IL CONGRESSO SOCIALISTA

    Ne chiedo scusa a Gaetano Salvemini ma pur debbo constatare una cosa. Oggi come oggi, la "massa patrimoniale" di quelle idee che Salvemini agitò fra il 1902 e il 1904 ha soddisfatto parecchi cospicui legatarii: dal Fascismo al P.P. Ma - come succede in base a certi scherzi di testatori bizzarri - erede universale dall'eredità così saccheggiata e svuotata del meglio è Arturino Vella, pugliese, e una delle "personalità"del partito socialista italiano; intendo dire della frazione massimalista rimasta padrona dell'Avanti!, titolare dell'emblema falce e martello, ed esclusiva riservataria dei diritti d'autore sulla canzone "Bandiera rossa" nell'esercizio dei quali tre privilegi si assommano tutte le attività pratiche del massimalismo italiano.

La tendenza politica del Mezzogiorno.

    Scriveva il Salvemini nel 1902:

    Queste sono le due sole, le due vere tendenze del socialismo italiano: la tendenza prevalentemente economica nel Nord; la tendenza politica nel Sud, le quali si confonderanno nei periodi di reazione, quando il Nord sarà respinto indietro sulla via del progresso civile e andrà a ritrovare il Sud nella mancanza di libertà politica e nella impossibilità di lotta economica: ritorneranno a dividersi e contrastarsi fieramente, non appena la libertà politica dia ai socialisti del Nord mezzo di secondare le tendenze incoercibili del proletariato settentrionale.

    A Roma, nell'ultimo congresso, si è verificata esatta la diagnosi di venti anni fa. Mentre la sera del 3 ottobre il presidente faceva la chiamata dei rappresentanti delle Federazioni provinciali perché dessero il loro voto, a ogni nome di provincia meridionale seguiva un voto massimalista. Era il socialismo meridionale cha faceva la sua scissione. Al tavolo della stampa, Angiolo Cabrini, quando udiva la dichiarazione di Campobasso o di Bari, faceva qualche commento non tutto lusinghiero per la "organizzazione" socialista in provincia di Campobasso o di Bari: e mi costringeva a pensare, guardando quella sua faccia cordiale ed onesta di padano, che dal 1902 il socialismo non ha risolto il contrasto delle sue due sole tendenze, ma neppure gli Angioli Cabrini hanno fatto progressii nel capirne qualche cosa.





    Vero é che - in apparenza contro la diagnosi salveminiana - la scissione si é prodotta in un periodo di mancanza di libertà politica. Ma tenete presente questi fatti:

    1° Il "Nord che va a ritrovare il Sud nella mancanza di libertà politica" come nel 1902 accennava il Salvemini, c'è. Che cos'altro, all'infuori di questo, vuol dire la battuta in cui Serrati ogni tanto dà fuori che "bisogna propagandare il Mezzogiorno", che "bisogna rifugiarsi nel Mezzogiorno" Anzi - se è vero quel che mi fu raccontato, -- Serrati arrivò perfino a ripetere in una adunanza della Direzione, che "é meglio abbandonare alla furia fascista fin l'ultima cooperativa emiliana, e tentare movimenti di masse nel Mezzogiorno". Voi vedete che qui il poverello Partito Socialista si batte veramente il petto, e cerca di infilare la strada che venti anni fa Salvemini indicava: lascia finalmente il selciato della piazza del Duomo di Milano, abbandona - perché impossibile ormai - l'onerosa tutela di gruppi privilegiati del proletariato settentrionale, e ritorna alle posizioni del decennio 1892-1902: agitazioni di piazza per la conquista delle libertà di vantaggio generale per tutto il proletariato. Serrati, si capisce, non sospetta nemmeno di tornare, lui sì, veramente, al 1892. Serrati ha la testa piena della III Internazionale e di tante altre fanfaluche: ma, in mezzo a quelle sue frasi imprecise, è facile notare il "Nord che va a ritrovare il Sud nella mancanza di libertà politica".

