STUDI SUL RISORGIMENTO
Il liberalismo hegeliano del mezzogiornoI.Bertrando SpaventaL'importanza ed i meriti della nostra corrente hegeliana meridionale per la formazione e il potenziamento del nostro liberalismo nella seconda metà dell'Ottocento è ormai fuori discussione. Se in via pratica essa si trovò in minoranza, idealmente dominava e informava tutta la Destra liberale, il cui programma già per sè stesso si ricollegava, attraverso lontane origini e segreti meati sia con l'hegelismo sia con la politica romantica della restaurazione. Gioberti è appunto (in tal senso) il tramite storico e ideale di questo processo storico: e Spaventa si rifà da lui, dimostrando contro i moderati cattolici (Tommaseo) che il filosofo di Torino moveva da una concezione della politica e dello Stato intimamente affiliata all'universalismo di Hegel. Giacché in Gioberti, come l'Idea crea e costituisce l'individuo, così il sovrano fa il popolo: e il Sovrano è lo Stato in tutta la sua idealità e concretezza nazionale e sociale. Né, i molti, la folla, possono essere fuori di lui, che è l'Uno: né altrove che in esso possono trovare la propria coscienza e funzione civile. Ma rimane oscuro in Gioberti come questa autorità fattrice dell'individuo sia da lui riconosciuta conforme a sè stessa e coincidente con la sua vera natura: come possa alla sovranità dell'Idea congiungersi l'autonomia dell'individuo: e insomma quale sia la libertà propria dello Stato liberale. È chiaro che la determinazione di questo punto coinvolge la legittimità del liberalismo: e tale è precisamente il problema politico intorno a cui si affatica Spaventa. Perché in Hegel, sì, veniva mostrato il graduale elevarsi della coscienza individuale alla vita dello Stato: ma con carattere fenomenologico e lasciando oscuro se questa elevazione fosse integrazione o non piuttosto disindividuazione della singola persona. Il problema comincia a formularsi nella mente di Spaventa già dal 1848, quando scriveva sul Nazionale di Napoli, diretto da suo fratello Silvio: "Lo Stato in Italia non si teme più come cosa assoluta ed infinita, di poi che ivi la libertà dell'uomo s'ebbe una forma astrattissima e universale, più alta e comprensiva della nazionalità; e questa forma fu la Chiesa. Onde lo Stato italiano divenne poi per la società italiana, son per dire, accidentale e non proprio poco durabile ed estraneo, dacché l'infinito e l'eterno dell'attimo umano si raccolse tutto nella religione. Ma quando, per opera del processo logico della storia, questo infinito fu ritrovato di nuovo nella vita moderna dello spirito, nel pensiero, nelle arti e nel diritto, e un uomo, tenuto per infallibile (Pio IX), venne a riconoscere che l'infinito della religione è cosa sola con l'infinito della società .... allora lo Stato italiano fu ricchissimo sopra la sua vera base, la nostra nazionalità fu ravvivata di novello spirito e fu proclamata la nostra indipendenza". Acuto giudizio storico, che trovò poi conferma e dilucidazione nel saggio di Spaventa sul Principio della riforma religiosa, politica e filosofica del secolo XVI: ma che a noi interessa perché vi si mostra l'elevazione della coscienza civile come il farsi infinito della singola personalità e il valore assoluto della vita politica, della società e del diritto come non diverso dal valore assoluto dello spirito. Una prima forma della speculazione politica di Bertrando Spaventa si manifesta ben presto in maniera sistematica nelle polemiche contro la Civiltà Cattolica e per la libertà d'insegnamento. Come più tardi in una sua memoria (la terza) su Giordano Bruno (1865) il Nostro dichiarerà in forma più precisa, egli viene tra il 1851 e il '56 svolgendo il suo concetto della divinità e della infinità dello Stato laico e liberale, di cui la lotta dello Stato contro la Chiesa era già una segreta affermazione: Stato laico e liberale che deve assorbire in sé la Chiesa pur senza distruggerla, non separarsene astrattamente. Lo Stato non è per Spaventa "una istituzione esterna e meccanica in servizio di qualcosa di più alto e fuori di lui", cioè della Provvidenza o della Storia: ma "lo spirito concreto della comunità umana, la universale potenza etica" in cui l'individuo si sublima (mem. cit.), dove è da notare come sia superato lo stesso concetto hegeliano ortodosso dello Stato come incarnazione fenomenica dell'Idea: no, l'Idea non trascende lo Stato né ha in esso un mero strumento storico, ma lo Stato è l'Idea stessa, nella sua assoluta verità, sotto specie politica. Tuttavia questa posizione, magnifica base di offesa e difesa contro i gesuiti, una volta calata nella realtà dei fatti non poteva a meno di manifestare un carattere dogmatico e