STUDI SUL RISORGIMENTO
La filosofia politica di Vittorio Alfieri 1. - 2.Questo saggio sull'originalità della filosofia politica di Vittorio Alfieri è la prima parte di una serie di studi sulla genesi filosofico del Risorgimento in Piemonte. Alcuni di questi studi già ho compiuto e presentato in altra sede (1); essi indicano la direzione e il punto d'arrivo delle mie ricerche, ma saranno tutti rifusi in uno studio più comprensivo e sistematico. Penso che si possa ritrovare una corrente di pensiero, autoctona e ininterrotta, assai più indipendente che di solito non si creda dall'influenza e dalle sovravrapposizioni straniere - la quale nasconde le sue origini nell'oscuro principio del settecento, rianimata e suscitata sia pure indirettamente, da una serie di prìncipi intelligenti e degni iniziatori di un mondo che i loro successori non seppero continuare e poi trova espressione in G. Baretti, in V. Alfieri, in L. Ornato, in V. Gioberti, in G. M. Bertini. Dai loro interessi speculativi questi furono tratti a vagheggiare un Risorgimento e un liberalismo che non si può dire originale, e in cui si trovano le premesse della nuova cultura politica italiana. Anche se comunemente meno noti e più fraintesi essi non hanno certo minor importanza della corrente hegeliana di Napoli: meno felici e meno significativi di questi solo perché non trovarono nella cultura degli ultimi venti anni continuatori e interpreti parimenti profondi. Di Vittorio Alfieri in particolare troppo si è detto - da chi lo salutava anarchico a chi lo voleva monarchico costituzionalista - ma chi scrive spera di averlo studiato in modo non consueto sì da giustificare almeno l'opportunità delle nuove indagini che per la prima volta ricostruiscono il pensiero filosofico suo e lo determinano nella storia dello spirito europeo e italiano facendone scaturire, con la sistematica coerenza che egli voleva, la religione e la politica. I. Alfieri e la critica.Per capire l'Alfieri e valutare i critici dell'opera sua con animo deliberato a far nostri i loro risultati e a superarli bisogna risalire al De Sanctis. Invero la critica desactisiana sull'Alfieri è stata fraintesa e negletta e se ne può cogliere il giusto valore solo dando un organismo sistematico alle frammentarie espressioni in cui s'è manifestata. Dei tre scritti che il De Sanctis dedicò all'Alfieri il primo (2) afferra e spiega il concetto dell'unità di passione in cui arte tragica e temperamento individuale coincidono con una coerenza che è perfetta nel Saul e in alcuni motivi di vita pratica dell'autore; il secondo (3) segna un vigoroso approfondimento della formula estetica iniziale che imperiosamente si amplia a diventare canone di interpretazione storica e morale, sì che, venuti a coincidere il mondo del critico e il mondo del poeta, al momento dell'esegesi è fatto d'un subito centro intenso di polemica vitale e Alfieri e De Sanctis combattono insieme, difensori dell'immanentismo moderno contro il dogmatico "Proudhon della reazione" (4); dell'onestà letteraria contro la superficialità, l'esprit, l'insolenza sterile di Giulio Janin (5); il terzo (6) pone con forte sintesi storica la figura di Vittorio Alfieri nel fervore di rinnovamento civile e morale dell'Italia settecentesca. In questo terzo momento di completa maturità riflessiva sono inverati i due primi (l'uno troppo esclusivamente letterario, l'altro ancora vibrante di motivi nobilmente pratici che sarebbe difficile ridurre sotto una rigorosa determinazione concettuale): e la nuova spiegazione desanctisiana del problema Alfieri appare più ricca a più capace di sviluppo. Scrivendo di Alfieri durante il Risorgimento il De Sanctis doveva rimanere necessariamente compreso entro quei limiti che costituivano pure in sostanza la sua originalità: come per il Foscolo (7) anche per l'astigiano egli era portato a trascurare il puro problema estetico per dedicarsi tutto all'interpretazione e all'esaltazione del pensiero patriottico e morale. Ma è un errore esegetico che dà più completo sfolgorio di luce e di chiarezza che venti citazioni precise. Mentre da un lato l'affermata identità di stile aspro e di ardente solitaria passione diventa la formula intorno a cui dovrà lavorare la critica estetica contemporanea; dall'altro il concetto di un pensiero alfieriano (che è insieme azione) patriottico e morale apre