    2° L'atteggiamento di Arturino Vella. Oh, dio, voi capite bene che bisogna essere indulgenti con dei "pensatori" come Arturo Vella. Questa paglietta barese, il giorno dopo la scissione, quando Treves, Turati e Modigliani se ne sono andati via, quando alla tribuna non c'è più da subire il confronto di eloquii più sonori e più forbiti, imperversa lui: arrivò perfino a citare Antonia Labriola!... Eppure, quello che egli sostiene ha un significato. Bisogna imprestargli qualche idea, bisogna innestare le sue espressioni monche sul tronco della tesi del suo paesano Salvemini: allora si vede che le necessità sociali del mezzogiorno parlano per bocca di tutt'e due, sia pure con efficienza tanto diversa.

    Che cosa vorrebbe dire Vella nei suoi sproloqui contro Serrati e contro Maffi? Sostanzialmente questo."Badate: noi del Mezzogiorno siamo sempre stati i veri intransigenti rivoluzionari (leggi: antiministeriali - anticollaborazionisti). Il nostro massimalismo (leggi: antiministerialismo) è vecchio di venti anni, è anteriore al massimalismo moscovita (giustissimo: i conti tornano: l'antiministerialismo di Salvemini dentro il partito risale a venti anni fa precisi precisi). Dunque finitela coll'andare a chiedere perdono a Mosca, finitela con le disquisizioni sulla III Internazionale (Leggi: finitela di occuparvi di cose lontane che non interessano affatto noi di Bari, che siamo obbligati ad essere più anticollaborazionisti di voi, perché i prefetti del regno sono arrivati fino a far ammazzare un mio compagno di lista sulla pubblica via).





    Questo Arturino Vella non è né un massimalista, né un rivoluzionario: é il solito socialista meridionale antiministeriale, che si disinteressa delle riforme sociali (e perciò vuole staccarsi da Turati) ma si disinteressa anche degli ordini di Mosca (e perciò fa i discorsi contro Serrati e Maffi). Vella vuole che i suoi compagni di lista non siano più abbattuti a revolverate dai "mazzieri": e siccome ha sempre veduto, dall'età della ragione, che i prefetti son mandati in Puglia con incombenze revolveratorie, si crede, nella sua povera testa, rivoluzionario: ed è semplicemente, come tutti e sempre i socialisti meridionali, antiministeriale.

Lazzari, il santone.

    Di fronte a questa ingenua affermazione dei dolori e dei bisogni del Mezzogiorno, che riesce a farsi strada fin attraverso le ciarle di Vella, il "progredito", "organizzato" e "civile" settentrione, insomma la "razza superiore", come la chiamava Salvemini, ancora una volta non capisce assolutamente niente. I capi dell'arte di non capir niente sono i Lazzari, Maffi e Serrati. Cominciamo da Costantino Lazzari.

    La testa di Lazzari é molto interessante. Dall'ossatura del naso due solchi profondi gli rugano le guancie fino alle estremità della bocca: e qui, i baffi spioventi, alla cinese, hanno fornito, a Scalarini il più bel modello di baffi alla proletaria, da usarsi nelle vignette in cui il pupazzetto del proletario è alle prese o con la guerra, o con la fame. I baffi, combinati con le rughe, danno al viso di Lazzari uno spiacevole atteggiamento di dispregio e di sospetto: è un uomo che da quarantacinque anni fa professione di dispregiare e sospettare le infinite "atrocità della borghesia", e ora il dio della borghesia, per castigo, gli ha deformato il volto con la smorfia propria di chi si accorge che il gatto di casa ha fatto i suoi comodi fuori della cassetta della spazzatura. Gli occhi sono appannati da un velo di artificiosa compunzione, e Lazzari li tien bassi come un cappuccino questuante: solo quando alla tribuna lo raggiunge la smanacciata dell'applauso, allora c'é in quegli occhi un lampo di soddisfazione virile. Quando ride, è sempre fuori chiave: non ha la risata franca o aperta: non sa ridere. In tutta la sua persona, non c'è nulla che somigli alla sanità provinciale di Zibordi o di Prampolini: c'è del sobborgo operaio e c'è dalla prigione.





