IL NAZIONALISMO ITALIANO.
La dottrina nazionalista ha indicato i suoi limiti e i suoi vizi d'origine in Morasso e in Sighele, durante il periodo di preparazione; in Corradini e in Rocco nel momento costruttivo. La praxis esaurì la sua eroicità nell'avventura tripolina: e si ridusse a un fatto personale Federzoni che non è senza interesse per il collezionista di curiosità aneddotiche. Le adesioni del Gentile e del Varisco si valutano come casi di accademia o di sentimento che non recarono al nazionalismo nuove esperienze; Coppola è un fenomeno d'importazione francese: Sillani un documento di archeologia; Siciliani il traduttore degli Erotici; Tamaro un caso di patologia irredentista. Se si guardano le cose nel loro aspetto di tecnica il partito nazionalista è un poco il fratellino del partito repubblicano, un capriccio di studenti e di professori, "malattie d'infanzia", che si ritrovano e si spengono tutti e due nel fascismo. L'uno e l'altro si sono fermati a una pregiudiziale di costituzionalismo; l'uno e l'altro hanno cominciato con la poesia (Carducci e D'Annunzio) per continuare con l'oratoria e finire... con la filosofia. Ci sono analogie ancora più sostanziali nei risultati, ma segnandole ci si accuserebbe di avere troppo gusto per le croci e il cimitero. Già in certe constatazioni c'è un fondo di amarezza e una ineluttabilità di condanna che ci lasciano indifferente l'animo; e l'esame proposto si trasmuta nel doveroso adempimento di una indagine storica. Tutti sentiamo di non poter cercare qui orizzonti di scoperta, perché le avventure del viaggio sono previste e piccole, né sul cammino troveremo ragioni di discordia. Partecipando alla lotta politica peccarono d'inerzia sí che dopo venti anni di dottrina e quindici di azione lasciano dietro di sé un solo insegnamento, negativo: l'impresa libica. Ignorarono il problema operaio, il problema per eccellenza, intorno a cui si dovettero impegnare, di vita o di morte, i partiti del nostro secolo. Di tutte le questioni pratiche discussero per passatempo quasi compiacendosi di contraddizioni e di ignoranze assai compromettenti; combatterono la burocrazia difendendo l'accentramento: maledissero l'emigrazione e ne invocarono la tutela: scherzarono sul problema meridionale; annunciatori della religione dello Stato fecero comunella coi clericali; venerarono la Triplice Alleanza e mostrarono la loro finezza nelle leghe d'azione anti-tedesca; sindacalisti per scimmiesca virtù confusero abilmente i trust con i sindacati operai; critici della democrazia e del pacifismo non seppero inserirsi neanche in una tradizione borghese. Il nazionalismo francese, monarchico e reazionario, ha il gusto dell'arcaico e il sostegno rigoroso di una tradizione militare, religiosa, aristocratica, degna di non confondersi con l'enfasi demagogica del cosmopolitismo parigino. In Italia un atteggiamento analogo che non voglia peccare di copia fotografica dovrebbe ridursi a risalire la tradizione sabauda, come stanno facendo Burzio e Bacchelli, come fecero prima Mosca ed Einaudi. Invece l'Idea Nazionale e Politica sono irreparabilmente affezionate al cosmopolitismo e romanamente filistee, il gusto dell'arcaico si esprime in tendenze archeologiche, il culto della tradizione, non che dirigersi ai valori morali e agli sforzi di coscienza più istintivi, sdegna i limiti naturali della prudenza storica e si traduce in desideri vibranti senza ascoltare i suggerimenti diplomatici di un realismo elementare. Alfredo Rocco ha inventato il Nazionalismo economico, Enrico Corradini... la priorità della politica estera sulla politica interna. Guerriero l'uno e l'altro ma con l'anima del giurista o con la maschera del drammaturgo. C'è tra i Maurras, i Valois, i Barrès, i Daudet, da un lato e i Rocco, i Perozzi, gli Ercole dall'altro una differenza di misura e di spirito comico; quelli sono conservatori per ragioni di stile, e francesi di letteratura, questi giuristi sottili, preoccupati di fissare la formula e di allontanare le sfumature, per il lungo esercizio diventati famigliari con le entità pseudo-concettuali e al tutto alieni dall'ironia che è nell'individuo e dall'astuzia del particolare; imperialisti, per reagire all'aridità di una educazione astratta, con il fondamentale dogmatismo del costituzionalista. Se a queste deficienze di personalità e a questa frettolosa sicumera di praxis connetterete i limiti del momento storico e delle naturali punizioni, avrete collocato il nazionalismo nel suo mondo, in quella luce di ironia che gli aderisce senza essere frutto della crudeltà della satira. I primi profeti in ordine cronologico del nazionalismo furono poeti (Corradini, Papini, Borgese 1903) sognatori di espansioni e di attività; i secondi