irreale, che Spaventa si affatica senza indugio a correggere: non che lo Stato sia immediatamente l'Idea, ma tale si fa passo passo in via autonoma (è l'Idea nel suo svolgimento): non che nello Stato consista ex-abrupto la realtà dell'individuo, ma l'individuo vien ritrovando progressivamente la sua realtà piena nello Stato. L'esigenza continua e persistente della mediazione tra il singolo e l'universale, tra la storia e l'assoluto, costituisce qui il criticismo di Spaventa, che si sviluppa nelle discussioni intorno alla libertà della scuola. Queste cominciano a chiarire veramente il nuovo liberalismo spaventiano: mostrando come l'individuo si elevi alla sua coscienza politica attraverso il libero giuoco dei contrasti di sane e indipendenti energie: e come lo Stato liberale realizzi in questo contrasto la sua piena efficienza. Ma in particolare di fronte al problema della scuola libera la realtà storica impone a Spaventa questa transazione: che lo Stato non può permettere in tutta libertà un tal contrastare di forze politiche finché esso non si sia consolidato in modo da non temere che esse la soverchino. Vale a dire che l'origine dello Stato rimane ancora al di fuori e al di là di quella che deve essere la sua vita reale; e il realismo politico non vale, teoricamente, a scusare la contraddizione. Forza è pertanto di cercare il processo di questa origine dello Stato e mostrare come in essa si realizzi già la sua forma liberale, pur dentro limitazioni pragmatiche e svariate diversità storiche. (Non tutti gli Stati sorgono ad un modo, aveva già osservato Spaventa alla Civ. Catt.: ma ciò non toglie che tendano ad un unico fine, e che nelle diverse origini si possano sceverare le comuni categorie informatrici). A questa esigenza rispondono gli Studi sull'etica di Hegel (1869; nella ristampa: Principii di Etica), le cui pagine relative alla dottrina dello Stato rappresentano l'acme della teoria politica di Spaventa, e anche l'indice della sua originalità, poiché egli trasforma qui profondamente il pensiero hegeliano. Veniamo ora a conoscere che l'origine dello Stato è nel processo della società civile come unità mediata degli individui ("pare che tale unità nasca da molti, e pure nasce da sé, in quanto si è fatta molti. E invero i molti non sarebbero possibili senza quella unità che è la famiglia : e da' molti non sarebbe possibile l'unità nuova, se l'unità non fosse come principio nei molti): si passa da minore a maggiore e più completa Unità; processo che si svolge attraverso i gradi dell'economia pubblica e dell'organismo giuridico concreto. Ma tanto il sistema dei bisogni, che sorge dalle attività economiche individuali liberamente organizzantisi, quanto il sistema dei diritti personali non adeguano, perché instabili e varii, il fine della comunità: si esige costanza e sicurezza, unità di volere e di azione, cioè precisamente lo Stato. Pure lo Stato non è soltanto questo, non è un universale purchessia : è universalità etica in quanto "gl'individui, le forze, le potenze, gl'ingredienti, gl'interessi non sono pura materia e forza meccaniche, ma sono arbitrio, libertà, volere, cioè umanità". Per questa sua eticità lo Stato è liberale, ma non liberista: ha una vita propria positiva sostanziale: "non tutela soltanto, ma crea gl'interessi particolari", portando alla massima potenza il carattere universale ed autonomo dell'associazione e della corporazione, in cui Spaventa addita l'embrione relativo e particolare dello Stato medesimo. Questo è il vero Stato, individuo etico per eccellenza in cui s'inverano famiglia e società: mentre nello stato patriarcale o nello Stato come istituzione di pubblica sicurezza "non solo lo Stato non è il vero Stato, ma nè la famiglia nè la società civile esistono nella loro vera forma": e come individuo etico per eccellenza, unità personale di un popolo, esso rappresenta la sostanza morale conscia di sé, anzi la sostanza nazionale (lo "spirito") del popolo stesso. Ma qual'è l'intima natura e la legittimità della relazione fra l'individuo e lo Stato come principio e ragione della sua vita? Anzitutto si trova che lo Stato, avendo il suo interesse nella propria Universalità, fa suoi gl'interessi di ogni individuo e li difende dalle forze avverse: impedisce che il particolarismo dei singoli distrugga la società: e per far questo deve essere estraneo, come stato, alle lotte economiche e sociali, di cui si fa moderatore. In secondo luogo, lo Stato integra la sua funzione raccogliendo le energie degli individui, ciascuna delle quali tenderebbe a far centro di sè stessa, ad un fine e ad una attività comune. Esso è la mente del tutto, perché è ad un tempo la sostanza etica e la coscienza riflessa