STUDI SUL RISORGIMENTO
La filosofia politica di Vittorio Alfieri 3.III. La gnoseologia.La metafisica della libertà si fonda, nell'Alfieri, su alcuni espliciti presupposti gnoseologici, coscienti e originali, non mai organizzati in una vera e propria logica e, tuttavia rimasti a ispirare ogni sviluppo ideale, come costanti convinzioni. Per questa gnoseologia, immanente e professata, l'Alfieri partecipa in modo originale, nel gran quadro della storia della cultura europea nel '700, alla creazione delle correnti di pensiero romantiche. La logica intellettualistica è tutta negata e superata nelle affermazioni concettuali che qui riassumiamo ed enunciamo e che poi cercheremo di intendere e valutare nel momento storico che rappresentano, e nell'unità dello spirito da cui sorgono. 1. Limiti del sapere umano: negazione della metafisica dell'essere e delle religioni rivelate. 2. Spontaneità e necessità dell'attività spirituale: lo spirito come conoscere. 3. Unità dello spirito come unità di giudicare e di sentire. 4. Carattere creativo del sapere scientifico: Limiti dell'astratta attività intellettuale. 5. Valore pragmatistico del conoscere. Necessità dell'azione. 1. - L'anima e la divinità sono per Alfieri cose che l'uomo non intende e intorno a cui si è lasciata fare un'opinione da altri (Della Tirannide, libro 1, cap. VIlI). Per altri devesi intendere i tiranni i quali dalla superstizione e totale ignoranza dei popoli traggon partito per ingannarli e impaurirli ottenendone cieca obbedienza. La religione come strumento di tirannide è invero un concetto tradizionale dell'anticlericalismo. Pare tuttavia che l'Alfieri ne intenda con profondità il fondamento psicologico e filosofico perché lo attribuisce non alla forza e alla violenza dei tiranni, ma alla loro astuzia nel conoscere il cuore degli uomini. L'asserzione nel suo valore sillogistico riconduce dunque alla premessa necessaria, qui lasciata sottintesa, che nel cuore degli uomini la religione viva di una certa realtà, corrisponda ad un'esigenza, anche se la soddisfi in modo illusorio. Il concetto è affermato altrove in modo ben più singolare: "Donde un error si svelle, altro sen pianti". (L'antireligioneria. Satira VIlI). E qui la frase scultoria mirabilmente riproduce il pensiero alfieriano nella sua doppia sfumatura. La religione come sistema, come rivelazione metafisica è un errore, ma il mondo se ne vale e non può farne a meno. False sono le religioni, falsi i dogmi, vera la religione, vero lo spirito religioso. All'esperienza etica, all'esperienza umana, si deve ridurre il criterio di valutazione e di giustificazione: per la logica e per la metafisica la conclusione è, anche nel Misogallo: "Indagar non dessi - Di Iddio mai nulla". Questa duplicità di atteggiamenti caratterizza limpidamente un Alfieri anticattolico e antivolterriano. La misura e il significato che ha preso per noi il suo antidogmatismo ci consentono di interpretarlo come posizione di critica contro il vecchio mondo medioevale. D'altra parte avremo agio di comprendere meglio le esigenze religiose nettamente moderne sentite dall'Alfieri e le riporteremo al valore etico che egli attribuisce, come abbiamo visto, al fatto della religiosità. 2. - La negazione stessa della metafisica rivelata reca già implicita in sé l'esigenza di una altra forma del conoscere a cui l'Alfieri possa credere deliberatamente. Sarebbe ingenuo, tuttavia, attenderci a questo punto da lui un'affermazione panlogistica che non troverebbe terreno spirituale adatto a un adeguato svolgimento. La sua forte individualità reagisce anzi violentemente alle costrizioni del formalismo razionalistico e cerca di tradurre in valori spirituali le aspirazioni del sentimento. Tornerebbe per questa via il pericolo della metafisica, della metafisica del cuore, della credenza, schiettamente mistica e ineffabile. Ma il ritorno non ha minore importanza del punto di partenza perché ci fa vedere l'Alfieri sollecitato dai motivi speculativi più elevati del suo tempo, incerto tra una posizione da critica che reca qualcosa di più profondo che non sia negli enciclopedisti, qualcosa, diciamo la parola, di Kantiano; e una posizione di pragmatista che riecheggia, originalmente, Rousseau e Jacobi. Da questi dissidi non risolti nascono le contraddizioni notate dai critici: eppure in questa perennità di contrasto (tra l'esigenza