si divertirono più modestamente a sognare un collegio elettorale (Federzoni, Bevione) i terzi li abbiamo veduti operosi giuristi e candidi teorici. Sotto questa varietà di evoluzioni rimane, come unica sostanza sentimentale, un patriottismo ora filisteo ora retorico, sempre troppo ingenuo per avere validità politica (della politica il sentimento patrio può essere un presupposto non un elemento) e, come aspirazione ideale, l'ultimo tentativo di un astratto sogno hegeliano. Senonché anche Antonio Labriola e Croce avvertivano con l'esempio che sarebbe stato poco serio riprendere il concetto dello Stato hegeliano senza ricordarsi degli approfondimenti di Marx. Il nazionalismo restò una filosofia della storia ottimistica che parlò di Stato forte dimenticando l'elaborazione pratica da cui lo Stato scaturisce; teorizzò astrattamente un elemento del processo storico senza superare tutto ciò che di meccanico e di naturalistico vi si trovava immediatamente. Poiché in sostanza se i nazionalisti parlano di nazione e non di stato è per un vizio originario di educazione positivista. Potrete presentarci le tessere di Giovanni Gentile e di Balbino Giuliano, ma le orme di Morasso e di Sighele non si cancellano: ritornano gli "spettri": Alfredo Rocco dirige Politica e l`Idea Nazionale ed è deputato di Roma. Il nazionalismo si oppose al socialismo e al positivismo, rimanendo nel suo stesso piano: per parlare un linguaggio famigliare ai suoi nuovi aderenti, fu l'antitesi della tesi. La romantica democrazia reagendo contro il Risorgimento aveva cercato di superare il particolarismo che vi era implicito; poiché la nostra unità ci venne più dal realismo piemontese di Cavour che dallo storicismo critico di Cattaneo e dal liberalismo di Bertini e di Spaventa. Per vie diverse limitate, erronee Lombroso, Ardigò, Loria, reagivano, rimanendo provinciali, al filisteismo della nostra unità, volgarizzavano certe esigenze, si assimilavano grossolanamente un pensiero europeo, che noi non avevamo saputo apprendere dalla serietà di Cattaneo e di Spaventa. Opponendosi al loro umanitarismo romantico i nazionalisti non sentirono la vitalità che si nascondeva nelle loro aberrazioni. Da quella parentesi era nato il movimento operaio e, contro il garibaldinismo di Crispi, una franca coscienza libertaria, antecedente logico di una coscienza liberale, ossia di una coscienza politica. I nazionalisti credettero di poter fare a meno della lotta politica, credettero di poter tornare crudamente al povero sogno di disperazione del Gioberti. Essi accettarono il Risorgimento come un dato di fatto senza intendere che si poteva essere davvero unitari solo facendo il processo all'unità, solo spezzando il mito eroico per integrarne le deficenze per riparare al fallimento. I nazionalisti criticarono il parlamentarismo, la mentalità burocratica, lo spirito di rinuncia delle classi dirigenti, l'incoscienza della nostra politica estera, la superficialità dell'anticlericalismo, la pericolosa corruzione della massoneria. Ma non seppero rifare il processo organico che determinava necessariamente queste condizioni non seppero esprimere una volontà di redenzione aderente a capacità reali e ad elementi istericamente fecondi. Ciò per la loro stessa italianità, fatta di immediatezza e di ignoranza: si ripeteva nel partito il caso di provincialismo letterario di Alfredo Oriani. Ad Oriani, come ad eroe, si rivolgeva Giulio De Frenzi già vicino a trasfigurarsi nell'eroico clericalismo di Luigi Federzonì. Oriani infatti era stato l'ammiratore di Crispi e il teorico ottimista di Adua, Oriani era il "grand'uomo del villaggio" come il nazionalismo era il grande partito di un'Italia desolata e infantile. Il fatto è che, volgarizzandosi, irreparabilmente si disperdevano le qualità letterarie dell'eroica solitudine del romagnolo: restavano la sua mazziniana incoltura politica e i suoi arbitrari schematismi hegeliani che per ignoranza delle forze economiche e della genuina idealità dell'empiria, lo avevano condotto semplicisticamente a capovolgere Ferrari e a fantasticare di unità italiana compiuta quando il processo cominciava. (Si veda l'ultimo grossolano capitolo della Lotta Politica). Alla lotta politica di Oriani sono estranei i movimenti popolari: la Rivolta ideale è la più bella prova di astrattismo. I nazionalisti, che del resto lo studiarono assai superficialmente, ne apprendevano la pigrizia semplificatrice di realismi a cui il loro istinto era negato. Con Oriani, Prezzolini e Papini, cercarono, ai tempi del Regno, di far capire Mosca e Pareto: logico tentativo di integrazione culturale che fallì e che tuttavia rimaneva inferiore alla realtà imprevista che si veniva creando. Poiché la teoria delle élites è un