NOTE DI POLITICA ESTERA
Io sono uno dei cinque o sei italiani che in questo momento non hanno un piano di politica estera da offrire al nostro ministro, un piano tale che d'un tratto, dalla posizione in cui ci troviamo, dimenticati dall'Inghilterra, disprezzati dalla Francia, sospettati dalla Piccola Intesa, non calcolati dalla Turchia, detestati dalla Grecia, e indifferenti a tutto il resto del mondo, sia capace di sollevarci a quella posizione autorevole, importante; solenne che si addirebbe, secondo la nostra pubblica opinione, ai nipoti di Machiavelli e ai pronipoti di Giulio Cesare. E dico anche che se questo piano lo avessi, nessun ministro fosse pur abile navigatore di fortuna come Venizelos e ciarlatano magnifico come Lloyd George, riescirebbe ad eseguirlo, perché nessun ministro può fare vino coll'acqua, e quando si ha una opinione pubblica come la nostra, c'è poco di serio e di buono da concludere. Con ciò non intendo concedere un bill di indennità ai parecchi ministri che si sono succeduti, con i bei risultati che sappiamo, alla Consulta; vari di questi parecchi hanno aggiunto alle cattive carte che avevano anche la loro inabilità a giocarle; si può essere senza briscole, ma non c'è bisogno di regalare i carichi all'avversario. Con ciò intendo soltanto notare, come farebbe uno spettatore, alcune caratteristiche della politica estera italiana, la quale come tutte le politiche estere, non dipende soltanto dai ministeri, ma trae la sua forza e il suo colorito anche dalla pubblica opinione. Ed ecco le caratteristiche che io ho notato. L'italiano medio, dopo la guerra ha in odio tutto il mondo. Mi avviene di parlare con stranieri. Se sono Francesi, mi domandano perché la Francia è così detestata in Italia. Se sono Inglesi, mi chiedono perché non siamo amici. I Tedeschi riconoscono che posson viaggiare in Italia senza sgarbi, anzi personalmente bene accolti; ma basta un nulla per far risorgere l'attrito. Non parliamo di Jugoslavi, con i quali si parla apertamente di fare la guerra; e dei Cecoslovacchi che essendo legati fraternamente agli Jugoslavi, ne sposano simpatie ed odii. I Russi reazionari ce l'hanno con noi per i contatti con i Soviet; e quelli rivoluzionari ci osservano con diffidenza per le relazioni che conserviamo con i reazionari. Insomma l'Italiano è in broncio con tutto il mondo. Con l'America perché ha il cambio alto e con la Russia perché lo ha basso; con l'Inghilterra perché ha preso un'indigestione a Versailles, mentre l'Italia ha avuto appena una colazioncina: con la Francia perché non lo considera abbastanza, e con la Turchia perché non lo considera punto. Se questi movimenti di animo si dovessero tradurre in atti di politica estera, l'Italia dovrebbe fare la guerra alla Piccola Intesa, strillare contro l'Inghilterra, mandar proteste alla Francia, tener sotto i piedi la Germania, rompere ogni relazione con la Russia, e non pagare i debiti agli Stati Uniti. Un'altra caratteristica degli italiani è di fare dei trattati, per mostrarsi subito contrari. Appena un trattato è firmato, eccolo per ciò stesso diventato impopolare. In generale, i trattati sono matrimoni di interesse, doti che si sposano o per raddoppiarsi o per non diminuirsi in una lite dispendiosa. I mariti di buon senso e le mogli di carattere cercano di renderli possibili, se non con l'amore, che non si comanda, almeno con la cortesia e con il rispetto della parola data. Gli Italiani invece sembra che facciano apposta a invelenire la piaga. Non solo si fanno critiche ai trattati, ma si propone di non tener fede, anzi persino di opporsi, a mano armata, alla loro esecuzione. Magari queste minaccie non han seguito; tutto finisce in telegrammi di protesta, in un articolo di giornale, in un discorso al Parlamento. Ma intanto l'atmosfera è avvelenata; i sospetti sono nati, coloro che hanno concluso il trattato restano sospesi, impressionati e con l'armi al piede. Il buon effetto dei trattati, che come in ogni convenzione tracciano un linea di mezzo fra due desideri opposti, svanisce; e mentre dovrebbero portare alla pace da ambe le parti, suscitano in tutte e due la speranza della rivincita, poiché ogni parte si sente ingannata. Noi riesciamo molto bene, poi, in una cosa quasi unica