anarchica e l'esigenza sacrale; tra sentimento e ragione) risiede il segreto della sua grandezza libera dalle esclusivistiche intemperanze di due momenti antitetici, le quali documentano una malattia del secolo mentre egli supera la crisi e oscuramente intravede le soluzioni dell'avvenire. Questi concetti saranno più chiari quando avremo spiegato in qual senso si discorra qui di un pragmatismo alfieriano. Facendo sua una lucida visione del Machiavelli l'Alfieri riconosce nel tiranno un uomo superiore, capace di conquistare il dominio solo in quanto abbia inizialmente maggiore capacità intellettiva, ossia sappia penetrare e conoscere le inclinazioni degli uomini (Della Tirannide, libro 1, cap. VIII). Altrove si dà del tiranno altro giudizio: ma la contraddizione è solo apparente. Poiché accanto all'odio sacro l'Alfieri non riesce a soffocare una certa sfumatura di simpatia quando vede il tiranno nel suo sforzo di affermarsi, nel momento in cui crea la propria superiorità. Si spegne questa ammirazione dove la tirannide affermata diventa un'abitudine che la sola violenza, basta a mantenere: a siffatto tiranno l'Alfieri oppone lo scrittore, vindice di libertà, in pagine che paiono addirittura contrastare con il suo costante amore per la pratica (Del Principe e delle Lettere, libro II, cap. VII), ma di questa irrequietezza già si è data una ragione a priori. La necessità di scrivere per uno sfogo dell'anima "può spingere l'uomo ad essere quasi che un Dio" (Il principe delle lettere, libro II, capitolo 1) ossia scrivere per l'Alfieri è lo stesso che pensare, o pensare è agire. Ne La virtù sconosciuta, tale conclusione rimarrebbe dubbiosa. Nella Tirannide è limpida e sicura. Ripugna all'Alfieri, artista, ogni concezione estetizzante dello spirito: sentimento e ragione; pratica e teoria sono le forme dell'umana attività, ma tanto unite e coerenti che insieme prosperano in regime di libertà e insieme si corrompono sotto la protezione del principe. Poiché nel principato si può raggiungere l'eleganza del dire, ma non la sublimità e forza del pensare (Il Principe e lettere, libro I, cap. III). 3. - Anche nell'affermazione alfieriana dell'unità dello spirito non bisogna attribuire un valore tecnico: il problema dell'unità e dei distinti non s'è posto ancora nei termini teoretici e col significato preciso che oggi vi annettiamo: enciclopedisti, e cattolici muovono spontaneamente, senza discussione, dall'unità indistinta e immediatamente del senso o di Dio. Si tratta di una intuizione che scaturisce direttamente dalla forte individualità dell'Alfieri e da cui egli si sforza di dedurre tutte le conseguenze etiche. L'unità di sentimento e di pensiero ristabilendo come criterio di valutazione morale la categoria della coerenza costituisce presupposto teorico dell'agire secondo una concezione di intolleranza. All'esame intellettualistico che considera lo spirito secondo artificiali divisioni e rigidi casellari sottentra il concetto del giudicare come atto morale, il concetto dell'errore come immoralità. È vero che l'Alfieri non ha dedotto dalla sua scoperta chiare conclusioni, ma vi sono impliciti tuttavia i presupposti per una nuova etica costruita intorno al concetto di azione come esperienza interna invece che intorno agli schemi di una precettistica tradizionale. "Il giudicare e il sentire, sono uno: né senza affetto alcun giudizio sussiste, poiché ogni cosa qualunque o vista o sentita, deve cagionare nell'uomo, o piacere, o dolore, o meraviglia, o sdegno, o invidia, od altre; tal che su la ricevuta impressione si venga ad appoggiare il giudizio; e sarà retto il giudizio degli appassionati pel retto, iniquo al contrario quel dei malnati". (Misogallo, Prosa seconda). Proposizioni ambigue, che implicano problemi filosofici non adeguatamente risolti: ma attraverso molte incertezze si esprime chiaramente la negazione così del sensismo come dell'arido e freddo dogmatismo cattolico. E' una passione nuova che postula e intravede una nuova filosofia. Né è senza importanza che poco prima del passo citato l'Alfieri abbia un accenno ricco di efficacia contro i filosofi, o meglio "quegli impassibili egoisti, che oggidì questo sacro nome si usurpano". Nella negazione c'è un deciso intento filosofico. Nell'entusiasmo poetico s'è introdotto un principio di coscienza riflessa. 