la via ad indagare e chiarire i motivi romamantici dell'individualismo alfieriano che danno la misura della sua coscienza filosofica e politica: due compiti precisi che l'esegesi positivistica dimenticò in vane ricerche antropologiche, o in limitate documentazioni erudite. Solo il Croce (8) in una serie di brevi scritti ha svolto con qualche novità il concetto desanctisiano dell'unità dello spirito e della passione di Vittorio Alfieri, riuscendo a mostrare come il suo ardore pratico oratorio, abbia rispetto ai risultati estetici, considerevoli limiti in sè medesimo, e tuttavia l'eloquenza lasci spesso libera via alla concretezza poetica. Per chiarire la psicologia dell'Alfieri poi il Croce è ricorso all'efficace definizione di protoromantico che determina secondo un valore nuovo il concetto di superuomo vivo come aspirazione nella Vita reale di artistica realtà nelle dominatrici figure delle più riuscite tragedie. Seguendo queste premesse ottimi criteri ha suggerito il Croce per l'intelligenza estatica dei "vigorosi sonetti" del Misogallo e delle Satire a cui singolarmente lo avvicina il suo gusto squisito per il piccolo frammento perfetto, mentre l'esame delle tragedie è turbato dall'introduzione di un giudizio ("troppo analizzato e calcolato") ingiustificatissimo per la Mirra e non coerente (o almeno non chiaro) col ritratto disegnato prima dello scrittore. Gli spunti crociani di critica estetica attendono dunque di essere integrati. Più inascoltata è rimasta la prima esigenza. È progredito il lavoro preparatorio; e, attraverso le ricerche di erudizione, sono migliorate, per dir così, le condizioni psicologiche e materiali in cui si trova il critico dell'Alfieri. I lavori del Masi, del Mestica, dello Scandura sulla politica alfieriana si sono fermati a considerazioni esteriori e frammentarie (9). Contributi notevolissimi, essenziali, hanno recato il Bertana all'indagine biografica, il Masi allo studio storico dei tempi, il Farinelli e il Porena, per vie indipendenti e diverse e da quelle percorse dal Croce, all'esame estetico, il Mazzatinti alla raccolta dell'epistolario e alla bibliografia, rifatta poi dal Bustico, ma lo spirito di Vittorio Alfieri pensatore e poeta è sfuggito a questi sottili indagatori (10). La ragione di tale infecondità critica è nel metodo: non si può intendere uno scrittore restando nei limiti della filologia; l'unità dell'individuo si ritrova solo filosoficamente attraverso l'unità della storia. La visione del De Sanctis è ancora la più matura perché si concreti dentro una storia dello spirito italiano. Ma la cultura positivista che dimenticò addirittura il Vico e si ridusse negli ultimi anni agli studi antropologici sul genio invece di rivivere le opere dei grandi spiriti volle vedere nel settecento italiano soltanto l'effetto di due lavori negativi: i giochi poetici dell'Arcadia e l'importazione e imitazione delle idee francesi. Già il Boncompagni (11) aveva superato questo gretto pregiudizio antistorico quando studiava nell'Alfieri e nel Botta gli antesignani del liberalismo piemontese: i nostri critici invece, preoccupati di lasciare da parte le idee per rincorrere i fatti, ignorando il pensiero del '700, si ritrovavano poi di fronte il fenomeno del Risorgimento senza poterne intendere le ragioni profonde: e coerentemente con questa impotenza la storia dell'800 era vista nel suo mero aspetto esteriore (dati biografici, battaglie, atti della diplomazia) o, al più, come tradizione eroica senza che i dati e i documenti venissero a prendere valore in un organismo di pensiero e di coscienza, senza che l'eroico venisse inteso come concreta azione di uno spirito per un concreto ideale. Insomma non si intende l'Alfieri se non si determina il rapporto che lo lega alla tradizione Machiavelli-Vico-Gioberti. Il positivismo ignora questa tradizione. La necessità di determinare questo rapporto apparirà più chiara quando il nostro studio sarà compiuto: poiché è appunto uno degli intenti nuovi del presente lavoro. Che l'Alfieri professasse, con più ardente calore libertario, la stessa concezione attivistica della storia che si trova in Machiavelli è risaputo; nè alcuno ha messo mai in dubbio 1'importanza dei legami di cui il Gioberti coscientemente volle avvincersi all'opera e alla profezia alfieriana. Dubbio può sembrare invece il discorrere di un