PER UNA SOCIETÀ DEGLI APOTI

II.

Creare una scuola libera.

    Caro Prezzolini,

    Continuare per cominciare è stato il mio motto da dopo la guerra, e mi, pare che veramente non fallisca, perché eccoci, quattro anni dopo la guerra, a ripetere le stesse cose che quattro anni prima. Anche allora ci si tormentava con l'eterna domanda: che fare? e anche allora le vie che si paravan davanti erano o parevano due: o l'ascesi o la battaglia, o la meditazione o la politica. Ed ora riprendiamo su Rivoluzione Liberale il discorso della Voce. Ma adesso è più urgente definir qualcosa, perché noi abbiamo quarant'anni, e i nostri amici di venti non stanno più alle mosse. Riprendiamo dunque il discorso, ma che sia breve stavolta, e che sia, soprattutto, concludente.

    "I nostri sforzi devono esser diretti a educare" scrivi tu a Gobetti, e Gobetti risponde insomma "educazione e cultura sì, ma anche azione e rivoluzione". E avete tutti e due ragione. E adesso vi spiego perché io con voi prenda la posizione dello Schiavo di Bari, e vi dirò insieme qual sia la mia idea sul nostro immediato programma d'azione.

    Quando si farà, con la storia della terza Italia, la storia della Scuola della terza Italia (che è poi tutt'uno) si vedrà che il fatto più notevole di tale periodo è stato questo: una classe dirigente che riesce a fare per sessant'anni una politica scolastica prettamente di classe. Non è mica vero che la nostra borghesia non abbia avuto una politica scolastica; ché anzi ne ha avuto una propria, di un rigore e di una logicità meravigliosa. Meta: l'università; scuola media àdito all'università; scuola primaria àdito alla scuola media; scuola elementare e scuola media scuole di cultura generale; centro e simbolo il componimento retorico; le scuole tecniche e professionali (normale e istituto tecnico), istituite via via per indulgere ai tempi, deformate e ridotte anch'esse nei fatti a scuole di coltura generale; gratuita per tutti, la scuola elementare frequentata per un pezzo solo da borghesi e fatta tuttavia per loro soli; semigratuita la scuola media e l'università col sistema della moltiplicazione all'infinito di tali scuole statali.

    Il popolo, la plebe, il proletario, se vuole e se può, va a questa scuola, e, ne percorra anche un grado solo, il risultato è sempre quello: vi entra popolo, plebe, proletario e ne esce, per via di quella tal coltura generale, borghese.

    Pensa alle note particolari di codesto sistema, misurane gli effetti, e dimmi se codesta politica scolastica non è politica di classe, e se codesta politica di classe non è un capolavoro di abilità, o se in codesta politica non si trova il segreto di tanta parte della vita politica italiana.





    La classe dirigente che ha fatto così aveva tutto il diritto di far così. L'Italia se l'era fatta lei col proprio pensiero col proprio sangue col proprio denaro; la plebe non c'era entrata per niente in quel travaglio, diritti a spartire non ne aveva e se le lasciavan le briciole era gran degnazione. Ma le briciole eran per lei in questo caso peggio che l'inedia, perché con l'inedia culturale la plebe, almeno, rimaneva se stessa; con quelle briciole si trasmutava, come pei lacrimosi farmachi di Circe i soci d'Odissea, è diventava... altra cosa da se stessa, tradiva sè e la causa sua.

    Adesso le cose si son mutate. Oltre a tutto il resto che noi sappiamo, c'è anche stata la guerra, e a fare, a vincere questa guerra ci si è trovata anche la plebe, ed a pagare il conto adesso pare che ci si voglia lasciare solamente lei. E così anche la plebe ha diritto di sedere a tavola con quelli che finora sono stati i dirigenti, e i casi sono due: o si mangia tutti o non mangia nessuno più.

    E nel campo della scuola, come in quello della politica (che sono poi tutt'uno) lo stato dì cose di avanti la guerra non può più durare.

    È vero che a un certo punto, visto che il gioco era troppo scandaloso, si è inventata la formula "scuola e vita": la scuola è la strada, la scuola è l'officina, la scuola è il cinematografo. Ma questo può essere una constatazione, magari una constatazione, ma non un programma; perché, a ragionar così, dove si finisce? Si finisca che la strada resta la strada, il cinema resta il cinema, e la scuola non è più scuola; e con la scusa che, tanto e tanto, c'è la vita e che la scuola non è nulla, si pensa a vivere (tira a campà) e la scuola si lascia che vada a rotoli.