4. Sulla questione del sapere scientifico sono importanti i capitoli III e IV del libro III del Principe che il Bertana trascura e fraintende quando accusa l'Alfieri di non avere capito la importanza delle scienze e di aver negato ad esse ogni efficacia sul pensiero morale e sui destini dell'uomo (16). I suoi entusiasmi per il divino e grande Newton, la venerazione per Euclide e Archimede, l'ammirazione per Galileo e Cartesio "dalla civile e religiosa potenza perseguitati e impediti più assai che protetti" testimoniano decisamente il contrario (Il Principe e le lettere, Libro III, cap. III). Sublime chiama altrove la geometria, d'ogni altra scienza base e radice (id. libro II cap. IV). E tanto lo turba il pensiero dell'immensità delle conoscenze scientifiche (dell'astronomia sopratutto) che gli nasce in cuore un commosso accento di scettica ironia verso le cose terrene, non diverso da quello che ritroveremo in Leopardi: "Cose tutte invero grandiose, e per cui i Romani, credutisi signori del mondo, assai piccioli si troverebbero se potessero ora convincersi co' loro occhi qual menoma parte di questo globo occuparono, e qual minima dell'universo è dimostrato essere questo globo stesso dalla investigazione rettificata della universale armonia dei corpi celesti. Gran pascolo alla insaziabile umana curiosità; la quale pure, per quanto ai fonti della verità si disseti, vedo e tocca ogni giorno con mano, che quanto più si sa, più ne rimane a sapersi" (Il Principe e le lettere, libro III, cap. IV). Accanto a questo poetico entusiasmo troviamo una notevole definizione alfieriana della scienze che attesta in lui lo sforzo di determinar razionalmente il suo interesse: "Gli arcani e le leggi della natura dei corpi investigate o spiegate per quanto il possa l'intelletto umano". Invece non si parla più di intelletto, quando si definiscono le lettere: "Gli arcani, le leggi e le pulsioni del cuore umano, sviluppate, commosse e alla più alta utile e vera via indirizzate" (Il principe e le lettere, libro III, capitolo III). Questa antitesi è specialmente importante quando si chiarisca che cosa significhi per Alfieri la parola lettere: il problema è sfuggito al Bertana ignaro di studi speculativi: eppure qui è il segreto per intendere i due concetti enunciati. Tra gli esempi di cultori di lettere l'Alfieri non esita a porre accanto a Omero Platone: più che a valori artistici egli pensa dunque a valori filosofici che nella sua concezione attivistica necessariamente si traducono in norme d'azione e contano in quanto si inseriscono in una praxis sociale. Dove il Bertana vede una incomprensione c'è una limitazione cosciente che muove da una chiara gnoseologia: la critica del sapere scientifico è una vera e propria critica dell'intellettualismo. Della scienza l'Alfieri coglie mirabilmente il duplice limite e l'insuperabile relativismo a cui la conoscenza della natura per lo stesso processo da cui scaturisce è sottoposta. Il limite del sapere astratto in un sistema dell'unità morale é limpidamente determinato quando l'Alfieri nota che le leggi fisiche non offendono il principato e deduce da questa asserzione la sua teoria dei rapporti tra scienza e governo di principe. Notando il secondo limite l'Alfieri nega l'assolutezza del sapere scientifico; al criterio oggettivo della verità sostituisce il rapporto tra soggetto e oggetto come distinti e diversi, escludenti un termine superiore che li inveri nella propria assolutezza: spunto iniziale di una teoria essenzialmente romantica che ritornerà ancora, rinnovata, nel sistema crociano. Di fronte al dogmatismo scientifico settecentesco il concetto alfieriano riesce a una vigorosa affermazione dell'autonomia e dell'assolutezza del sapere filosofico contro tutte le riduzioni della filosofia a una serie di astrazioni sui dati della scienza. Nella concezione attivistica dell'Alfieri anche il sapere scientifico conserva tuttavia un suo valore assoluto; occorre meditare perciò diligentemente la sua distinzione tra il momento creativo della scienza e il momento del successivo progredire e diffondersi. Nel qual concetto si può legittimamente scorgere un principio gnoseologico di differenziazione tra il sapere scientifico come risultato, come materia, come congerie di cognizioni e l'atto dello spirito che lo crea. Vittorio Alfieri ha così vivo e profondo il senso dell'attività, della spiritualità del