    Mi affretto a dire che di tutte le varie prigionie sofferte in gioventù e sfruttate in vecchiaia da quest'uomo ne ho piene le tasche: come pure non posso sopportarlo quando egli parla untuosamente delle sue umili origini, della sua mancanza di studii, del suo passato di milite fedele del partito, eccetera. Quella di Lazzari é una canizie impudica, e quel Nestore da quattro baiocchi é inacidito e superbo. Lazzari, richiesto tempo fa di qualche cenno biografico sulla sua vita, cominciava così: "Sono nato il primo gennaio 1857 a Cremona da famiglia proletaria: padre di origine contadinesca e madre di stirpe nobiliare...". L'accento è sull'ultimo aggettivo, come voi sentite subito. Ogni accenno alla "famiglia proletaria" é un rimprovero a Treves o a Turati: ogni ripetizione della "mancanza di studii" é un confronto odioso con i laureati del Partito: ogni ostentato ricordo di tutti gli uomini di ingegno ch'egli ha incontrato in trent'anni di congressi, è una guardata di sbieco verso il contradditore, che, poveraccio, è talvolta un cafone tipo Arturo Vella.

    Al Congresso di Milano, Lazzari parlava del compagno Lenin con quella disinvoltura con cui oggi mille cialtroni dicono "Gabriele" invece di D'Annunzio: "Il compagno Lenin, allora., mi mandò a chiamare e mi disse: Guardate, Lazzari, che...", Lenin, o chi per esso, si deve essere accorto che aveva sotto mano un ex-commesso viaggiatore in apparecchi per riscaldamento: e gli fu estremamente agevole trasformarlo in un commesso viaggiatone della III Internazionale.

    Quel poco che Lazzari è riuscito a combinare nel suo cervello, è tutto scoria democratica. Il proletariato è sempre disperso e perseguitato, i popoli sempre fratelli, gli arabi di Libia sono oppressi, i Congressi socialisti segnano sempre una data storica nella vita del proletariato, la riscossa è sempre imminente, il proletariato è contrario alle guerre perché ama sempre gli altri proletariati. Si capisce che per quest'uomo, vissuto in strettezze economiche, senza conforti di coltura o di studii, senza possibilità di ascese personali, oltre i limiti del partito, la vita del partito diventi tutto: i Congressi sono le occasioni in cui si compensano le umiliazioni di tutto l'anno, e gli applausi dei compagni congressisti confortano delle mortificazioni subite nel gruppo parlamentare. Lazzari ha perciò scritto in testa tutti i diciannove congressi del partito: e quei diciannove congressi riassumono ed esauriscono, per lui, tutta la vita d'Italia.





    Crederci è per lui una necessità fisiologica: altrimenti schiatterebbe di bile compressa contro la "borghesia sfruttatrice". Perciò, alle vicissitudini, manovre e giochetti dei Congressi si dedica con passione intensa: egli in due minuti spiega come e perché l'Italia debba rinunciare alla Libia, all'Eritrea, alla Somalia, al Dodecanneso, ma difende per mezza giornata una aggiunta di una parola alla mozione di tendenza. Di fronte al fenomeno fascista, rimane sbalordito: in due anni non è riuscito a trovare altra spiegazione che questa: "A l'è tutt questión d'quattrin". Le sue metafore sono sempre queste: "tener alta la bandiera del partito," "reggere saldamente il timone della direzione," e simili. Parla sempre dei compagni "umili e buoni" che attendono "con ansia" le decisioni "storiche" di questa "assise del proletariato". Adopera da diverse decine d'anni, in tutti i suoi discorsi, queste due citazioni patetiche:

    "o più schiava, più vil, più derisa sotto l'orrida verga starà" "Cambia il maestro di cappello ma la musica l'è sempre quella".

    con l'e aperto, anzi sbracato: alla lombarda. Nel 1914, ha creduto di "mettere a posto" Mussolini. Nel 1922, è ancora venerato come il più antico santone del proletariato italiano.