Alfieri legato idealmente al Vico. Pare assodato che 1'Alfieri non abbia letto mai il filosofo napoletano, e del resto tra il pensiero storicistico e le preoccupazioni metafisiche del Vico e 1'esasperato individualismo e antintellettualismo alfieriano ognuno sarebbe tratto a vedere piuttosto antitesi ed esclusione che coincidenza e vicinanza. A queste obbiezioni si risponde che il nostro discorso mira a cogliere le fasi ideali della formazione della spirito italiano e le tappe che si segnano acquistano perciò valore di simbolo e significato trascendentale di natura diversa dall'esegesi della personalità empirica. Le recenti ricerche storiche e filosofiche hanno singolarmente aiutato e preparato un'indagine integrale che spieghi la figura dell'Alfieri nella storia dello spirito italiano. Una mente sintetica che si riproponesse oggi il compito dell'Oriani potrebbe dare tutta una nuova visione dell'originalità italiana nel Settecento. E poiché la coscienza nazionale nasce operosamente in Piemonte bisogna pure interpretare la funzione filosofica del Piemonte, sinora dimenticata, nella creazione della nuova realtà ideale italiana; bisogna vedere come il vecchio Piemonte burocratico e militare abbia inteso le esigenze culturali che l'imminente rivoluzione gli metteva innanzi. Volendo anticipare alcuni risultati osserveremo che nello sforzo di soddisfare queste esigenze il pensiero piemontese pur rimanendo singolarmente aderente alla realtà empirica e alieno da astrattezze metafisiche, diventa pensiero italiano e la critica al dogmatismo elaborata nel '700 si realizza positivamente nella dottrina dell'immanenza e della libertà. II. Machiavelli e il carattere della filosofia alfieriana.Giuseppe Baretti fu il restauratore del culto di Machiavelli in Piemonte. Prescindendo da giudizi e spunti letterari, qualcosa di veramente machiavellico v'è nello Scritto mandato dal Baretti da Londra a S. A. R. il duca di Savoia, circa a varie operazioni da farsi nel principio del suo futuro regno (12). Consigli di cinquecentesca abilità ringiovaniti dalla fresca esperienza della vita e della cultura inglese. Il nostro scrittore è guidato da due preoccupazioni: la necessità di rafforzare lo Stato all'interno attraverso una libera politica di riforme popolari e di provvedimenti che limitino a poco a poco la soverchia potenza ecclesiastica; e il progetto di un'abilissima politica estera tendente all'occupazione della repubblica di Genova. Insistendo sulla prima esigenza come condizione per affrontare la seconda il Baretti affermava implicitamente un sistema politico fondato sul concetto di Stato forte come unità di cittadini e di principe: Machiavelli ripensato attraverso i primi spunti ancora imprecisi di una teoria democratica già corrosa dal riformismo. Germi rimasti inapprofonditi - come estranea, ignorata e infeconda restava in Piemonte tutta la sostanza del pensiero del Baretti. Tornava dunque Machiavelli, sebbene imperfetto e tutto limitato dalle esigenze empiriche. Ma un Machiavelli più vero e più vigoroso recava in sé Vittorio Alfieri il quale non si accontentò di letteratura nè di tecnicismo di governo ma volle ripensarne l'intima coerenza spirituale. Con questa osservazione non si intende aderire al pregiudizio comune di cui si fa eco il Cian quando dice che il pensiero dell'Alfieri "fu essenzialmente politico (13). Invero se la natura del pensiero alfieriano fosse esclusivamente politica non si saprebbe che cosa obbiettare alle vivaci conclusioni del Bertana il quale, accettata la premessa, dimostra con pieno rigore l'inconsistenza del pensiero alfieriano, rilevandone d'astrattezza e l'incapacità realistica. (Che valore può avere un pensiero politico non realistico?). Per la stessa via, ma con maggiore genialità il Salvemini dimostrò una tesi analoga a proposito del Mazzini. E' il processo della scienza all'utopia. Tuttavia la soluzione non soddisfa; la gloria dell'Alfieri e del Mazzini non é spenta: resta che ci si chieda se il problema non sia stato posto male, se, per avventura, la loro originalità non consista affatto nel loro concretismo. Di Vittorio Alfieri già il Leopardi scrisse che e fu "più filosofo che poeta" (14). L'ammirazione del Baretti per il Machiavelli ha presente il modello del Principe, quella dell'Alfieri non ignora, anzi penetra, confusamente, l'essenza dei