creare che sotto tutte le sue oscure intuizioni si avverte una fervida e costante adesione intima alla concretezza del fare, alla realtà dello spirito come esperienza, e questa riesce feconda anche se manca una base scientifica. Sapere per lui é veramente inventare, creare: e creare non si può senza libertà. Infatti, le "scienze, come ogni altra egregia cosa, ci derivano anch'esse dai Greci vale a dire da uomini liberi. E pare infatti che al ritrovamento dei principi nascosti e sublimi delle cose, si richiegga un così grande sforzo di pensare, che nel capo di un tremante schiavo sì alta e difficile curiosità non sarebbe potuta entrare giammai" (II Principe e le Lettere, libro II, cap. III). "Ma il semplice aggiungere alcuna cosa ai già scoperti e dimostrati sistemi e il far progredire la scienza, principalmente nella natura dei corpi, a parte a parte pigliandoli, in tutto soggiace alle vicende annesse al coltivare le verità non offendenti l'assoluto potere, come quelle che in nulla influiscono sopra lo stato politico e in nulla migliorano la proibita scienza del cuore dell'uomo". La distinzione posta è dunque tra l'intuizione sintetica dell'universo e l'astratta analisi dei dati empirici. Qui l'Alfieri è persino disposto ad ammettere l'utilità del principe in quanto egli aiuti lo scienziato per le "necessarie infinite spese, invenzioni ed esecuzioni costose di macchine, infinite esperienze, sterminati viaggi". Ma per il poco rigore con cui i due concetti sono sceverati, l'intellettualista (e anche in parte il critico equo) si trova di fronte a contraddizioni infinite appena voglia valutare integralmente questi spunti di teoria. Si può precisare la distinzione e togliere alcune incertezze rendendo più espliciti i concetti del significato pratico e del significato teoretico della scienza dialetticamente intesi. La scienza è attività teoretica in quanto è creazione e libertà (libertà di pensiero, superiore all'empiria politica, che si afferma contro gli ostacoli, anche sotto la tirannide: il pensiero dell'Alfieri già nella Virtú sconosciuta è in antitesi con lo scetticismo del Gori e ha dinanzi con piena chiarezza gli esempi di Cartesio e di Galileo). Il principe aiuta (o può aiutare) non questo processo di creazioni ma il momento pratico in cui la scienza viene organizzata e applicata secondo la sua utilità sociale. Questa seconda affermazione non è senza oscurità e non segue sempre coerentemente la limpida visione speculativa prima raggiunta della scienza come conoscenza creativa. L'Alfieri non ha visto il processo di obbiettivazione per cui la libera creazione spirituale si irrigidisce e si limita in un organismo di risultati schematici per la loro necessaria astrattezza. E così dilacerato di dubbi e di intuizioni non rigorose è ancora il capitolo III del Principe tutto animato invero di dialettica drammaticità che riproduce anche nel movimento ritmico e stilistico del periodo il corso di un pensiero torbido e chiuso illuminato a un tratto, per una sforzo interiore attraverso stridenti contraddizioni, dalla luce di una verità carpita con entusiasmo e stupore insieme al dubbio e non ancora dominata e svolta. "Mi viene ora osservato che parlando io dei capi-setta innovatori nelle scienze, me li conviene in gran parte sottrarre dalle leggi, a cui ho sottoposto le scienze stesse; e chiaramente vedo, che le loro vicende accomunare si debbono a quelle dei letterati; poiché, come filosofi, un così splendido loco riempiono degnamente fra essi. Questi pochi innovatori-creatori si debbono dunque in tutto eccettuare da quegli altri tutti, che nelle scienze esatte, dotti soltanto dello scibile, e facendo pure alcuni benché impercettibili passi più in là del di già saputo, si debbono quindi riputare come le vere ruote dei progressi delle scienze. Questi sono gli scienziati proteggibili e protetti: ed a questi, l'esserlo può sommamente giovare. Ma gli altri, come Euclide Archimede, Newton, Galileo e Cartesio, interamente corrono la vicenda dei letterati". Neanche qui il Bertana confesserebbe soddisfatta la candida pretesa di una base scientifica o di una organizzazione sistematica delle idee. Non c'è garanzia di fredda oggettività in questa frammentaria intuizione generata da un violento moto sentimentale: i limiti psicologici suggeriscono di definirla mera fantasia poetica senza filosofica