    Adesso, davvero, è ora di finirla. Adesso davvero il popolo, il popolo come classe dico, deve avere non una scuola ma la sua scuola: una scuola in cui entri proletario e da cui esci proletario, in cui entri contadino e da cui esci contadino e così pastore e così pescatore e così operaio, migliore operaio, miglior pescatore, miglior pastore, ma pastore pescatore operaio sempre e non una mezza calza e un aspirante impiegato; lui e non un'altro.





    E poi avanti. Non basta a ciascuno il suo; la formula va bene per un catechismo liberale, ma per un programma di azione non basta. Dunque avanti, rivoltar la trincea, rovesciar la posizione. Anche alla borghesia, per il bene, dopo tutto, della borghesia, strappare via codesta inutilissima scuola di cultura generale, e darle invece una scuola che sia anche per lei una scuola di lavoro e non una scuola di retorica, una scuola interessata e non una scuola disinteressata, cioè campata in aria, cioè inutile, cioè dannosa.

    Questa nuova scuola, questa scuola riformata, non esiste solamente come aspirazione mia o di qualche amico mio; c'è per la sua istituzione un copiosissimo "materiale"; ci sono programmi, istruzioni, disegni di legge; tutto è pronto; vi han lavorato attorno, guidati da Salvemini e da Lombardo Radice, studiosi più insigni, studiosi più modesti, prima per mezzo della Federazione, poi, in gruppi isolati, per mezzo di riviste e giornali che tutti conosciamo.

    Ma, quel che più conta, ci sono, per l'istituzione e la gestione di questa scuola riformata, anche gli uomini, fra di noi. Se vogliamo definire nelle sue note caratteristiche l'Italiano del Risorgimento noi lo dovremmo chiamare "l'uomo maestro": Settembrini, Tommaseo, De Sanctis, per dir di alcuni dei massimi; e anche dopo la tradizione non s'è persa: Carducci, Abba; e sulla fine del secolo scorso con tante altre figure di allora, torna la figura dell'"italiano maestro": Croce, Gentile. E noi, piccola gente, che respiriamo di quest'aria, che cosa siamo insomma? Pensiamoci bene, se siamo qualcosa siamo appunto dei maestri. Ho nominato Salvemini e Lombardo Radice; ma tu stesso Prezzolini che cosa sei, pure senza laurea e senza cattedra? i tuo amici di Firenze non ti chiamavan per celia pedagogo? E i più giovani: Gobetti, Caramella, tanti altri, regolari o irregolari, non son maestri anch'essi? E la Voce e L'Unità e Rivoluzione Liberale non sono esse anche scuole libere, scuole alla greca?

    Dunque, riconosciuto il nostro vero essere, non è con ciò già risolto il problema del nostro agire? Amici nostri, quelli dell'Associazione del Mezzogiorno, mentre noi si discute, già ci han preceduti nell'azione: Lombardo, zanotti-Bianco, Isnardi son laggiù, in Sicilia, in Calabria a far scuole e asili per pastori, pescatori, minatori. Essi ci mostrano la via. C'è tanto Sud in tutta l'Italia, e non sono solamente i pescatori di Mazzara o i pastori dell'Aspromonte che aspettano la loro scuola, ci sono anche i maestri di tutti i contadini del Nord e gli operai dei suburbi di Torino e di Milano, e i piccoli borghesi di tutta Italia che aspettano qualcosa in questo senso, e tanto più attendono ora che capiscono come tante loro speranze sono andate deluse per manco di cultura autonoma, e di preparazione tecnica.





    E noi dobbiamo dare a questa gente la loro scuola; noi dobbiamo essere gli Scolopi della scuola riformata; noi ci dobbiamo costituire in una corporazione, in un ordine, sì in un ordine religioso, per la fondazione e gestione di queste scuole. E' la mia idea antica. Ricordi, Prezzolini, i miei due articoli sulla questione della Scuola Media sulla Voce del'13? Conquistare la libertà della scuola, e valersene per creare la scuola libera laica. Allora la chiamavo laica parché non mi soccorreva altra parola, allora parlavo con te di Ministero libero della Pubblica Istruzione, ma, insomma, allora presentivo quel che ora dico.

    Adesso l'idea mia si è precisata così: dichiararci costituiti in ordine per la fondazione di scuole e, naturalmente, fondare queste scuole. Fondarne una di queste scuole, una teorica o una normale o una popolare complementare, una sola, ma nostra e con gente nostra. Se arriviamo a farne una, il problema sarà risolto, poi ne faremo anche cento. Io ho provato da solo: ho provato a Breno, non ci son riuscito; sto ritentando con un amico a Cologna-Veneta, ma la cosa è già pregiudicata da un pareggiamento avvenuto di questi giorni; e poi da solo non si può; bisogna essere in parecchi, essere un gruppo, una società, un ordine, un ordine religioso.

