e l'acutezza dell'indagine psicologica.
D'altra parte qui entra in campo l'ultimo punto della discussione: la forma e il metodo e il punto di partenza delle trattazioni politiche del Burzio: quella tale politica vera, o statale o demiurgica, che egli ci descrive, polemizzando con Missiroli e in genere con gli ideologi. Gli argomenti adoperati dal Burzio in questa polemica sono, a parer mio, sostanzialmente esatti, e particolarmente efficace è la descrizione della psicologia degli ideologi e della genealogia del loro stato d'animo. Il misticismo politico è abilmente smascherato sotto l'ostentato immanentismo e la posticcia veste filosofica. Senonché mi pare che l'impostazione stessa del problema - la trasformazione della critica di Missiroli in una critica generale delle ideologie - riveli un difetto sostanziale, che l'autore non si cura del resto di nascondere. La voglia di reagire al missirolismo spinge il Burzio a combattere, in politica, il procedere per via d'opposizioni e di antitesi, e ad esaltare una forma di condotta conciliante, comprensiva, superiore ai partiti, sintetica; quale può essere tutt'al più, qualche volta, la politica di governo. In realtà il procedimento per via d'antitesi e d'opposizioni è la forma naturale della lotta civile così come è naturale necessità per l'individuo anche se sia un grande politico, valutare la realtà circostante attraverso una particolare e unilaterale ideologia: essendo compito proprio soltanto della storia raggiungere una posizione perfettamente superiore e conciliante.
Si tratta perciò non d'abolire le ideologie, impresa, oltreché impossibile, inopportuna; ma di mutare in meglio il loro contenuto; sostituire, per es., a una falsa dialettica, la considerazione degli eventi sociali e delle vicende economiche: opporre al missirolismo il marxismo. Del resto, abbandonando le idee generali, e venendo all'esempio che il Burzio stesso ci fornisce, il suo odio per la politica partigiana, antitetica, esclusiva, intollerante è niente altro, in fondo, che una specifica predilezione per la politica di governo, la quale è anch'essa, per natural necessità, partecipe di tutti questi difetti, ma, almeno in apparenza, più agile e meno dogmatica. Anche il Burzio infatti, mentre vuole concretamente e oggettivamente valutare la sostanza degli avvenimenti, la guarda da un punto di vista unilaterale, e più precisamente conservatore e governativo. Che si traduce, nei suoi scritti di storia contemporanea, nella volontà di considerare le forze "che ci sono" vale a dire quelle che oggi "riescono", quelle che dominano oggi: esclusione d'un elemento imponderabile e notevolissimo - il futuro, che non può non riuscire dannoso anche per la valutazione stessa del presente. Ciò spiega come il suo saggio in questione possa essere insieme acquiescente allo stato di fatto e tendenzioso: contraddizione apparente da parte mia, reale difetto da parte sua; che non vale tuttavia, come già dissi, a farci dimenticare la sua qualità ed i suoi meriti.
NATALINO SAPEGNO.
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