importanza. Invece l'affermazione del carattere inventivo e creativo della scienza in un secolo di formulismo e di astrattismo basta da sola alla gloria speculativa di un pensatore, anche se l'affermazione non risolve poi, per una necessità che altrove abbiamo chiarita, tutti i problemi suscitati. Coesistono, è vero, accanto alla scoperta mirabile residui di dogmatismo scientifico, ma talmente lievi e sovrapposti che non turbano la visione generale, e in taluni errori si avverte talvolta fremere quasi un presentimento di verità. Si ponga mente per esempio quando l'Alfieri parlando dei movimenti dei pianeti dice che "le cagioni di tal moti furono assoggettate a inalterabili leggi dall'ingegno dell'uomo". V'è in questo "inalterabili" qualcosa di rigido che pare in contrasto con l'"affermato relativismo della scienza e col carattere creativo del sapere scientifico. Ma a dominare il contrasto ecco l'idea poderosa, profonda quant'è vivida l'immagine, dell'ingegno dell'uomo che titanicamente assoggetta a una legge liberamente creata e indagata i movimenti delle stelle. Immagine così forte non poteva scolpire chi non fosse tutto invaso dal pensiero dello spirito come perennità di creazione. Di pari efficacia e di natura identicamente speculativa é il contrasto tra l'entusiasmo per il disinteressato sapere (opera di libertà creativa) e il disprezzo per l'utile empirico che dal sapere può derivare (lusso e arti di raffinatezza). Ma la sterminata empiria dell'inesauribile sapere scientifico, non lascia pace se non si instaura l'impero di una trascendentale unità, che si alimenti, nascendo, dei primi dati naturalistici e venga purificarsi nella serena e comprensiva assolutezza della metafisica. "Che se le leggi dei moti dei corpi, scoperte e dimostrate, lusingano pur tanto la superbia dell'uomo, la ignota cagione di esse leggi e la sola terrestre generazione delle piante e degli animali, nascoste entrambe negli arcani di una profondissima notte, assai più lo lasciano avvilito e scontento". Il mero sapere scientifico non può liberare l'uomo da questo pessimismo. 5. - La risposta decisiva spetta all'azione e in sede sistematica alla teoria dell'azione. Ma il pragmatismo dell'Alfieri non è una confusione di elementi mistici, volitivi, sentimentali, psicologistici come la dottrina moderna che va sotto questo nome. L'attività conoscitiva conclude all'azione; l'azione poi non si intende come esperienza frammentaria, come fatto, ma è 1'ultimo grado perfetto e necessario della conoscenza; la conclusione di un organico processo razionale. Si tratta di un'interpretazione attivistica della conoscenza e di un'interpretazione razionale dell'attività. Il pragmatismo resta ai suoi primi ingenui e validi motivi, alle prime spontanee e insopprimibili esigenze. Sorge nello spirito dell'Alfieri come convinzione immediata e quasi impulso di psicologia individuale e solo a poco a poco pervade e informa di sè, attraverso un processo di coscienza concrescente, tutti i momenti della sua riflessione. Nella "volontà" di Alfieri, uno dei più discussi e tormentati problemi di psicologia biografica, c'è come il presupposto e il dato primo su cui si elaborerà questa convinzione. Ma non importa a noi accertare i limiti e i risultati della famigerata volontà alfieriana perché il problema biografico si è toccato qui solo in quanto è materia di speculazione filosofica e rivelatore primo degli impulsi originari della riflessione. La linea di perfetta coerenza dello sviluppo spirituale dell'Alfieri, la feroce intolleranza con cui deduce dalle proprie esperienze gli effetti più rigidi e più chiari, lo stato di incomprensione e di solitudine in cui egli deve trovarsi di fronte alla cultura contemporanea, come noi abbiamo rigorosamente dimostrato - danno argomento allo storico per accettare questa nuova metodologia. L'equivoco delle vecchie indagini non si abbattè per pregiudizi di natura letteraria e di metodologia erudita: invece le fonti valide del pensiero alfieriano si penetrano solo attraverso uno studio misurato e parco degli impulsi che definiscono la sua personalità. La sua cultura non è fatta di libri. E la validità storica delle sue osservazioni non si deve fissare con richiami eruditi, ma con aperte e ingegnose disamine delle sue contraddizioni. La Vita ci documenta esaurientemente il concetto che qui ci importa: ossia non