Serrati, il pedagogo.

    Il lume a olio, nel vagone del treno che ci portava da Kuffstein a Berlino, non funzionava. Anzi: non solo non funzionava: ma gocciolava sulle coperte di due signore francesi, molto allarmate. I lumi a olio delle ferrovie per me son sempre stati un mistero, ed io mi guardavo bene dal mettere mano in quell'aggeggio. Gli altri quattro viaggiatori brontolavano, ma, si vedeva bene, erano nelle mie condizioni. Allora si alzò da uno dei posti d'angolo un uomo con la barba, e senza dir niente cominciò a sporcarsi le mani, cercando di ridurre quel lume a ragione. Quello che mi colpiva era la sua taciturnità, il suo accanimento per raggiungere uno scopo per cui io, nella gelida notte, non avrei affatto acconsentito di muovermi di sotto al plaid da viaggio, e infine la sua destrezza manuale. Quando ebbe messo in ordine le viti o che altro diavolo fossero, accese il lume, e al primo chiarore vidi che quell'uomo con la barba era Menotti Serrati. Con un discreto francese egli si volse alle due signore minacciate dal gocciolamento, e disse in tono pedagogico, come un maestro elementare che tira la morale da un raccontino: "Vous le voyez mesdames: il ne font jamais désesperer". Poi si rannicchiò nel suo angolo, e si addormentò.

    Nella faccenda della rivoluzione, certo, le cose non gli andarono così bene come in quella del lume a olio: ma però egli non ci ha risparmiato le sue massime, non ha rinunciato al suo fare da maestro di scuola, e adesso che il partito é disperso, l'organizzazione annientata e tutto a catafascio, son certo che Menotti Serrati si addormenta placidamente come dopo aver trionfato sul reazionario lume a olio.

    Ogni volta che incontro quest'uomo, non so difendermi da una viva simpatia verso di lui. Quando è lontano, posso scrivere che é un incapace: ma quando lo vedo e lo ascolto, mi quadra. C'è del ceppo, c'è della salda fibra: sarà forse perché parla il dialetto della mia regione - e lo parla schietto, con un accento che nè i viaggi nè gli esili sono valsi a sradicare - e io stimo molto la gente che conserva il suo dialetto: sarà per certe scrollate di spalle a me famigliari e care come il più bell'ornamento e il più bel tratto della genuina gente di Riviera quando vuol mandare i rompiscatole a farsi benedire da un altro chierico; sarà per la assoluta mancanza di posa, di falsa modestia, di compunzione santonesca, di arte complimentosa: insomma, sento che Serrati è una testa dura in un partito ricco di farinella - o in un paese che in quanto a farinella, ne ha l'identica proporzione di quel partito.