della società (il problema storico degli stati consiste nel contemperare questi due elementi, lo storico e il giuridico, la tradizione e la libertà) e pertanto ha una infinita superiorità sugli individui, è sovrano. La sovranità politica ha la sua forma nella costituzione, ma la sua forza positiva in sé stessa, nel suo proprio agire, che la determina e la giustifica nella storia; e ha la sua guarentigia vera e legittima nella coscienza del popolo, vero cemento dell'organismo statale e alimento del suo sviluppo. Il governo e i poteri pubblici in genere sono poi, per così dire, il volere dello Stato: ossia lo Stato nel suo atto vivente compiuto in sè stesso, persona tragica del vasto dramma del mondo, in cui lo individua la sua nazionalità. Sennonché il nostro desiderio di una effettiva conciliazione tra individuo e Stato o di una sistemazione del loro contrasto non appare qui soddisfatto. Nonostante tutti gli schiarimenti si resta per questo problema alla stessa e la bella designazione dello Stato liberale e nazionale mise à point di prima: cioè che l'individuo trova nello Stato i valori più alti del suo spirito pratico, e nel suo aderire allo Stato riconosce in esso naturaliter il suo più vero sè. Si son fatti molti passi innanzi e chiarite molte relazioni: ma la domanda non ha avuto nè avrà più da Spaventa una risposta diretta. Lo stesso conflitto tra libertà e tradizione, Stato di diritto e stato di fatto, viene risolto senza nessun riguardo all'individuo (che invece lo sente più che mai), ma solo in rapporto allo Stato per sé preso. E questo perché c'è in Spaventa una indifferenza tutta universalistica ed hegeliana, che pur trova in lui limiti e critiche ma non scompare mai, verso i diritti del singolo come singolo, nella sua irrepetibile individualità: diritti di cui è fatto, per contro, tutto il tormento della nostra anima moderna: e questa differenza gl'impedisce di avvertire in tutta la sua intensità il problema più assillante del liberali che ha dato il nome stesso all'idea. Si aggiunga l'astrattezza della divisione e distinzione da lui mantenuta tra società e Stato, principio sociale e principio politico, alla cui unificazione pareva pure avviato dal suo affermare la sottile e profonda eticità delle leggi economiche. "L'interesse individuale, infatti, che fa nascere la società, tende naturalmente a distruggerla appena formata, sforzandosi di servirsi di quell'organismo, che deve promuovere gl'interessi particolari di tutti, unicamente per il suo proprio fine. Quindi lotta d'interessi, che minacciano di sciogliere la società (lotte sociali). Chi può impedire tale dissoluzione?". Solo lo Stato. "Ma la stessa potestà dello Stato può essere usata da un individuo o da una classe per i suoi particolari interessi: e allora la lotta tra gli interessi sociali si trasforma in lotta tra il principio e il politico... Come si fa? Si escogita una costituzioni nella quale la personalità dello Stato (la personalità politica) sia elevata sopra le lotte sociali". (Princ.di Et, p. 158). Eccoci in questo modo assai più vicini allo Stato democratico che allo Stato librale: e la sublimazione del potere politico sopra la vita sociale, non solo conserva alcunché di teocratico (nonostante il costituzionalismo), ma, anziché rappresentare un elevarsi e potenziarsi dello Stato, ne procura la deminutio e l'impoverimento morale. Svolto rigorosamente questo principio porterebbe a dichiarare praticamente impossibile lo svolgersi della stessa positività dello Stato. Ma Spaventa dice però (e qui sta la sua ancora di salvezza): "la costituzione non si può separare dalle altre cause, nella cui unità è l'attualità dello Stato". Perché "la costituzione non è una forma astratta, uno schema o luogo comune, nel quale possano adagiarsi tutti gli stati indifferentemente (chiara critica al costituzionalismo del'21 e del'48). La vera e reale costituzione è quella che è propria, intimamente propria, dello Stato; ogni Stato, in quanto è un tutto vivente, ha la sua. Non è qualcosa di estrinseco, di artificiale, che possa adattarsi a piacere a uno Stato... Essa è la vita stessa, la forma della vita, dello Stato". Ma solo unificandosi con gli altri elementi di esso la costituzione lo pone nella sua piena concretezza: come unità positiva e creatrice, come critica di sé e fattore della storia del Mondo. E nell'affermazione di questa positività e storicità dello Stato, balenata già da Vico, divinata da Vincenzo Cuoco, postulata e celebrata da Gioberti, sta tutta la grandezza del liberalismo di Bertrando Spaventa, che chiariranno gli epigoni suoi, e sopratutto il fratello. SANTINO CARAMELLA.
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