la sua volontà, ma la volontà di volere. Il primo sforzo di teoria, il primo momento in cui la riflessione diventa un proposito speculativo si legge nella Virtù sconoscita (17) un vero piccolo trattato di etica, un saggio di morale eroica. Il concetto dominante del dialogo è preciso in queste parole di Francesco Gori: "A ciò ti aggiungea; che ufficio e dovere di uomo aitamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire; che ogni ben fare essendoci interdetto dai nostri presenti vili governi, e il virtuoso e bello dire essendo stato così degnamente già preoccupato da liberi uomini che d'insegnare il da lor praticato bene aveano assai maggior diritto di noi, temerità pareami il volere della feccia nostra presente sorger puro ed illibato d'esempio, e che viltà mi parea lo imprendere a dire ciò che fare da noi non si ardirebbe giammai, ecc." (La Virtù sconosciuta in scritti politici e filosofici, Paravia, pag. 200, 201). Le conseguenze pratiche di questo pensiero pessimistico (la rinuncia) non sono accettate dall'Alfieri che verso l'amico Gori e in atteggiamento di ammirazione polemica. Ma attraverso le sfumature della poetica espressione si avvertono qui quattro momenti concettuali che l'Alfieri accetta come agevolmente si può scorgere dal riscontro di altri passi e di altre opere. 1) la superiorità del fare sul dire espressa come mera tesi letteraria e quasi conferma della sapienza popolare: in questa primo momento il pragmatismo è poco più che un'immediata condizione sentimentale benché sia riflessamente espresso. 2) l'idealizzazione trascendentale del risultato empirico, la concezione eroica (ubermensch) dell'uomo liberamente operante che ha per termine la vaga lusinga della gloria e per intima realtà il forte sentire, che per ogni nostra vena e fibra trascorre e a tutti i sensi si affaccia (id. pag. 203). Il superuomo alfieriano ha una realtà etica concettuale nuova in cui il patriarcalismo dell'eroe greco e romano è direttamente superato nella figurazione di un'infinita e assoluta attività, che trova in sé il proprio fine: e nell'ascesi è ancora più puro che il martire cristiano da elementi utilitaristici e particolari. Tuttavia il concetto deve essere altrimenti inverato e ravvivato per generare una nuova etica integrale: il ripensamento si esprime in due sviluppi di razionale ampiezza e di conscia indipendenza. 3) il fare come conoscere: oscura possente intuizione che si sprigiona dalla affermazione fortissima, alfierianamente incisiva: "ufficio e dovere d'uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire". 4) negazione della conoscenza che non è creativa. Così soltanto si può intendere e limitare il pensiero "che de' libri benché pochi sian gli ottimi bastanti pure ve ne sono nel mondo, a chi volesse ben leggerli, per ogni cosa al retto e sublime vivere necessaria imparare" (id. p. 200). La nostra esegesi di questo pensiero che, accettato grossolanamente alla lettera, sembrerebbe invece bizzarro, è confermata dalla negazione della critica d'arte che l'Alfieri gli fa seguire; e che si deve intendere come cosciente svolgimento del paradosso iniziale: "benché corra adesso questa smania di belle arti, ed alcuni, nulla potendo essere per sè stessi, nè far del loro abbiano creata questa nuova arte di chiaccherar sull'altrui; tu sai che io sempre ho reputato esser questa una mera impostura; perché il vero senso del bello si può assai più facilmente provare che esprimere" (id., pag. 203). Dove l'ultima conclusione parrebbe addirittura aderire a un misticismo del sentimento. Parrebbe - ma in realtà il "provare" è per l'Alfieri (critico egli stesso e, del resto, deferente al Calsabigi) un modo di esprimere, è la ricreazione fantastica contrapposta alla divagazione erudita: la sua polemica s'appunta contro la pedantesca critica acritica che già nel Settecento (nel secolo di Baretti) rappresentava un mondo sopravvissuto - non contro quella moderna critica filosofica che ancora non era nata. E chi pensasse a possibili contestazioni per 1'assenza di un preciso linguaggio tecnico dell'Alfieri, rimediti i criteri metodologici già esposti e non dimentichi che nella Virtù sconosciuta abbiamo la dialettica fusione di due esigenze e l'Alfieri continua ad essere in posizione di polemica verso il Gori, anche se consente con le sue premesse sentimentali pessimistiche e ne esalta