IL CONGRESSO DEL PARTITO LIBERALE

    Se il Congresso di Bologna (8-10 ottobre) doveva darci la prova sperimentale della possibilità del sorgere d'un Partito Liberale, sia lecito dire che la prova è mancata. La proclamata costituzione del Partito - a far acclamare una costituzione siffatta, da un congresso, si arriva sempre, basta volere - ci lascia perplessi. È proprio vero che sia nato il Partito? e che sia nato vitale? Nasci oggi, nasci domani, questo partito sacro a Lucina è un nascere perpetuo. L'insegnamento che dal congresso potrebbe anzitutto ricavarsi sembra questo: che il liberalismo è - come si dice nel linguaggio dei chimici - "il Partito alla stato nascente", per definizione.

    La pregiudiziale scettica contro la possibilità di un partito liberale è nota. Quella che è da osservare al cimento attuale è dunque la tesi opposta. Orbene, che cosa ci diceva, alla vigilia del Congresso, nella nuova rivista liberale quindicinale Critica e Azione - che risorge a Bologna dalle ceneri di quella che si pubblicò dieci anni addietro a Milano, con a capo il compianto Caroncini e il Bergmann - che cosa diceva uno di coloro che affermava di credere possibile, utile e necessaria "la sistemazione del liberalismo a partito organico, autonomo, nazionale" (ho nominato Filippo Naldi), liberalismo non più "stato d'animo, tradizione e scuola", ma "complesso di cifre, elencazione di forme, somma di tessere e disponibilità di voti"!

    Liberalismo - diceva - è "larga e comprensiva coscienza politica", è "sopratutto dialettica"; "non è di destra né di sinistra", è "il giusto mezzo famoso di Cavour", "Mirare a questo equilibrio come a un fine, e servirsi per sospingerlo di posizioni ora di destra ora di sinistra, è ridurre il liberalismo alla totalità classica della sua funzione... Questa è coscienza liberale, non i1 programma stereotipo e parziale. La vita del nostro partito è nelle sue capacità dialettiche non nelle sue affermazioni dogmatiche. E' nella intelligenza e sensibilità varia dei vari momenti, non nella fissità di un decalogo, non nella concretezza di una posizione astratta, minima e parziale. Perciò, in un certo senso il liberalismo non ha limiti. Assorbendo anche i contrari, o facendo aderire gli estremi, cancella volta a volta i confini delle sue programmatiche differenziazioni, e li supera, creandosi realtà nuove su posizioni nuove".

    Vien fatto di chiederci: se così parla chi è assertore del partito liberale, che cosa resterà da dire a chi afferma assurda la pretesa di coagulare il liberalismo in un partito di tesserati? Dove sta la differenza essenziale tra codesta concezione del liberalismo e la concezione missiroliana di esso come metodo, come consapevolezza storica? Ma come conciliare quella stessa concezione a-programmatica con la pretesa di fondare un partito fra i partiti? Si può tesserare... la dialettica?


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    Delle tre giornate del congresso, le due prime se ne sono andate nel discorso se il partito dovesse chiamarsi liberale oppure liberale democratico. Un oratore che, come il sen. Albertini, osò richiamare i congressisti alla necessità di precisare punti programmatici (economici) capaci di servire di pietra del paragone tra liberali sul serio e liberali per modo di dire, fu vox clamantis in deserto. La paroletta democratica faceva l'effetto d'un cencio rosso alla taurina miopia degli irascibili destri, più a meno simpatizzanti o coi fascisti o coi nazionalisti. Democrazia - demagogia - nittismo - collaborazionismo - antistato - Satana! ecco la nuova serie dei sinonimi.

    Il programma, nel quale i promotori del congresso si erano sforzati di precisare alcuni punti fondamentali, rimaneva fuori della porta. (Fu poi approvato all'unanimità, quasi senza discussione). Siamo noi salandrini? ci sono qui dei giolittiani? - questo si domandavano i nostri bravi liberali. E per poco non si veniva alle mani e non si pensava a ricorrere al dialettico manganello delle "camicie kaki" ("squadre d'azione liberale"!!!). Infine Giovanni Borelli disse queste parole lapidarie: "Per due giorni io ho prestato attento orecchio e mi sono dovuto persuadere che il protagonista nell'animo nostro è ancora Montecitorio". E soggiunse: "Non è un atto d'accusa che io movo contro questo tristo istituto della vita italiana!" - parole, queste, molto argutamente applaudite dal giolittiano Filippi Naldi. E Giovanni Borelli, che si definì "estremissimo destro", esortò tuttavia ad evitare ad ogni costo una scissione. Se no - disse - "noi destri formeremo il sillabo dogmatico del liberalismo". Purtroppo, per la nostra curiosità di spettatori, una così bella occasione di vedere in azione il Sillabo dogmatico del liberalismo è andata perduta. Mi domando se non rimarremo così - per dirla con lo stesso Borelli - "in balia del mito, o meglio di quella folkloristica divinità fatale che allegramente coordina consensi superstizioni e crea la certezza psicologica contro la iettatura" (salv'ognuno).

