IN OCCIDENTE: L'ERESIA DELL'ERESIA
Quella gente ritirata che sarebbero, secondo Suckert, gli Americani, noi di solito la si vede un po' troppo dentro schemi preconcetti e figurazioni caratteristiche e quasi macchiettiste: prendendone il modello nei nababbi sbarcanti a Genova che "fanno gli affari" saltabeccando per l'Europa in aeroplano e s'illustrano di una dollaresca dignità nei loro gesti, pesanti di protezione e di salvezza promessa; o delibiamo o tipifichiamo la loro vita, se ne siamo informati, nell'ottimismo emersoniano, nelle girandolo d'apoteosi di Whitman, nella prosopopea baldanzosa di James: e chi l'uno e l'altro, semplici e immediati, assertori di quel che si é concordi a ritenere come l'essenza della razza. E poi c'è Monroe antesignano che li battezza e li leva a segnacolo e li difende. Si potrebbe ammirare ed amare questa specie di avventura, questa marcia all'occidente dove ciascuno s'impegna per la sua fortuna fino alla morte e in quest'impegno la esalta. La civiltà dei tre P. Puritani, Pionieri, Pragmatisti: ridurre in se al limite ogni bisogno; spostare all'esterno, contro la natura e i nemici, la lotta dell'intimo esasperata; fidare in questa lotta, credere che ogni inizio è un bene. C'è quasi in questi atteggiamenti, che furono nella storia successivi - che scoprirono e fecero l'America - un ritmo necessario, che trova la sua espressione facile e sonora. Non si può pensare una via di pensiero e d'azione, più diritta; un dilagare o un fertilizzare regolato meglio; l'espansione ha dei termini prefissi, di natura geografica; oltre c'è il mare, cui non strappano il segreto. Se non che questa civiltà patisce d'un ingorgo; non s'è ancora esausta materialmente, non ha ancora fruttificato con tutti i suoi prodotti, né garrito su tutto il suolo, quando già nella sua forma fermenta. Il pensiero ha scoperto il terreno; con 1'invidiabile sua prematurità è corso troppo e ha bruciato i freni; s'é stancato di profetar la conquista. Quando la predizione s'avvera il veggente muta il tono del suo canto. Ma via via il popolo impara a ruminare i detti famosi, e ci crede. C'è chi gli propina le cose vecchie intensificandole di retorica; le parole ripetute si fanno segnali e motti, adunano e collegano. L'astrattismo, se hanno faticato molto, gli è pure di sollievo. Una ripresa di motivi, fatta popolare dalle cadenze, incita e insieme culla: è quasi un balsamo al pudore, una porta aperta sul sogno. Ogni crepuscolo della stanchezza l'indora, quasi necessaria, una "moralità". Questo è il cilicio che dice Suckert, e non è più di una maglia di flanella, igienica. La sua essenza medica - medicina delle anime - è rivelata anche dal suo esser raccomandato, poi imposto, dalle donne; esse furono al centro della campagna per il proibizionismo, come una volta di quella antischiavista; a loro si riconosce la libertà di commuoversi, di chiamare al soccorso, di provvedere. Se gli uomini le ascoltano vuol dire che hanno bisogno di infermiere. La civiltà pragmatista è una civiltà femminile perché il fare è una piaga, e bisogna bendarla. Si può dire però che questa eresia è già scaduta, poiché è ridotta a cercare il rimedio; i pensatori prima degli operai, ne hanno i muscoli stanchi. Se l'America fosse tutta americana quella pagina di storia sarebbe fluita e non ci sarebbe da vedere più nulla. Ma Monroe non impedisce che il sangue si alteri che l'orizzonte si rinnovi. La dignità vera degli Stati Uniti sta nell'essere sbocco al dolore europeo; quel dolore fisico, delle persecuzioni e della miseria, donde scaturisce l'eresia nuova. Perché gli Stati Uniti sono miserabili, perché addensano con la fretta e con la noncuranza del1'imprenditore gente a gente, colore a colore, lontananze opposizioni, insofferenze, odii, perché danno il pane secondo la cieca stravaganza delle leggi economiche; perché ignari, con un gesto insultano e irridono; perché son sempre padroni, hanno sempre ragione e pure incarnano ogni ideale e asseverano tutto il bene, di fronte all'immigrante; e l'ideale e il bene glielo mettono addosso per forza, bandendolo da ogni comunione se non ci crede. Questi si fanno ribelli. A dire una menzogna a chi soffre lo si obbliga alla rivolta. Più hanno sofferto più hanno, nella carne già esercitata al martirio, lo spirito pronto; non gli resta margine di sensualità per esserne distratti. E tra i ribelli più ribelli figurano, ingigantiti biblicamente, gli ebrei. La sofferenza loro per tanto tempo repressa, finalmente s'articola; e trova mezzi pronti, strumenti affilati. Tanti di loro si son mossi l'animo donandolo e con quel fervore d'astuzia che li fece eroi delle imprese e dei traffici si sono affacciati alla ribalta, su la loro potenza si puntellano i più afflitti, quelli che dalle percosse e dalla torva attesa vanno prorompere in un grido: scienziati, sociologhi, scrittori, comunisti, che nell'opera spesso mediocre versano gocce del loro sangue bruno a guizzare come un fosco lampo di poesia. Quanto è in essi di disorganico s'approfitta della stanchezza generale e fa scuola. L'irrisione è quasi vicina alla pietà e una passione sommessa vi ribolle; la