    Sapete cosa c'è in fondo a quella testa dura? C'è questo, io credo: il ricordo di lunghi e duri anni passati in giro per il mondo, a far vita grama: e l'orgoglio di sapersi allenato e rotto a riprendere quelle strade antiche, quando tutto fosse proprio perduto. Serrati é un uomo che non batte ciglio se domani gli capita addosso una condanna o un bando che te lo possono sbalestrare in Svizzera o in America senza un soldo, senza un amico. Si comprende perfettamente come egli si senta più forte dei suoi compagni che per vivere sia pure in questo reo mondo capitalistico hanno bisogno di Piazza del Duomo, del Caffè Guardabassi e dello studio pieno di carte o di libri. Questa superiorità pratica - che io gli riconobbi così bene quando, con la mano sicura dell'uomo che ha fatto parecchi mestieri, egli vinse il gocciolante lume - questa superiorità dell'arrangiarsi con le necessità della vita prima che con le giravolte delle idee, spiega tutto l'ascendente di Serrati in un partito di avvocati che non sanno aggiustare manco il manico di un macinino da caffè, e di funzionari sindacali, "organizzatori", o, come anche si dice "tecnici": tutta gente, che, in quanto alla tecnica spicciola, sono degni compagni per la loro iniziativa, al figlio dal fratello del Fruga, quel tale - come dice la leggenda -che gli venne l'idea di fare il manico alle bocce per giocare meglio.

    Bisogna combinare questa superiorità derivatagli dalle vicissitudini della vita, con il patrimonio di pregiudizi e di avversioni che Serrati ha tratto dalle sue origini, nato com'è da piccola famiglia di trafficanti rivieraschi: e allora si capisce il suo odio contro gli intellettuali - contro gli avvocati, - contro le persone che fanno professione di associare e dissociare le idee proprie e altrui. E' un vero odio. Potrei citare più di un caso di intellettuali nettamente messi alla porta da Serrati nel periodo della sua fortuna politica, senza ragione apparente, ma con quella ragione sostanziale, ch'egli ha nel sangue. Viceversa, quando gli pare che un intellettuale sia un generoso, che piglia le parti del "proletariato" quando il proletariato piglia le busse, allora lo solleva, anzi quasi è soddisfatto di saperselo accanto, si rimette a lui come sa pensasse: "costui è il mio procuratore legale in fatto di filosofia, belle lettere, ecc.". I suoi rapporti con Baratono erano di questo genere. Serrati perdonava a Baratono l'esser uomo libresco, perché vedeva che questo filosofo non si preoccupa dai manganelli. Uguale fondamento ha la sua considerazione per qualchedunaltro esemplare della specie baratoniana. Naturalmente procedendo a questa maniera egli ebbe delle grosse disillusioni, e si trovò più volte canzonato: e io lo vidi incontrarsi un giorno con uno di questi canzonatori, ed affrontarlo e pigliarlo per la cravatta con un impeto che mi piacque, perché rivelava tutta l'amarezza di un fiero uomo.





    Abbiate poi sempre presente per capire Serrati la limitatezza e in parte la grettezza 1igure, nel gestire gli affari. I liguri godono in proposito una fama usurpata: si confonde l'applicazione, l'attaccamento al quattrino con le vere e maggiori qualità. Fra i liguri, quelli di Riviera rispondono meglio al tipo antico di cocciuto e gretto mercante: e fra tutti i rivieraschi ce n'è una categoria, i commercianti di olii della Liguria Occidentale, che é la più notevole: perché la più pura da intrusioni extraregionali, perché quella legata da generazioni ad un ramo di produzioni e di traffico indigeno. Basta scorrere su un annuario l'elenco di quelli che "lavorano in olii e affini" per trovarvi i nomi più schiettamente liguri: e in fatto di liguricità il vecchio nome di Serrati dà un bel suono, come una moneta di buona lega. Menotti Serrati fu appunto questo: un "negoziante in olii o affini" nel socialismo. Dedicatosi alla politica con quella esclusività e con quella tenacia per cui i suoi conterranei non vedono nulla al di là delle loro fatture e dei loro comandi, vi portò precisamente limitatezza e grettezza: se avesse fatto il commerciante sarebbe divenuto un bellissimo tipo di "gancio" di Riviera: messosi a fare il rinnovatore del mondo diventò il più interessante esemplare di politicante settario. La sua paccottiglia marxistica è fatta di scarti, ma egli vi sta attaccato per paura d'essere messo nel sacco dagli intellettuali. Mentre il partito gli si liquefa fra le mani, egli continua a polemizzare per delle colonne col Lavoro... di Busto Arsizio. Io credo che per una "questione di tendenza", per uno di quei bei serviziali ideologici che sono il massimalismo, il centrismo, l'unitarismo, Serrati polemizzerebbe anche con suo padre e con sua madre, o li chiamerebbe traditori del proletariato. Del quale proletariato in carne ed ossa e cenci poi egli non capisce niente: e nulla sospetta dell'infinito bisogno di favole pittoresche, che lo punge, dell'amore ai dolori patiti, del desiderio di coreografie impressionanti, dell'attaccamento alle fanfare e alle nuove canzoni. Per fissare con un fatto tutta l'incapacità di Serrati a capire qualche cosa degli italiani, basterebbe quella sua misera "Dottrinetta razionalista", che spiega così bene il fallimento del suo autore.