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    Dopo di ciò peccheremmo di pedanteria verso i congressisti medesimi, se ci mettessimo, proprio noi, ad esaminare punto per punto il decalogo programmatico - accuratamente preparato dal prof. Giovannini, un liberista convinto, che fece tutti gli sforzi per richiamare la discussione su un terreno assai più problemistico - che i congressisti votarono unanimi, quasi senz'avvedersene, mentre si dividevano irremissibilmente sul nome del Partito "liberale", o "liberale democratico"! That is the question!





    Qui avvenne la... separazione. (E' proibito parlare di scissione: non scissione - dice, consolandosi tutto, il Corriere della Sera - ma assestamento, chiarificazione, maturazione non ancora compiuta. Speriamo in seguito). 21.000 si astennero e 12.000 si ritirarono, mentre 45.000 circa costituivano il Partito Liberale "senza aggettivi" -... cioè.. tendenzialmente destro.

    Infatti i liberali superstiti, dovendo pur finire per differenziarsi, si sono rivelati... conservatori. - Come dovevasi dimostrare! - esclamerebbe un missiroliano. Restano nel partito ora costituito, a dire il vero, anche i sinistri unitarii (che pure avevano nel loro programma la infausta parola "democratico"); ma restano perché hanno sacrificato un po' della propria individualità all'unità del partito: costituitosi, così, su un'equivoca reticenza nominalistica.

    Questa tendenza destra ha sùbito portati i suoi frutti; le tenerezze per i nazionalisti e per i fascisti hanno ricevute immediatamente due docce gelate. L'una, da parte dell'Associazione Nazionalista Italiana, che ha bellamente sconfessato l'on. E. M. Gray, il quale nel congresso auspicò che, in un prossimo avvenire, il partito liberale sia per comprendere anche le forze nazionaliste.

    L'altra, da parte di Dino Grandi, con un giudizio inequivocabile del congresso: "Questo congresso dei liberali - scrive egli - è il congresso degli equivoci, e della confusione. È un equivoco anche, e preoccupantissimo, la palese, ostentata e chiassosa simpatia per il fascismo, il quale in tutta questa faccenda non c'entra affatto". Ed aggiunge: "Non si è accorta, naturalmente, la borghesia liberale, che il fascismo distruggeva sì l'aristocrazia socialista, ma nello stesso tempo ereditava in pieno tutti i problemi concreti, nell'economia e nella politica, posta sul tappeto dal socialismo e dal socialismo lasciati insoluti... E quando i liberali, siano essi di destra o di sinistra, pretendono dimostrare che il fascismo è figlio del liberalismo, dicono indubbiamente una colossale sciocchezza, perché dimenticano che fra liberalismo e fascismo stanno quarant'anni di socialismo"; del quale il fascismo sta appropriandosi giorno per giorno tutta la concreta e storica funzione".

    La citazione è un po' lunga, ma meritava d'esser fatta. Queste parole del miglior ricercatore di chiarezza che abbia il fascismo, non so quanto piaceranno - per ciò che riguarda il fascismo prima ancora che il liberalismo - ai mussoliniani e ai gorgoliniani. Ma, tornando ai liberali, mi piace riferire ancora questo conclusivo apprezzamento del Grandi sulle due possibilità del Partito Liberale: "diventare, o un'associazione di cultura, o un partito di opposizione borghese e conservatrice". In questo secondo caso, "il partito liberale dovrà, di fronte al fascismo diventato partito popolare di governo, ricostituire l'antico partito conservatore e cioè antidemocratico, antifascista, contro il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale, contro l'organizzazione sindacale del lavora" ecc. ecc.

    Come ringraziamento per certe dichiarazioni d'amore al fascismo, non c'è male davvero. E non resta nemmeno ai liberali (quelli del Partito) la risorsa di offrire l'altra guancia, perché è già stata apprezzata, come abbiamo veduto, dai nazionalisti.


LUIGI EINAUDI