critica sale a sprazzi lirici, illumina il cielo di lampi e, se anche non penetra e non rischiara accieca col suo bagliore. Nulla contraddice di più alla coltura: ma gli elementi della coltura li adoperano, li macerano quasi nella frenesia di distruzioni e di costruzioni che, proposte da un qualunque argomento particolare, voglion sempre risolvere, in furia sintetica, i problemi universali. Gli ebrei, e poi gli altri immigrati sono anche il tramite delle cose europee. Non sanno scernere le idee più esplosive, sanno caricarle opportunamente per lo scoppio. Quel che da noi si fa con la grazia e la vanità d'un ghiribizzo o d'una illuminatoria acquista, per la petulante fede con cui l'interpretano, valore di assioma centrale, creano aloni insperati di rispondenze intorno a uno qualunque dei nostri passatempi. Dieci versi liberi servono da pedana per lanciarsi all'assalto contro le servitù accademiche, i verbosi stilisti da parate, la fattura commerciale della poesia, l'indegnità artistica dell'ottimismo morale, tre novelle espressionistiche fanno da catapulta per squarciare la rocca del buon costume, del bell'ordine, del santo patriottismo, del meritato guiderdone e del lieto fine che domina e assoggetta le letterature indigene. Gli Americani eran giunti all'apoteosi della fiducia di sé: ogni conquista materiale gliela rimbalzava addosso e alla volontà non pareva mai che fosse aperta la via della rinuncia. Ormai è ricoperto il male ("di che lagrime grondi e di che sangue") e se tanti, ancora Pionieri, si affannano a trovare il pratico rimedio; alcuni ne hanno vista la radice. E l'amano. Guardano il male, denudato, come la cosa nuova sognata e sperata, il profondo spasimo che sale a galla e si può limitarlo e se ne piglia coscienza e possesso: e perciò è bello. Questo mistero represso - istinto, divagamento, pigrizia, irrazionalità, dubbio scientifico, indisciplina, violenza, speranza nell'assurdo, voglia di dannazione - si rovescia con fragore su l'umanità ignara, e ora vale; nessun gioco d'azione resiste, e bisogna fermarsi. La macchina umana di cui si era precisato il rendimento per tutti i secoli, è guasta come da paralisi. Ma questa adorazione della sosta è momentanea; nessuno ha il coraggio di predicare l'inerzia. Anzi, dover sostare è un altro male. La rivolta dell'anima soggetta non fu senza ragione; la parola per l'individuo è un lume, e non se lo permette se non con uno scopo: la sofferenza che tocca chi le pronuncia non vogliono che sia buttata; ed ecco deve diventar arma e promessa. Se il singolo si ripiega in sé è colpa della società matrigna. Ogni lirica postula una rivoluzione. L'attivismo dell'intellighenzia russa s'accoppia a un residuo d'oratoria Washingtoniana; da ogni manifestazione (diciamo pur "artistica") deve rampollare una libertà, che è in sé il bene. Non possono escludere l'individuo dal consorzio: quel che vede da sé e per sé deve immediatamente fruttare per tutti. Se pure ha visto che questo fruttato equivale a zero - se ha sentito 1'angoscia d'un altro bene perduto, e ha maledetto l'ordine, l'organizzazione e l'utilità, spettri ammonitori da cui non si sa liberare, e sanguina per rinascere a una verità unica sua: il zero lo si tramuta in un infinito chiedendo per tutti questa liberazione impossibile, l'angoscia bisogna rinnegarla perché si deve far raggiungere a tutti la mèta senza che più nessuno abbia il diritto di soffrire. E anche in questo senso primeggiano gli ebrei, che fanno delle loro lamentazioni un testo sacro. Il furore dell'eretico sta appunto nel non sapersi isolare, nel suscitare a ogni suono risonanza. Per sfuggire all'utilitarismo diventan profeti, che vuol dire scontisti di paure e di tripudii, in somma, banchieri. Credono di fondar la banca dell'ideale, e per ciò d'aver compiuto e additato un sacrificio; non s'accorgono che in quanto risponde a un interesse, serve alle passioni, guida secondo una direzione cui l'anima dei molti tende naturalmente, quest'azienda è una banca come tutte le altre, e non c'è sacrificio là dove si agevola una via. Non conta nulla, per la sua dignità, che quest'interesse sia mutato. A parlar di libertà invece che di guadagno quando di questo tutti sono sazi, non ci vuol punto fatica. L'America è il più grande - e il più imperfetto - fenomeno sociale e perciò non ci si può imparare nulla. Vive per pretto istinto, con un'amorosa coscienza collettiva, come gli animali simbiotici. Per vivere deve mutar di forma, di colore, deve psichicamente adattarsi. La dissonanza, quando si leva, è rotta, assorbita, sepolta nel brusio uguale, ritmico della sua vita, che si riconosce soltanto dal battere del tempo, come l'agitarsi grandioso e impersonale dell'oceano. Quella che sembra la terra del movimento (e del progresso) non sa altro che ripetere certi suoi atteggiamenti primitivi e irrigidirsi nella irrealtà d'una legge: può esser simbolo della Natura. Ma nessuno ci può sentire neppure per un attimo la libertà di Dio. Inutili quelle eresie: che non si producono se non lungo un'immobile via circolare. UMBERTO MORRA DI LAVRIANO.
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