Discorsi. Senza possedere la forte visione sintetica della storia che fu tra noi inaugurata dal Machiavelli, l'Alfieri cerca dunque, come lui, una teorica, non un'arte dei governi. In questo senso, accettando l'osservazione del Leopardi, diciamo che egli non presenta disegni di riformatore, ma speculazioni di filosofo. Ha ragione il Bertana quando afferma che il pensiero dell'Alfieri manca di base scientifica, che egli "ebbe sopratutto mente ribelle ad ogni studio sistematico", che "la metafisica gli ripugna" (15). Ma l'esame astratto e intellettualistico a cui egli si ferma non pare il più atto a rappresentare il chiaroscuro di pensiero in cui si espresse l'originalità dell'Alfieri. In un secolo nel quale la vitalità dello spirito veniva ridotta a uno schema astratto nell'intellettualismo post cartesiano e nelle varie costruzioni giusnaturalistiche del dogmatismo wolfiano, in un secolo in cui dicendo sistema si diceva sostanzialmente astrazione e generalizzazione di dati empirici, opporsi al sistema per affermare la pienezza della vita individuale, irriducibile alle vecchie formule, era opera preziosa di rinnovamento speculativo. Il pensiero di Rousseau mosse gli spiriti e stimolò gli impulsi individuali più fecondamente che la scientifica precisione ideale dei sensisti. Al mito Rousseau corrisponde in Italia il mito Alfieri. In Inghilterra una lunga tradizione e una vigorosa esperienza presente di libertà politica erano terreno naturale e propizio per le mirabili speculazioni di G. Locke. In Italia solo la forte individualità dell'astigiano poteva 'riuscire a mantenere vivo il nascente pensiero del liberalismo immanentistico contro 1'implacabile dominio della trascendenza cattolica organizzata in ferrea esperienza conclusiva. Restando entro i limiti esterni del cattolicismo non era possibile andare più innanzi del Vico, nè sottrarsi alla sua solitudine; e d'altra parte costruendo un sistema di pensiero si doveva accettare fatalmente l'influenza costrittiva di un organismo ideale millenario. In queste condizioni l'indeterminatezza era veramente precisa e concreta: la ribellione alfieriana, che ha qualche cosa di immediato e di anarchico seppe creare un mito libertario da cui il cattolicismo uscì rinnovato o capace di superare sè stesso. Non filosofo più che poeta (ché anzi la sua filosofia ha forza ed efficacia storica nella virtù del poeta) ma filosofo veramente e non soltanto poeta di idee come vorrebbe intenderlo il Bertana. Egli ha un concetto della libertà rigorosamente metafisico, estraneo ai limiti dell'utilitarismo che gli enciclopedisti non riescono a superare. Nè può obbiettarsi che altro è affermare, altro avere coscienza filosofica di ciò che si afferma: poiché, se per coscienza filosofica si intende conquistare un concetto unitario del mondo, capace di inverarsi e chiarirsi a contatto con i nuovi elementi, di nuove esperienze, un organismo vitale e fecondo insomma che diventi, per la sua validità, canone di interpretazione e forma mentis - non si può negare che proprio il concetto alfieriano di libertà realizzi questa funzione: esso si pone come la vera realtà trascendentale della storia, il principio metafisico che genera il mondo dell'empiria e della pratica e s'inserisce come criterio di ogni valutazione particolare. (continua) PIERO GOBETTI. (1) La filosofia di L. Ornato e la cultura politica nell'800 in Rivista d'Italia, 15 giugno 1921, pp. 194-206; La nostra crisi rivoluzionaria nell'800 ne L'Arduo, 31 maggio 1921, pp. 177-184; Il pensiero politico di S. Santarosa nel Resto del Carlino 18 marzo 1921; La libertà d'insegnamento nell'800 nel Resto del Carlino della Sera, 1 marzo 1921; La scuola in Piemonte prima del'44 e Le scuole di metodo in Piemonte ne La Nostra Scuola, settembre ottobre 1921, n. 17-18-19-20; D. Berti pedagogista, filosofo e politico ne La Nostra Scuola, gennaio 1921, n. 1-2; Manifesto ne la Rivoluzione Liberale, 12 febbraio 1922; G. M. Bertini di imminente pubblicazione nella Collana "Cultura dell'anima". (2) F. DE SANCTIS: Le lezioni di letteratura dal 1833 al 1848. VIII Lezioni sulla poesia drammatica ne La Critica, anno XVII, fase. I pp. 40-43, 20 gennaio 1919. Su queste lezioni si veda il Preambolo del Croce, ancora ne la Critica, anno XIII, fasc. I; pp. 21-38, 20 gennaio 1915 (accurata storia esterna) e un giudizio dei Croce