DE MONARCHIA
F. Burzio, dopo aver studiato la Democrazia e Giolitti, si preoccupa ora del problema della monarchia in Italia. Trattandosi di un così sottile ed esperto scrittore ed attento osservatore delle cose politiche, sarà il caso forse di esaminare le sue idee e, se è possibile, di discuterle. Nel giudizio, che il Burzio da qualche tempo propone, degli avvenimenti politici, e più ancora nel metodo e nella forma stessa della sua trattazione, è implicita una critica più o meno aspra di quelle ideologie e rappresentazioni storiche, messe di moda tra noi da una scuola di teorici, che si vanta progenie dell'idealismo filosofico, e si può sommariamente raffigurare con due nomi noti al pubblico: Oriani, Missiroli. A questa critica chi scrive non ha nulla da opporre: ché anzi si propone di riprenderla esplicitamente e sistematicamente su queste pagine. Sarà opportuno soltanto soggiungere che non pare a noi che il Burzio definisca esattamente le origini di coteste dottrine, quando le dice "prodotto crociano e gentiliano, sopratutto di questo ultimo": infatti noi le diremmo esclusivamente gentiliane tanto più che ci par necessario di porre un termine al vezzo di confondere troppo facilmente Croce e Gentile, mentre non sarebbe difficile scorgere in essi (così come negli altri campi, nelle teorie dello Stato e della lotta politica) punti di partenza e svolgimenti dottrinali diversi, e nel primo del resto un'originalità, una ricchezza di problemi, un'adesione all'esperienza reale, che mancano nel secondo quasi del tutto. Senonché di tutto ciò potrebbe pretendersi una dimostrazione, che contiamo di fornire ai lettori un'altra volta. Perché oggi siam qui per parlare, come si disse in principio, di monarchia. Che il problema istituzionale risorga in Italia, e preoccupi in vario modo le diverse fazioni che tengono il campo, è manifesto, secondo il Burzio, per molti indizi. E innanzitutto egli scopre, di fronte al nazionalismo e accanto ai repubblicani ufficiali (che pareva fossero i soli e trascurabili depositari della questione), due nuovi centri d'ostilità alla monarchia: la "tendenzialità" di Mussolini e il filosocialismo di Missiroli e d'altri liberali. Vero è che almeno a questi ultimi si può fin d'ora ricusare la possibilità di un'applicazione non pure immediata, ma financo lontana e indiretta, delle loro dottrine sul terreno delle forze; e persino nel campo delle idee, par che debba valere per costoro quel detto di Epitteto, secondo cui gli uomini si turbano non già per le cose, ma per le opinioni che delle cose si foggiano. Perciò fa bene il Burzio, dopo averli nominati, a trascurarli. Egli si preoccupa invece, forse eccessivamente, dell'opposizione di Destra alla monarchia; e per quanto ne riconosca giustamente la genealogia nella retorica letteraria, finisce poi di scoprirvi niente meno che un'inconscia tendenza della borghesia a rivoltarsi contro la funzione politica della monarchia, colpevole di filosocialismo, ad uscire finalmente di tutela, "vestir toga virile". "Ecco perché, non il socialismo, il nazionalfascismo è pericoloso per la Monarchia .... Ecco perché la rinascita politica, che notammo in principio come fatto basilare, si arresta al valore Patria, e lo scinde da Re, cui sembrava, trenta anni fa, connesso, nell'occiduo declinare di fronte al sole internazionalista. Perché alla borghesia basta il primo termine, come disciplina ideale, miraggio etico da proporre al popolo, onde si lasci governare... e il secondo è ingombrante". Pare a noi che il Burzio trascuri troppe cose, generalizzando un'affermazione personale e probabilmente secondaria di Mussolini; e veda troppo presto nella borghesia un'unità, laddove si potrebbero facilmente indicare interessi disparati e contrastanti. Si sa che il fascismo ha avuto fortuna tra i conservatori agrari, e tra gli industriali per ragioni diverse; e che per ragioni ancora diverse ha trovato approvazione in certi gruppi democratici: ora poi sta allargando anche la sua iniziativa sindacale, e raccoglie intorno a sé operai disorientati e contadini. Cosicché ne risulta una fisionomia malsicura e indefinibile, mutevole secondo le forme e i contenuti delle politiche locali. Ora anche se da ognuno par si voglia considerare il fascio littorio come simbolo, le realtà sottintese e tutt'ora nascosto variano da luogo a luogo: e non è difficile la previsione di prossimi contrasti. Non si riesce dunque a vedere neppur oggi un qualsiasi orientamento definito della borghesia, perdurando le divisioni tra i gruppi dell'Italia settentrionale e quelli della centrale e media, l'attaccamento agli interessi parziali, che distrae tutti da una visione più generale e unitaria. Nelle mani di questa gente e al servizio di questi interessi, gli squadristi rappresentarono poco più che una milizia di ventura: alcuni combattenti si son trovati in Italia, dopo la guerra, o han creduto di trovarsi in condizioni tali da non poter vivere se non continuando a combattere, e trasportando i modi guerreschi, con la potenza che ne deriva, nella vita pacifica e civile. Una spiegazione sufficiente d'un lato non trascurabile del fascismo si potrebbe forse dedurre, da chi meditasse le parole usate da Machiavelli (Dell'arte della guerra, Libro 1), dove discorre di quei fanti nelle repubbliche malordinate, i quali non avendo al ritorno dal campo una particolare arte cui attendere, si conducono a "turbare la pace per avere la guerra". L'opera offerta dai combattenti disoccupati fu accettata e adoperata in vario modo dai diversi gruppi borghesi dominanti in ciascuna provincia. Ma poniamo ora che la tendenza più reazionaria, che traspare in certe zone del fascismo, si accentui, e mostri apertamente di tendere al colpo di stato e