LETTURE
C. Erich Suchert - La rivolta dei santi maledetti - Casa Editrice Rassegna internazionale. Roma, 1921. Un ritegno facilmente spiegabile impedisce a noi, che non abbiamo fatto la guerra, di giudicare severamente le facili esibizioni e i progetti fantasiosi e le velleità di supremazia di coloro che han combattuto, anche quando teme ed azioni appaiono così improvvisate, buffonesche e prepotenti da prestarsi, per non dir altro, al ridicolo. Un originario sentimento di delicatezza ci trattiene dal parlare, ancor oggi, di quei tempi fortunosi, e delle polemiche e degli intrighi che li precedettero; a quel modo stesso che un'istintiva paura ci vieta d'indagare troppo profondamente certi problemi che si sanno fin dall'inizio inesorabili. Ma quando il combattente che ci parla sia per avventura uomo intelligente ed esperto, colto e raffinato, com'è l'autore del libro di cui ho l'intenzione di intrattenervi, allora cade qualcosa dell'abituale ritegno, e ci par possibile discutere, senza sollevare proteste e rancori, e quasi senza tema di dover più tardi rimpiangere il momento in cui primamente uscimmo dalla nostra tranquillità. Afferma il Suchert, a un certo punto del suo volume, di essere uno "fra quei pochi che serenamente, onestamente, dichiararono d'essersi arruolati volontari e di essere caporettisti". Ed è caporettista in quanto gli pare di aver scoperto, nei fenomeni di diserzione e di insurrezione militare che accompagnarono quella nostra sconfitta, un fatto "schiettamente sociale", una "rivoluzione" e financo "una forma di lotta di classe". Per semplificare la nostra discussione, non staremo ad indagare se per avventura, nella battaglia di Caporetto, non entrino altri elementi (più strettamente militari e strategici), oltre quella "nuova mentalità di rivolta e d'insofferenza" diffusa tra i soldati fin dal principio del 1917, e opportunamente messa in rilievo dal Suchert. Ed anzi accetteremo, senza sofisticare troppo, l'indagine volutamente sincera ed efficace che l'autore fa del progressivo formarsi e diffondersi tra le truppe dello stato d'animo di scontentezza e di odio che prelude alla ribellione dell'ottobre. Siam disposti a concedere, con apparente generosità, la verità delle premesse, solo perché siamo convinti che il libro, quando sia letto attentamente, si critichi da sé, e riveli ad ogni occhio esperto gli errori e le lacune della deduzione. Poiché se veramente le cause prossime di Caporetto son quelle additate dal Suchert, cioè la incosciente incomprensione del paese, ancora attaccato alla mentalità quarantottesca e affondato e nella vecchia concezione della bella morte e dell'atto eroico", e "l'inutilità dei continui massacri" ordinati a mente fredda e senza ragione; se veramente la diserzione significò, come vorrebbe l'autore, una protesta dei fanti contro chi non combatteva e contro la nazione che non li comprendeva; se le origini dello scontento e dell'insofferenza nelle trincee furono veramente soltanto come è del resto assai probabile, sentimentali e contingenti; allora potremo parlare di sommossa e di ribellione militare, ma non di rivoluzione; di contrasto di stati d'animo, non di lotta di classe. La lotta di classe richiede una preparazione solida, com'era affrettata e provvisoria, com'era quella di cui parla il Suchert; e vuole una coscienza stabile della distinzione delle caste, come di cosa antica, durevole e fatalmente necessaria, fino a che gli interessi dei minori non prevalgano su quelli dei grandi, e la rivoluzione diventi per ciò intrinsecamente improrogabile. La concezione della lotta di classe è, anche nella mente dell'operaio, in qualche modo un metodo generale e spregiudicato di misurare i fatti storici, di fronte al quale appaiono altrettanto necessari e giustificabili l'oppressione e la rivolta degli oppressi. E' chiaro che se i soldati prima di Caporetto fossero stati meglio trattati e più intimamente compresi, secondo il Suchert la ribellione si sarebbe evitata: bastava, come dice egli stesso a pagina 88, "un po' di bontà". Nella lotta di classe, la volontà di pacificazione, e d'affetto di una delle parti, non basta a diminuire la fatalità della rivoluzione, né a rallentare l'originario e fondamentale distacco delle caste. Per queste ragioni pare a noi che Caporetto non sia stato un fenomeno sociale o una forma di lotta di classe; né tanto meno il principio di una rinascita internazionale, della quale anche si parla qua e là in questo libro. In quest'opera di rinnovamento dovrebbero tenere il primo posto la Russia e l'Italia, nazioni come l'autore le chiama, proletarie, dove "l'idea nazionale non ha avuto ancora, per fortuna, il tempo di formarsi". "Questa mancanza di patriottismo" le pone "alla testa della nuova civiltà che sta germinando nel mondo; la quale è internazionalista e sorpassa la concezione di patria". Ma anche ammettendo (e in un certo senso si può ammettere) che la nuova civiltà mondiale superi il concetto di patria, come vuole il Suchert, ci par ovvio che non si possa veramente sorpassare ciò che non si è sperimentato in un momento anteriore. Dopo vari accenni sparsi, a pag. 129, l'autore vuol spiegarci che cosa sia veramente, nel suo pensiero, l'aspirazione rivoluzionaria del mondo contemporaneo: "l'umanità, fino ad oggi annullata di particolarismo, tende ferocemente a rovesciare le barriere che le impediscono di spaziare oltre i più lontani Orizzonti, ad allargare il cerchio delle sue possibilità, a ritrovare l'antico senso pelagico del sole, della terra e del mare... il senso oceanico detta vita". Non so se sia per causa dello stile forse eccessivamente metaforico; certo è che mi par di vivere tra le idee platoniche, o comunque in un'aria troppo rarefatta e insostenibile. Cerco vanamente di spiegarmi che bisogno ci fosse di mettere in campo i fenomeni sociali e la lotta di classe per raggiungere un risultato così vago e illusorio. Del resto mi viene in mente un'idea più generale, che non sarà forse del tutto inutile esprimere. Pare a me che il gran parlare che da qualche tempo si fa, di crisi generali e complessive (oltre e sopra a quelle, che non son poche, particolari a ciascuna nazione e a ciascun gruppo di interessi), sia altrettanto noioso e ridicolo quanto una preoccupazione costante e lamentosa del dolore cosmico. II che non vuol dire che una generale valutazione pessimistica della realtà, e un sentimento catastrofico della situazione politica presa nel suo complesso, non siano per avventura inevitabili, ogni qualvolta si vuole penetrar troppo addentro nei problemi primi e massimi, e risalire ad indagare le cause originarie e fondamentali. Senonché è almeno altrettanto se non più manifestamente certo il fatto che appena abbandoniamo le entità metafisiche e ci facciamo a considerare un particolare problema con il particolare interesse che deriva dal nostro temperamento e dalle nostre consuetudini, allora il senso del dolore cosmico lascia il posto a un'accettazione rassegnata e, direi, religiosa della vita; e la crisi internazionale della vita politica si fraziona, adattandosi alle menti degli uomini. che non saprebbero risolverla se non scomponendola nei suoi elementi singoli. Che è poi l'unico metodo per riuscire a fare, in questo mondo, qualcosa di certo e di concludente. NATALINO SAPEGNO.
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