    Forse è qui che dobbiamo cercare il segreto di una delle sue originalità. Serrati fu sempre un avversario di uno dei più rappresentativi fra gli italiani viventi: Giuseppe Giulietti. Il sentimento ch'egli provò sempre verso questo potente charmeur, verso questo Casanova della politica nostrana, fu quello della repulsione: e glie lo dimostrò sempre, coi detti o coi fatti. Io conosco solo tre o quattro italiani dei quali si possa dire altrettanto. Segnate questo dove volete, all'attivo o al passivo di Serrati - io mi diverto a non darvi nessun suggerimento; ma segnatelo, perché badate bene, è una grossa partita.





La futura Convenzione.

    Certo, questo troncone di partito che è rimasto attorno a Serrati, nasconde maggiore varietà di tipi che la confraternita turatiana. Un medico dittatore di un partito in nome di Lenin è, per esempio, uno spettacolo ghiotto: e ce lo offre il buon Maffi. La trasformazione che si compie in quest'uomo quando egli passa dalla conversazione amichevole alla discussione politica, è notevolissima. Quando è alla tribuna con le carte della III Internazionale in mano, gli si invetrano gli occhi, e presenta le sue richieste o pronuncia le sue minacce con tono epilettoide: quando non deve invece compiere nessuna "missione", è l'uomo più piacevole e più sensato del mondo. Tanto sensato, che, durante la guerra, arrivò fino a salvare, con astuzie legali o sentimentali finissime, dei militari su cui incombeva la pena di morte. Di questa sua arguzia privata, lo accompagnano nelle sale dei Congressi deboli guizzi: e attraverso il suo piglio domenicano, tratto fuori per l'occasione, acquistano riflessi addirittura macabri. Era uno spasso, nell'ultimo congresso, udirlo "scherzare" sulle qualità iettatorie che qualcuno gli attribuisce. "Per carità, lo interruppe pugliesemente Vella, non gli far del male a quello lì! È padre di figli, non lo rovinare! " E Maffi, fiero e tetro, con lo stesso tono con cui aveva fino allora annunciati i valori di Lenin; " Stai zitto te! Ne ho già ucciso degli altri, sai!". Un giorno, un tale lo invettiva con la parola "necroforo". Maffi gli si avvicina, e con voce che vien su dalle budella gli dice: "Ritira la parola! Per il tuo bene, ritira la parola!" - "Ma io non ritiro niente!". - "Te ne prego, ritira la parola! Due uomini me l'hanno già detto: Raimondo e Coda. Sta attento a quello che fai!".

    Queste sono le invettive e le celie di Danton e di Robespierre, trasportate nel paese di San Gennaro. Quando in Italia ci sarà un Comitato di salute pubblica, o una convenzione nazionale, o un Commissariato del popolo, noi udremmo gli "atleti della rivoluzione" minacciarsi a colpi di malocchio e di scarogna.

Il nuovo tradimento del Mezzogiorno.