alla dittatura, subito troverebbe tra gli odierni alleati alcuni dei nemici più acerrimi e meglio preparati a contrastarla. Come pure un eventuale tentativo di supremazia dei gruppi democratici e sindacalisti raccolti all'insegna del Fascio, avrebbe contro di sè la maggior parte delle frazioni borghesi. Si conclude che l'equilibrio, sebbene instabilissimo, si mantiene soltanto a patto che le direttive politiche della borghesia non si definiscano troppo nettamente. Da questa parte la Monarchia non ha nulla da temere. Senonché esiste veramente una questione di regime? o, che è lo stesso,a che cosa si riduce la funzione della monarchia in Italia? Secondo il nostro autore, sarebbe importantissima e tradizionale: "con particolarità di tempo o di luogo, la Monarchia ha dunque avuto in Italia la stessa funzione, coesiva, poi direttiva e tutoria, che ebbe in tutta Europa, nella formazione degli stati nazionali: prima in Inghilterra, Francia e Spagna, indi in Prussia e Russia, oggi ancora in Jugoslavia". Vero è che poco dopo il Burzio riconosce che essa non ebbe la funzione specifica di riorganizzazione sociale, caratteristica di quelle prime monarchie, che protessero e in qualche modo prepararono l'avvento del terzo stato. E allora la necessità politica che rimane, quando sia tolta e resa superflua l'opera di riordinamento e unificazione delle classi sociali, si riduce per noi a qualcosa di così vacuo e trasparente, che quasi scompare. Anche l'attività dei ministri lealisti che, come Giolitti, cercaron di assorbire le opposizioni di sinistra nella politica dinastica, quando la si riconosca priva, come fu veramente, di contenuto sociale, appare niente più che una manovra parlamentare condotta con abile tattica e riuscita a buon fine. Questa politica, sapiente ed accorta più che profonda, fu necessaria ed utile in Italia; dove veramente la monarchia fu ed è poco più di un termine giuridico scelto a rappresentare un complesso di realtà diverse e discordanti. Il risultato reale e duraturo di cotesta politica e l'unica vittoria della monarchia fu l'assorbimento di quell'opposizione giacobina, mazziniana e carducciana, che contrastò nel Risorgimento e nei primi decenni del Regno l'operosità sabauda e piemontese. Senonché in questo modo si finì di cancellare quasi ogni vestigio del problema istituzionale e i socialisti poterono giustamente negare ogni importanza alla questione. Infatti, per quanto si sforzi il Burzio di mostrare la necessità del regime, Monarchia anche nel suo saggio è quasi sempre soltanto una parola senza contenuto. Poiché non vale dire che la continuità governativa dal '48 al '14 non può chiamarsi se non monarchia, mentre è necessario esaminare quanto questa continuità fosse reale, ed effettive la coesione, e l'unità nazionale che ne dipendono. Come pure non basta scoprire motivi dinastici nella politica di sinistra del governo, che avrebbe dovuto condurre a far accettare al paese le istituzioni; quando bisognerebbe piuttosto mostrare fino a che punto questo metodo giovò veramente alla monarchia, e se per avventura, sboccando nel collaborazionismo, esso non conduca invece al trionfo d'un ceto medio larghissimo, indifferente se non contrario alle pregiudiziali monarchiche. In realtà la lotta politica si svolge da noi assolutamente al di fuori di questi schemi: e anche quando le formule esteriori paion indicare un interesse dei partiti alla questione istituzionale, il contenuto dei dissidi va cercato nelle differenti condizioni sociali ed economiche. Se è vero, come pensa il Burzio, che nessuno dei ceti, che si contendono il potere, è maturo oggi per conquistarlo, non più la borghesia che il proletariato; se è vero che "il problema del Governo, in Italia, non è tanto realizzare dei programmi quanto, anzitutto, dominare degli uomini, con qualunque mezzo"; allora la funzione dello stato è quella di dare un'unità, meno ancor che giuridica, apparente ad una realtà discorde e faziosa: lo stato diventa poco più che una maschera: la politica necessaria è quella dei compromessi e delle transazioni d'ogni giorno, aspettando una risoluzione qualsiasi. E, per ciò, non si vede la necessità d'una monarchia piuttosto che di una presidenza temporanea. La possibilità di entrambi i regimi, indifferentemente, mostra l'insussistenza del problema; che è esteriore, e non riesce a cancellare quelli più profondi e vitali. Non bisognava dunque accontentarsi di definire ogni classe immatura al governo, e dedurre la necessità di una tutela monarchica, ma vedere piuttosto se per avventura tra i ceti minorenni non si vadan costituendo delle élites, che si preparano a trovare le loro forze, onde dirigersi a conquistare posizioni predominanti e governative. Scoprire nel presente le basi onde cooperare alla creazione del futuro, e in qualche modo con arte difficile e sottile sforzarsi di prevedere l'imprevedibile: questi forse voglion essere i compiti essenziali della scienza politica, nei limiti in cui essa si differenzia dall'indagine storica. Il saggio del Burzio è troppo tendenzioso per essere storia, troppo oggettivo e, direi, acquiescente allo stato di fatto, per fornire un punto d'appoggio all'azione. Del resto il termine Monarchia ha pel nostro autore un valore ineguale e indefinito; così come tutto il procedimento della sua indagine potrebbe definirsi crocianamente estetistico. E' questo infatti il principale difetto che si deve rimproverare ne' suoi studi, del resto così interessanti e degni di nota, nella povertà generale della letteratura politica contemporanea. NATALINO SAPEGNO. Nei prossimi numeri pubblicheremo l'ultima parte dello studio sulla Monarchia del nostro amico Filippo Burzio.
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