l'ardore pragmatista. Tutto il passo del resto è da esaminarsi in rapporto con la limitazione alfieriana della validità del sapere scientifico (utilitario o astrattamente analitico): ne riesce ancora più decisamente illuminato il vigoroso concetto del sapere come fare che esclude inesorabilmente il sapere come passatempo, come divulgazione superficiale, erudizione disgregata o ricerca di vantaggio pratico; e per i nuovi chiarimenti è fatto più preciso il presupposto su cui la polemica si fonda: l'affermazione dell'unità morale. Nella Tirannide e nel Principe gli sviluppi della dottrina conducono a tre nuove concezioni esplicite che, del resto agevolmente si deducono dalla Virtù Sconosciuta. Le posizioni e le antitesi sono troppo inesorabili perché nell'Alfieri non si trovi la più chiara coerenza e la più netta continuità di pensiero. 1. Il concetto del letterato come propagandista (non in senso illuministico, ma rivoluzionario) di libertà: che è il nucleo centrale del Principe e ha una forte espressione di carattere autobiografico nel sonetto conclusivo del Misogallo. 2. La riduzione della scienza della natura, dell'indole e delle passioni umane alla loro validità politica. In caso di rivoluzione gli italiani "che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie e nei diversi paesi dello stesso lor secolo la natura, l'indole, i costumi e le passioni degli uomini; quelli solo potranno allora con adeguato senno provvedere a ciò che operar allor si dovrebbe per il meglio; cioè, pel meno male" (Della Tirannide, L. II, cap. 8). E consiglia a tal fine ai pratici la lettura di Platone. 3. Infine l'approfondimento del concetto del letterato propagandista riesce al concetto del letterato attore, che, se ubbidisce a una possente esigenza autobiografica, non è meno valido teoricamente in quanto presuppone una coscienza dell'unità dello spirito così profonda che appena sarà conquistata qualche decennio più tardi dalla speculazione romantica tedesca. L'affermazione alfieriana, recando con sé una viva esperienza creativa, consente inoltre una valutazione adeguata dei valori individuali e del concetto stesso di individualità. Una citazione chiarirà la nostra esegesi: "E Bruto e Numa e Romolo stesso, erano, sovra ogni altra cosa, conoscitori profondi e scaltri commovitori del cuore umano e delle sue tante passioni; ciò viene a dire che costoro, in altre circostanze trovatisi, sommi scrittori si sarebbero fatti. A pochi uomini concede il destino di poter operare, e di giovar al pubblico in atto pratico col presente lor senno. Quindi, se alcuni di quei pochi a ciò atti, ed a ciò non eletti, si trovano dalle loro circostanze impediti di operar questi colla lor penna insegnano agli altri ciò ch'essi eseguir non potevano; alle vacillanti pubbliche virtù soccorrono ora dilettevoli aiuti: ovvero al vizio già trionfante e in trono muovono essi quella virtuosa guerra di verità, che sola può, smascherandolo, felicemente combatterlo e col tempo distruggerlo. Sono questi, a parer mio, i veri, anzi i soli scrittori; e i più perfetti reputo tra i loro libri quelli che maggiormente un tale effetto producono. Onde dividendo in questa stessa classe di uomini sommamente capaci a commuoverne e a guidarne molti altri; in letterati attori e in letterati scrittori; osservo che Roma nel fiore e nerbo della sua libertà, moltissimi dei primi ne annovera; o sono gli Orazi, gli Scevoli, gli Emili, gli Attili e Regoli, e Scipioni e Decj e Catoni; e quei tanti altri insomma grandissimi tutti, bollenti a gara d'amor di virtù, di libertà e di gloria, tre sacre faville, onde si deve comporre ed incendere l'animo di ogni grande e massimamente quello del vero e sublime scrittore" (Del Principe e delle lettere, libro III, cap. IV). La grandezza voluta con pessimistica inflessibilità, l'entusiasmo della disperazione: ecco sopra i motivi della chiusa solitudine diffusa nel dialogo Della Virtù Sconosciuta levarsi nel maturo pensiero del vate l'intuizione di un nuovo criterio di teoria umana - nella convinzione della caducità di tutti i dati dell'empiria, nell'eroica rinuncia dell'immanenza l'individuo è ancora eterno nell'atto in cui rende obbiettiva la sua divinità e crea perennemente rinnovellata nella catarsi dell'assoluto disinteresse, la libertà della storia. PIERO GOBETTI.
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