in Una famiglia di patriotti ed altri scritti storici e critici. (3) F. DE SANCTIS. Giulio Janin e Alfieri, Janin e "Mirra", Veuillot e la Mirra nel Piemonte, quotidiano torinese anno 1, n. 167 (17 luglio 1855), 179 (31 luglio), 191 (14 agosto), 148 (24 giugno). Ristampati in Saggi critici, edizione di P. Arcarti (Milano Treves 1918) vol. 1. pp. 143-171. E si veda pure l'articolo Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo Torino, Il Cimento, ottobre 1855, serie III anno III, voi. VI, pp. 629-639. Ristampato in Saggi critici, ediz. cit. pp. 301-312. (4) L. VEUILLOT (1813-1883), direttore dell'Univers, autore di Le Parfum de Rome, Le Odeurs de Paris, ecc. II più celebre e il più reazionario tra i giornalisti francesi. Non ebbe molta fortuna in Italia nel secolo scorso benché B. Casoli vi dedicasse un volume (Modena 1884) Una buona traduzione di poche pagine scelte in Antologia dei cattolici francesi del secolo XIX di D. Giuliotti, pp. 129-175 Lanciano s. a. (ma 1919). (5) G. JANIN (1804-1874) giornalista e romanzatore; critico drammatico per quarant'anni al Journal des Debats. (7) Per mettere in luce il valore civile ed eroico dei Sepolcri il De Sanctis è stato condotto a fraintendere Le Grazie e tutta l'ispirazione lirica del Foscolo costruttore di miti sereni d'armonia. Si ricordi che tutta la prima parte del fumoso saggio sul Foscolo pubblicato dal De Sanctis nella Nuova Antologia è addirittura autobiografica sul F. come maestro d'italianità. (9) Questo saggio ora steso interamente quando incominciarono ad apparire nella Critica gli studi del Gentile sulla cultura piemontese. È interessante, per l'Alfieri, il primo capitolo: L'eredità di V. A. dove tuttavia il pensiero alfieriano è grossolanamente esaminato e solo in reazione alle sue conseguenze patriottiche. Del Masi: Il pensiero politico di V. A. Firenze Barbera 1896: del Mestica: La politica nell'Opera letteraria di V. A. in Prose e poesie di V. A. Milano, Hoepli, 1898. (10) EMILIO BERTANA: Vittorio Alfieri studiato nel pensiero nella vita e nell'arte. Torino Loescher, 1904, II edizione accresciuta pp. 1279. Le pp. 280-532 hanno ottime osservazioni parziali, ma non si potrebbero integralmente accettare ; la conclusione (pp. 533-591) è debole. Si vedano del Bortana i notevoli studi sul 700: In Arcadia Napoli Perolla 1909 e La Tragedia Milano Vallardi 1905. Su quest'ultimo argomento Galletti: La teoria drammatica e la tragedia in Italia nel secolo XVIII. Cremona Pezzi 1901. ERNESTO MASI: Asti e gli Alfieri nei ricordi della Villa di S. Martino in Firenze Firenze, Barbera 1901. Inoltre la celebre monografia sull'Albergati. ARTURO FARINELLI: recensione al Bertana Bailage zur allgemeinem Zeitung 1903 n. 45-46 e specialmente V. A. nell'arte e nella vita in Rivista d'Italia ottobre 1903, pp. 531-519 ristampata ora come prefazione alle Tragedie scelte, Torino, Paravia 1921. MANFREDI PORENA: V. Alfieri e la tragedia, Milano Hoepli 1904 in cui sono rifusi studi minori precedenti Lettere edite ed inedite di Vittorio Alfieri a cura di G. Mazzattinti Torino Bocca 1890 e poi il vol. II dell'edizione Paravia delle Opere per il centenario. GIUSEPPE MAZZATINTI: Bibliografa Alfieriana (ragionata) Rivista d'Italia, ottobre e dicembre 1903 pp. 685-720; 1072-1085. GUIDO BUSTICO: Bibliografia di V. Alfieri II ediz. Salò, Devoti 1908 e Supplemento Domodossola 1911. Molte lacune. Tra le opere generali non è citata la Storia letteraria del De Sanctis (!), nè la Storia della Monarchia sabauda del Bianchi. Del Gioberti non sono citate le Meditazioni edite dal Solmi, che contengono i giudizi esteticamente più importanti sull'Alfieri. Non sono ricordato le opere che studiano la fortuna di Alfieri in Piemonte, per es. la monografia dell'Ottolenghi sull'Ornato, il Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo è dato a p. 55 come ristampato (l) nel Cimento anno VI, 1885. Il Bustico non sa che il Cimento usciva in Torino trent'anni prima! Né qui è il luogo di perseguire altri errori e altre dimenticanze. (13) VITTORIO CIAN nel I dei quattro articoli pubblicati dal Fanfulla della Domenica nn. 2-3-4-5 dell'11-18-25 gennaio, 1 febbraio e prima del Cian, Cesare Lombroso, accettando del resto un pensiero comune, nella Prefazione a Vittorio Alfieri; Studi psicopatologici di G. Antonini e L. Cognetti de Martins, Torino Bocca 1898. |