    Ma la fede? Eh! la fede, in noi, c'è. Fede è bisogno di credere, è volontà di credere, e noi sentiamo questo bisogno, noi abbiamo questa volontà, quindi abbiamo la fede. Così l'avessero tutti quelli che portan chierica, ché le cose andrebbero meglio anche per loro.

    Ma quello che ci impedisce di agire nel modo che io dico, oltre al fatto di non essere ancor costituiti in ordine, è la resistenza passiva delle istituzioni attuali (parlo espressamente, delle istituzioni scolastiche) e degli interessi, vastissimi, che vi si incrostano attorno.





    Se anche noi domani si dichiarasse formato l'ordine dei nuovi Scolopi, ed avessimo per l'attuazione del nostro programma tutto quello che occorre, noi non riusciremmo, col regime attuale, a creare una sola scuola che fosse vitale. E tu sai perché.

    In questo dopoguerra ci sono stati in Italia due tentativi per conquistare la libertà di azione nel campo scolastico: uno è riuscito, l'altro è fallito. E' riuscito il tentativo fatto dall'Associazione del Mezzogiorno e dalle altre associazioni delegate per la lotta contro l'analfabetismo; è fallito il tentativo fatto dal Partito Popolare per la conquista del cosiddetto Esame di Stato.

    Il tentativo dell'Associazione del Mezzogiorno, mercé il quale Lombardo, Isnardi e gli altri, da due anni creano nel Mezzodì, in rime di libertà e di regionalismo, scuole elementari e asili, è riuscito perché per esso si è fatto ricorso a dei mezzi rivoluzionari, cioè all'emissione del Decreto Legge 28 agosto 1921, n. 1371, costituente l'Opera contro l'analfabetismo. Il tentativo del Partito Popolare per la libertà della scuola è fallito, perché per ottenere il suo intento il P.P.I., da buon partito di governo, ha dovuto ricorrere ai mezzi legalitari e costituzionali; tre volte don Sturzo ha tentato la prova, tre volte l'ha fallita, e ora, dopo il terzo insuccesso, il Corriere d'Italia, dicendo che nelle condizioni attuali parlar di libertà della scuola in Italia è far dell'accademia, ha tutta l'aria di voler dire che l'idea, anche in quelle sfere, è abbandonata.

    A questo punto tu hai già capito, dove io vada a finire. Tu Prezzolini insisti sulla necessità di legarci tra di noi con legami anche esteriori, anzi già parli della "Congregazione degli Apoti"; Gobetti ribadisce il chiodo del "mito di azione" o della "profezia rivoluzionaria"; io trovo che avete tutti e due ragione e dico che gli Apoti devono esser per ora immediatamente degli Scolopi, e aggiungo che, perché questi Scolopi-Apoti possano agire, bisogna che essi od altri faccian la rivoluzione. Dopodiché mi pare che la questione si potrebbe porre così: dobbiamo fare prima la Congregazione o prima la Rivoluzione? o, in altri termini: dobbiamo intanto costituirci in Congregazione, e, quanto alla rivoluzione, accontentarci di... pregare per essa? oppure ci dobbiamo mettere definitivamente in un movimento politico rivoluzionario, con l'intesa di valerci poi della rivoluzione per attuare il nostro programma... congregazionista!

    Che ne dici? Ho prevenuto quel che tu pensavi? o son fuori di strada? o mi perdo in inutili farneticamenti?

    Risponderai tu, o risponderà Gobetti, o, risponderà qualche altro: ma la mia idea fissa è quella: "creare una scuola libera".


    Addio. Tuo aff.mo


AUGUSTO MONTI.




III.

Difendere la Rivoluzione.

    Mio caro Monti, mio caro Prezzolini, La Rivoluzione Liberale è felicissima di discuter con voi di "Congregazione degli apoti" e di "Scuola libera". Ma quando dal problema particolare vostro, dall'idea concreta in cui esprimete una vostra esperienza, venite a teorizzare un programma e a porvi l'astrattissima domanda Che fare? allora dovete permettere che io vi interrompa anche a costo di parlare rudemente.