    Ebbene, quel gruppo di settarii e di santoni cha ha in Maffi, Serrati e Lazzari i suoi tre primi attori, tradirà ancora una volta le necessità e le speranze del socialismo meridionale, come venti anni fa furono tradite dal riformismo sociale dei gruppi privilegiati del Settentrione. All'ultimo congresso, oltre il Vella, parlò qualcheduno esprimendo delle proposte precise, scaturite dalla esperienza personale, sulla situazione del proletariato meridionale: ma erano poveri goffi oratori, senza il "passato apostolico" di Costantino Lazzari, e così nessuno li stette ad ascoltare, ed i giornalisti non li onorarono neppure dei loro appunti.





    Staccatisi dal partito i destri, che rappresentano ceti di nuova piccola borghesia e categorie di funzionari sindacali e cooperativisti, il Partito socialista massimalista racchiude in sè degli istinti, delle inconscie tendenze a riprendere l'opera del decennio 1892-1902: opera che sarebbe tanto più facile, in quanto il distacco dall'impalcatura cooperativista settentrionale spunterebbe le armi in mano a coloro che, partendo dalla critica salveminiana contro le cooperative di lavori pubblici e contro il succhionismo dei gruppi operai privilegiati, arrivano alla condanna definitiva di tutte le plebi meridionali col "bestiame elettorale" di Mussolini. Si tratterebbe ancora di fare del riformismo non più graduale e sociale, ma politico: del riformismo, non collaborazionista, ma antiministeriale: della propaganda, non per la rivoluzione sovietica., ma contro i prefetti delinquenti, i ministri mafiosi, i mazzieri antichi e quelli nuovi. Ma Serrati e C. questo largo programma non lo comprenderanno mai. Essi si occupano dell'adesione alla III Internazionale, della missione da inviarsi a Mosca, e dell'alleanza russo-turca contro il capitalismo europeo: anzi cercano di scimmiottare lo spirito del comunista on. Graziadei, il quale fa una grande propaganda per i turchi, e gira per le sale di Montecitorio dicendo a tutti: "Si, é vero, all'interno siamo battuti, ma all'estero vinciamo. Per Lenin Mustafà Kemal Pascià, eia eia alalà!" E saluta "romanamente", come direbbe un cronista fascista.

    E così, fra lazzi comunisti e settarismo massimalista, gli istinti dei sedicenti rivoluzionari meridionali, sono sepolti vivi. Essi non hanno una forza sufficiente per esprimersi e per imporsi al partito socialista serratiano. E Arturino Vella pensa a una IV Internazionale, cui aderirebbero le sezioni di Bari, Molfetta, Bitonto, con l'obiettivo eminentemente rivoluzionario della sua rielezione: che, del resto, intendiamoci bene, per la plebe di Terra di Bari ha un interesse molto maggiore che l'adesione alla III Internazionale.

Conclusione.

    Data dunque l'incapacità della tendenza costante del socialismo meridionale a farsi valere nel partito massimalista, quello unitario ha buon gioco, nel comparire oggi come sostenitore di quelle libertà costituzionali, che in realtà Turati e i suoi amici trascurarono sempre di garantire anche a favore delle plebi meridionali, preferendo di rinsaldare le riformette sociali a favore dei gruppi privilegiati settentrionali. Si aggiunga che la distruzione effettiva di molte soprastrutture-cooperativiste del Nord, viene a dare molto maggiore libertà di propaganda e di agitazione al partito unitario. Cadute sotto i colpi fascisti le organizzazioni dei gruppi privilegiati, il partito unitario è riportato anch'esso sul terreno più favorevole di lotta: la lotta non per la difesa delle cooperative o degli uffici di collocamento dei gruppi liguri o emiliani, ma la lotta per la difesa delle libertà costituzionali, necessarie a tutto il proletariato italiano, compreso quello meridionale.

    Questo è un altro aspetto del "ritorno al Sud nella mancanza di libertà politica" di cui parlava Salvemini.


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