valido canone di interpretazione storica ma crea tutti i pericoli dell'intellettualismo sociologico e scientifico da cui nasce. Più rigoroso di Mosca e di Pareto è pur sempre Sorel (e a lui infatti logicamente si accostò poi il Prezzolini) il quale trasporta la teoria delle aristocrazie nel suo ambiente naturale, ossia nella marxistica lotta di classe. Nel 1903 una teorica di conservazione si esprimeva necessariamente nel miracolo Giolitti; non la borghesia, ma il proletariato si stava schierando sul fronte di combattimento. Gli scrittori del Regno, negati a ogni realismo schernivano allora gli operai! E il movimento socialista, il primo movimento unitario laico, fu così riformista invece che rivoluzionario, democratico e pacifista invece che intransigente. Se chi parlava nel 1903 di élites e di lotta politica avesse avuto coraggio e senso della praxis, la rivoluzione operaia del 1919-1920 non sarebbe stata stroncata per mancanza di una classe dirigente. Il nazionalismo ha perduto in questa ignoranza la sua prima battaglia di politica estera. Mario Morasso definiva allora le rivendicazioni delle classi lavoratrici un eterno rompicapo! (M.M. L'imperialismo nel sec. XX. La conquista del mondo Milano Treves 1905) e levava il suo inno alle imprese di eroismo da caffè del Duca degli Abruzzi e del capitano Cagni. Enrico Corradini non poteva capire che la politica estera è in un certo senso più importante della politica interna solo in quanto è essa stessa politica interna: senza che sia meno vera la proposizione reciproca: ma a questa stregua la conquista libica non è un atto di imperialismo ma un atto di infantilità politica, proprio come la conquista della Dalmazia. Il realismo politico più elementare suggerisce ben più concrete grandezze; il problema della nostra emigrazione e il problema dell'autonomia sarda sono problemi di politica estera più importanti di molte concessioni africane, come una saggia politica di alleanze può offrire più specifica utilità di molti propositi bellici. Non basta affermare l'utilità delle guerre, per essere realisti in politica. Ma qui i nazionalisti dichiareranno tutti i loro meriti e il loro coraggio nell'avere resistito alle demagogie pacifiste. Ora l'esaurirsi nella mera critica di un'ideologia utopistica può essere la migliore prova di peccato d'utopia, e di errata valutazione della realtà. La pratica offre le critiche più decisive e inesorabili di certe illusioni storiche necessarie, senza che se ne diano pensiero i dottrinari. La guerra europea è stata vinta più per opera dell'astrattismo wilsoniano che del concretismo imperialista e questo concretismo non era meno ingenuo e astratto di quell'astrattismo. L'imperialismo dello czar lo conduce alla sconfitta. Trozchi predica la pace e fa la guerra. Nel disconoscimento di questa realtà consiste l'insuperabile dottrinarismo dei nazionalisti. Colonialismo e militarismo sono in essi più vizio dogmatico che volontà: fantasie innocue come i pericoli che s'illudono di neutralizzare. Il nazionalismo ha perduto la sua seconda battaglia quando ha dovuto subire le beffe del fascismo ed è stato eliminato per opera di Mussolini dalla vita italiana. Con la sua teoria delle aristocrazie il nazionalismo non è stato sufficiente neppure ad elaborare una praxis sanamente reazionaria, ossia una praxis borghese. Il corradiniano "regime della borghesia produttiva" non ha sostegni di intransigenza, né natura eroica che lo salvi dalla degenerazione del socialismo di stato. Gli industriali potranno essere condotti alla lotta politica con feconda intransigenza solo da un mito francamente liberista (vedi agrari bolognesi: Missiroli: Satrapia Bologna, Zanichelli, 1915). Ma il protezionismo stronca la formazione delle aristocrazie industriali, adeguando il merito all'intrigo, negando il processo vitale dell'industria nello statalismo, come le cooperative spezzano le naturali aristocrazie operaie promuovendo il parassitismo. I nazionalisti non hanno levato un solo grido contro la mentalità burocratica, anzi hanno esaltato i piccoli borghesi e gli impiegati per paura della rivoluzione. Il loro protezionismo è tutta una questione di mentalità e culmina in un ricatto per cui il parassitismo è mercanteggiato in cambio di un'adesione dottrinaria alla patria. Il neoguelfismo è una malattia costituzionale: e Alfredo Rocco ne è il profeta più nuovo. Il Primato giobettiano torna al suo astrattismo antiliberale, e l'hegelismo provinciale della Destra può acquetarsi con Gentile monarchico nazionalista, nell'enfatica palingenesi unitaria di un semplicismo conservatore, che resta nella lotta politica un episodio di oratoria arcadica. PIERO GOBETTI.
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