    Noi non siamo dei disoccupati; noi sappiamo benissimo che fare. Sappiamo risolvere senza incertezze nel nostro spirito pratica e teoria. Non abbiamo fatto la guerra, ma l'abbiamo respirata nascendo, ne abbiamo imparato un realismo spregiudicato che liquida per sempre i romanticismi dei precursori, di voi che siete ancora i nostri compagni, i nostri fratelli maggiori, ma terribilmente malati della vostra stessa precocità. Noi amiamo troppo La Voce vera, per non saperci distinguere e per non saper rinnegare i sogni ingenui della Voce, che furono bell'e fecondi, non per sè, ma come illusioni suscitatrici di risultati, e che oggi sono inutili, e segno di un'inquietudine malsana. Non già che si sia diventati saggi, e composti, o che abbiamo rinunciato a fabbricare nuovi mondi, ma sappiamo di doverli costruire con disperata rassegnazione, con un entusiasmo piuttosto cinico che espansivo, quasi con freddezza perché ci giudichiamo inesorabilmente lavorando, e conosciamo benissimo i nostri errori prima di compierli e li facciamo deliberatamente, di proposito, sapendone la fatale necessità. Costituendoci ogni istante l'oggetto nuovo della nuova fede abbiamo imparato l'ineluttabilità e insieme l'inutilità della fede. Disprezziamo i facili ottimismi e i facili scetticismi: ci sappiamo distaccare da noi stessi e interessarci all'autobiografia come a un problema. L'azione diventa dunque una necessità di armonia: noi abbiamo una sola sicurezza: la responsabilità, e un solo fanatismo: la coerenza. Preferiamo Cattaneo a Gioberti; Marx a Mazzini. Siamo estranei allo spirito del Vangelo: Cristo non ci ha insegnato nulla: se non il sacrificio; ma noi vogliamo un sacrificio più disinteressato (dite pure, se vi pare, più inutile), senza speranze. Ci sentiamo più vicini alla disperazione del Vecchio Testamento; la sicurezza di esser condannati, la crudeltà inesorabile del peccato originale, volendo usare forme mitiche di espressione, è la sola che ci possa dare l'entusiasmo dell'azione, con la responsabilità, con il disinteresse. La nostra volontà è serena, la nostra moralità necessaria perché non abbiamo più bisogno di Messia. Tutto è crudelmente uguale, ma perché la tragedia sia perfetta bisogna pure che ci sia chi si sacrifica, chi insegua, con arido amore, il suo ideale etico. Voi capite che qui al posto del dilettantismo e dell'ingenuità incantata e del propagandismo noi abbiamo messo il pessimismo dell'organicità; non siamo più degli eroi, fosse pure con la malizia ottimistica di Don Chisciotte; ma degli storici disinteressati (artisti) nel senso di Machiavelli che sa trovare la stessa eticità (praxis) in Callimaco, in Castruccio Castracani e nel Duca Valentino e discutere con lo stesso impegno e la stessa serenità indifferente l'impresa della Mandragola e le sue legazioni; trattandoci nell'un caso come nell'altro di far prevalere l'astuzia e attività, (serena, eroica, etica) contro l'inerte ottimismo di qualche messer Nicia (non vi siete mai accorti che frate Timoteo è per M. un personaggio simpatico?).





    Ora nella Voce accanto al realismo da cui è nato, poniamo, Amendola, c'era ancor troppo Lemmonio Borea ed è inutile ricordarvi che "Lemmonio Borea" è diventato con perfetta coerenza l'Iliade del fascismo. Quando ci si incomincia a chiedere: che fare? bisogna proprio convincersi che si è in quella posizione di disoccupati, astratta, frammentaria, immorale, umanistica, che definisce l'intellettuale in Italia e presto o tardi bisognerà andarsi a ritrovare in qualche garibaldinismo, o legionarismo, o fascismo. Io temo, da qualche tempo che nel gentilismo (non in Gentile uomo che è così simpatico, rude cattolico, intransigente, settario; ma nel Gentile dei Discorsi di Religione e di Guerra e fede e di Dopo la vittoria che è poi una sola cosa col Gentile nazionalista) ci siano tutte le premesse per il perfetto dannunzianesimo. Se si dovesse, caro Prezzolini, risalire a certe responsabilità della Voce del'14? Io ti confesso che non me ne sento il coraggio tanto mi son abituato a considerarti insieme con gli altri tre miei maestri Croce, Einaudi e Salvemini, la più perfetta antitesi del dannunzianesimo.