al mondo: ad essere amici dei nemici di quelli che dovrebbero essere amici; e ci sdegniamo poi se questi amici non ci guardano con troppa soddisfazione. Lo facciamo con una specie di ostentazione e di civetteria che dimostra proprio un gusto per l'arte di romperla. Cito un esempio, i senatori hanno approvato il Trattato di Rapallo: io non discuto se han fatto bene o han fatto male. Dico che l'hanno approvato. Gli stessi però sono disposti a entrare in un Comitato Pro Montenegro o a firmare una petizione Pro Montenegro alla Società delle Nazioni. E' evidente che questa non va d'accordo con l'altro. Non si può accettare un Trattato fra noi e gli Jugoslavi e nello stesso tempo sollevare contro gli Jugoslavi la questione montenegrina. Io non intendo discutere questa questione. Non faccio politica estera. Non ho alcuna responsabilità politica di governo, di parte, di gruppo. Dico che è contraddittorio, e che l'una azione uccide l'altra, e quando si fanno tutte e due non si segue già una politica, ma si segue nessuna politica. E' l'arte di essere spiacenti a Dio ed ai nemici suoi. IVNell'animo di molti Italiani medii, dopo le delusioni della pace, è nata anche una specie di mania di persecuzione. Essi credono volentieri che l'Inghilterra ci ostacola, che la Francia ci invidia, che la Germania ci vuol sottomettere, che la Grecia ci insidia. Se le cose andassero così, povera Italia! non ci resterebbe che chiudere bottega. Quale paese mai avrebbe la forza di resistere ad una serie tale di antipatie, di urti, di ostilità, di insidie e di invidie? Ciò avvenne alla Germania nel 1914. Si capisce, è umano, che effetto di tutte le delusioni avute nel dopoguerra, sia un sentimento di questo genere. Ma esso dimostra una scarsa conoscenza di quello che è la carta mondiale e il gioco delle forze politiche. La cosa grave per l'Italia non sono le antipatie e le invidie. Ci sarebbe quasi da augurarci di avercele, perché ciò significherebbe che noi contiamo più di quello che effettivamente contiamo. La realtà grave è che l'Italia sia quasi indifferente a tutti. Essa non solo non conta quanto credono gli ammalati di mania di persecuzione, ma conta purtroppo meno di quanto vale e può realmente. Nel loro delirio di grandezza molti italiani si immaginano di essere circondati da una alleanza accerchiatrice e soffocatrice, che ora vuole diminuirci nell'Adriatico, ora sopprimerci nell'Oriente. Il male è che le nostre umiliazioni in politica estera ci vengono invece dal sentimento generale assai diffuso, che noi non contiamo quasi nulla; certamente meno di quelle, che potremmo. Ora, senza assolvere, ripeto, vari ministri degli esteri, io credo che la colpa più grave sia in questo stato d'animo generale di irrealtà. Noi, i pretesi nipoti di Machiavelli, facciamo la politica meno realista che esista, sopratutto quando proclamiamo di farla realista. (Nessuna maggiore ingenuità politica del vantare il proprio egoismo: il vero egoista sta zitto, o fa l'altruista!). Io non vanto una politica piuttosto che un'altra; io mi contenterei che ci fosse una politica, e che ci fosse una opinione politica conseguente. Noi abbiamo avuto finora un campionario di tutte le politiche e nessuna che fosse condotta a fondo. Si sono provati tutti i sistemi, ma nessuno a pieno e con convinzione. Il pubblico non si persuade che giunti a certi atti, non si può tornare indietro e mostrarsi esitanti sulla via che si è scelta. Anche una strada erronea, proseguita con dirittura e fermezza, é preferibile a tenere il piede su due strade e non andare avanti in nessuna. Il realismo della politica del dopoguerra e della pubblica opinione italiana è stato quello di inspirare sfiducia agli amici e non generare timore negli avversari. L'opinione pubblica italiana, se non vuole incontrare altre amarezze, deve persuadersi che non è possibile essere in contrasto con tutti o cambiare direttive ogni mese. Sono principii elementari di ogni azione e fa pena doverli ripetere. Ma é proprio colpa del maestro, se anche dopo qualche anno di insegnamento deve ricordare al suo allievo che due più due fanno quattro e che la linea retta è la minore distanza fra due punti? GIUSEPPE PREZZOLINI.
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