***

    Tutto questo discorso può forse sembrare generico ma spiega perché le proposte di costituirci in congregazione o di pregare per la rivoluzione, finché sorgono così a caso, ci lascino più stupiti che curiosi. Creare una scuola libera? Ma questo è un altro problema, un altro proposito che in un uomo come A. Monti si può considerare con qualche fiducia sinché egli ci descrive le sue esperienze (vedrete il suo libro Scuola classica e vita moderna, che stiamo stampando), ma che incomincia a non esser più evidente appena si fanno programma per l'avvenire. Verrà l'esame di Stato? Potrebbe anche darsi: ma per me e per il progetto di Monti l'esame di Stato non è nulla finché non si sopprimono metà delle attuali scuole medie: e a questo certo non si verrà. E dove sono gli uomini maturi per insegnare nel modo nuovo? Ha ragione Monti; Prezzolini è uno dei più singolari educatori nostri, e con lui Ansaldo, Papafava, Emery, Formentini, Caramella, Fubini, Sapegno e cento altri; ma educatori, almeno per quel che se ne può giudicare sin qui, in quanto facciano ciò che fanno, studino, pensino e scrivano articoli, libri, conferenze, ecc. La Voce, L'Unità, La Rivoluzione Liberale sono scuole libere, scuole alla greca, ma finché restano La Voce, L'Unità, La Rivoluzione Liberale e in questi organismi si limitano le esperienze di maestri di molti di noi. Sapremo fondare utilmente delle scuole? E' un'altra cosa: possiamo provarci, appena ne sentiamo vivamente il bisogno: ma sia ben inteso che il cimento è tutto diverso da quel di prima; si tratta di fare una cosa nuova e bisognerà ben vagliarne l'utilità e gli effetti, che potrebbero anche essere tutt'altro che felici. Io, per es., non ho nell'istituto scolastico tutta la fede che ha Monti, forse perché non ho, come Monti ha, il mio liceo, frutto di vent'anni di lavoro: e Prezzolini, Ansaldo, Emery e tanti altri saranno per l'appunto d'accordo con me. Ad ogni modo fondare delle nuove scuole, checché ne pensi l'amico Monti, non è più rivoluzionario che il far una rivista nuova; ossia non è che un elemento del processo delle iniziative e bisogna tenerlo al suo posto, nei suoi limiti, senza attribuirgli nessun significato palingenetico che lo trascenda, altrimenti tutti i nostri sforzi di autonomia si distruggeranno da sé medesimi. Discutiamo di scuola; vediamo se siamo capaci di fondar noi le nostre scuole riformate: il tempo ci mutererà: i risultati verranno, ma queste sono soltanto le premesse dell'elaborazione.





    Ecco il punto: bisogna smetterla con le inquietudini e le conclusioni ed enunciare delle premesse, invece che dei programmi. Siamo rivoluzionari in quanto creiamo le condizioni obbiettive che incontrandosi con l'ascesa delle classi proletarie, indicataci dalla storia, genereranno la civiltà nuova, il nuovo stato: ma non perché ci mettiamo a bandire la rivoluzione, a darne il segno in un articolo di giornale o in un discorso alle masse: anzi la nostra posizione è così delicata e curiosa che noi ci guardiamo bene dal parlare alle masse, temendo che per esse le nostre parole diventino una rivelazione illuministica dall'alto che ne interrompa il salire autonomo.

    Potremo formare la congregazione degli apoti? É una proposta che non sappiamo respingere ma nemmeno accettare senza diffidenza. Bisognerebbe prima che Prezzolini ci dicesse bene che cosa vuole: noi non abbiamo nessuna smania di costituirci in ordine chiuso anzi vogliamo essere più aperti che mai e l'inventario si farà tra cent'anni; i frutti li raccoglieranno gli altri e saranno diversi per fortuna da quelli che oggi speriamo.

    L'ordine chiuso per noi sarebbe una punizione di difesa: la potremo assumere, ma in un caso specifico, in una necessità concreta. Per esempio di fronte al fascismo. Mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi non ci siamo mai sentiti tanto ferocemente nemici di questa intellettualità delinquente, di questa classe bastarda, bollata così definitivamente da Marx e da Sorel e in Russia dai bolscevichi. Sapremo mostrare come ci distinguiamo da questi parassiti anche a costo di ricorrere alla tattica anarchica di insurrezionismo armato, se pare il fascismo non si risolverà allegramente in una palingenesi ottimistica di democrazia e di riformismo. Di fronte a un fascismo che con l'abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione. Mi scrive Papafava dalla Germania le stesse cose: per una possibilità di tal genere, dice, è pronto a ritornare per menar le mani: vedete, noi sappiamo benissimo che fare. Ci sono oltre questa altre vie aperte, altre possibilità? Benissimo; limitata in questo senso la ricerca è utilissima e ringraziamo Prezzolini di aver cominciato la discussione e preghiamolo di continuarla.


PIERO GOBETTI.